testo integrale con note e bibliografia

1. I “Gilet Gialli”.
Somigliante ad una simpatica baraonda, almeno all’inizio, una folla febbrile e impaziente, composta perlopiù da operai, impiegati, piccoli imprenditori, lavoratori autonomi e pensionati non certo agiati, si è accampata a partire dalla fine del 2018 e per mesi e mesi sulle rotonde di Francia, non prive di valore simbolico, istituendo posti di blocco. Tutti indossavano il giubbotto giallo catarifrangente , presto divenuto simbolo di identificazione del movimento. Quelle persone, spesso al freddo e sotto la pioggia, con gazebi che li proteggevano alla meno peggio, avanzavano rivendicazioni le cui parole chiave, per così dire (transizione ecologica, equità fiscale, giustizia sociale, servizi pubblici etc.) evocavano i temi affrontati nei Corsi dell’Ecole nationale d’administration
Il movimento ruota attorno alla richiesta di un “salario minimo” adeguato all’aumentato costo della vita ed è stato alimentato da un sentimento, quello dell’ingiustizia, tra chi ha (i soldi: “i ricchi”; il potere: le “élite”) e chi non ha, o ha troppo poco.
L’emergenza pandemica. – Quando la crisi conseguente all’epidemia da Covid-19 si è abbattuta sul Paese, nei primi mesi del 2020, alcuni lavoratori hanno svolto un ruolo fondamentale nel soddisfare i bisogni più elementari dello stesso, in particolare quelli occupati nelle professioni sanitarie e volte a rifornire la popolazione dei beni di sussistenza. Senza di loro, si rischiava il collasso. Lungi dal crollare, l’attività è proseguita, e in modo del tutto miracoloso data la natura improvvisa della crisi, come se la biologia darwiniana governasse anche il lavoro degli uomini: l’adattamento è stata la loro risposta al pericolo. Lungo tutta la catena, queste categorie di lavoratori hanno mostrato il coraggio di non venir meno a quello che consideravano il loro dovere, ammantando di verità l’affermazione di Lamennais: «Il dovere è la base della società, la condizione indispensabile dell’esistenza comune» . La crisi ha portato la gente comune alla ribalta, facendola uscire dall’anonimato abituale in cui è confinata e restituendola ad una sorta di esistenza sociale, in assonanza a come la guerra aveva «dato importanza alla gente comune» (Beveridge). La straordinarietà delle circostanze storiche hanno reso eroiche figure professionali a prescindere dal loro grado e, anzi, “ipostatizzando” spesso figure fino ad allora relegate in fondo alla “gerarchia” dei ruoli professionali.
La fisionomia dei Gilet Gialli è quella della «società dei piccoli, dei salariati modesti, dei lavoratori autonomi, dei piccoli negozianti, degli artigiani, di tutti coloro che parlano di una vita ridotta, tagliata in due, che va in stallo dalla metà del mese» . Sono gli stessi discorsi che ritornano, «una storia fatta di arrangiarsi, di lavori mai definitivi e di rinunce crescenti [...]. La stessa sensazione di essere schiavi della propria vita...» . Anche se sociologicamente riguarda(va) in primo luogo gli abitanti dei quartieri popolari (les banlieues), il movimento dei Gilet Gialli è rimasto geograficamente e forse anche “etnicamente” relegato; d’altra parte, i lavoratori delle zone proletarie della regione parigina (in particolare Seine-Saint-Denis) hanno pagato il prezzo forse più pesante per il lavoro collettivo svolto durante la crisi epidemica.
Il movimento dei Gilet Gialli e l’epidemia da Covid-19 hanno in comune il fatto di aver rivelato la sfida verso un certo modello sociale. Il conflitto che ne è conseguito fatica a essere incanalato. Poiché è davvero una «grande questione sociale sapere se la parete di vetro proteggerà sempre il banchetto delle bestie meravigliose e se la gente oscura non verrà a prenderle dall’acquario e le mangerà”, l’azione pubblica deve porre al centro dei suoi obiettivi la giustizia sociale, fondamento della Repubblica sociale.

2. La questione sociale.
Già da tempo i posti di lavoro occupati dalla classe media appaiono sacrificati con un fenomeno destinato, in futuro, ad accentuarsi. In effetti, i posti di lavoro industriali sono condannati a scomparire progressivamente a causa della globalizzazione e degli sviluppi tecnologici (robotizzazione, automazione, tecnologia digitale), con un processo che, invero, è in corso da trent’anni. Non mancano tentativi volti a rianimare un tessuto industriale necrotico, puntando sulle industrie più innovative ed efficienti, che forniscono i posti di lavoro più qualificati. Il crollo del tessuto industriale ha colpito la maggior parte dei settori, compresi quelli che sembravano più solidi, come l’industria automobilistica e agro-alimentare. Serge Tchuruk, nel periodo in cui era a capo di Alcatel, aveva teorizzato l’azienda “fabless”, spogliata dei suoi asset per essere più agile, concentrata su attività intellettuali ad alto valore aggiunto (ricerca e sviluppo), e privata, invece, delle attività manuali soggette alla concorrenza globale (produzione e assemblaggio). Un segno dei tempi: il ministero dell’Industria è da annoverare a pieno titolo tra le vestigia del vecchio mondo.
Secondo la teoria schumpeteriana della distruzione creativa, i nuovi posti di lavoro sostituiscono quelli persi. In termini puramente quantitativi, tale teoria ha un fondo di verità. La stessa, tuttavia, non sembra tenere conto del livello di qualificazione richiesto per occupare posti di lavoro sostitutivi e creativi ad alto valore aggiunto, cosicché l’ipotesi della permutabilità dei lavoratori contiene in sé, probabilmente, un certo grado di semplificazione, rivelandosi in buona misura fallace. Ciò è ancora più vero per i posti di lavoro creati nei servizi a basso tasso di creatività, per così dire, ripetitivi e non delocalizzabili. La costruzione del magazzino Amazon a Chalon-sur-Saône sul sito degli ex stabilimenti Kodak, o l’installazione del Big Bang Smurf (ora Walygator Grand Est) al posto del laminatoio di Hagondange, ne sono un chiaro esempio. In particolare, i lavoratori maschi si trovano collocati perlopiù nei settori della logistica e del trasporto su strada, mentre le donne hanno trovato occupazione maggiormente nel settore dell’assistenza e dei servizi di cura.
Così, sul primo fronte, l’operatore di carrelli elevatori ha sostituito l’operaio metalmeccanico. La globalizzazione dell’economia, lo sviluppo vertiginoso dell’e-commerce e le politiche di azzeramento delle scorte hanno portato ad un notevole e continuo flusso di merci: la logistica svolge un ruolo centrale. Sul versante dell’occupazione femminile, la popolazione operaia in esubero si è massicciamente riconvertita in occupazioni poco qualificate nel settore dei servizi alla persona; una quotidianità difficile, filmata da Gilles Perret e François Ruffin , e poco felice, che Florence Aubenas ha finemente tratteggiato nel suo libro Le quai de Ouistreham , che ha per protagonisti gli ex dipendenti del bacino occupazionale di Caen, un tempo impiegati nelle attività industriali della metallurgia, dell’automobile e degli elettrodomestici.
Un altro dato inoltre non passa inosservato: la promozione di lavoratori autonomi poco affermati e poco “genuinamente” autonomi, piccoli datori di lavoro e piccole imprese al servizio del loro unico committente, nel contesto del movimento di esternalizzazione in corso da molti anni. L’imprenditorialità individuale (che trasforma, taumaturgicamente, un disoccupato in un’azienda … in difficoltà) è incentivata, d’altro canto, anche dalle potenzialità offerte dalle piattaforme digitali, le quali permettono di ridurre i costi di transazione richiesti, al contrario, dalla necessità tipica dell’azienda tradizionale di unire in un unico luogo, diretto e coordinato, un insieme di fattori organizzativi, mansioni e lavoratori e che finisce per far apparire anacronistica l’immagine prima monolitica del ricco boss caricaturale.
La polarizzazione del mercato del lavoro si rivela, così, in modo plastico e per questo in tutta la sua crudezza. Il mercato del lavoro viene svuotato dalla sua parte centrale. Da un lato, ci sono occupazioni che richiedono qualifiche elevate e che sono richieste in un mercato del lavoro ristretto. Per usare un’espressione in voga negli Stati Uniti, si tratta di lovely jobs ben pagati e molto protetti. Dall’altro lato, ci sono i lavori poco qualificati, che sono così mal pagati da rendere poveri chi se ne occupa. Ai lovely jobs si contrappongono i bullshit jobs. Tra questi vi è il lavoro a spot, la cui diffusione è stata resa possibile dall’avvento della tecnologia digitale. La categoria dei bullshit jobs comprende anche il lavoro di cura, sia nelle istituzioni (case di cura, ospedali, enti locali) sia nell’ambito del lavoro domestico e/o familiare (addetti ai servizi di accudimento della persona e assistenti all’infanzia), così come le mansioni di movimentazione non automatizzate nell’industria (logistica) e nei servizi (addetti alle pulizie, cassieri).
Henri Mendras ha utilizzato l’immagine della trottola per descrivere il movimento verso la mediazione della società a cavallo tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta. La “pancia” della trottola simboleggiava la classe media, con le minoranze dei ricchi e degli emarginati posizionate nelle parti collocate, rispettivamente, sopra e sotto la stessa. Oggi la classe media è pressoché scomparsa: la trottola è diventata una clessidra. In tale contesto il titolo di studio è diventato il “marcatore strutturante” e un fattore determinante per il tipo di lavoro svolto, mentre l’assenza di esso stigmatizza e genera una forte svalutazione culturale e di status. La contrapposizione è netta, per usare espressioni comuni negli Stati Uniti, tra i Front Row Kids e i Back Row Kids. Il modello di riferimento è il laureato che vende le proprie competenze a caro prezzo sul mercato del lavoro, supportato da uno staff retrostante che se ne prende cura. Ciò nondimeno, come già anticipato, l’importante ruolo svolto dai Back Row Kids durante la crisi epidemica ha avuto un valore riabilitativo, ed è netta la sensazione che siano stati tali lavoratori a portare avanti il Paese mentre i Front Row Kids, che di solito sono considerati e valorizzati, finanziariamente e simbolicamente, hanno avuto un ruolo, nell’immaginario collettivo, non determinante.
Il modello sociale francese affonda le sue radici nel “debito sociale” proclamato dalla Rivoluzione francese, ripreso un secolo dopo dal movimento di solidarietà di Léon Bourgeois e dal movimento repubblicano, ed ha cercato di fondare l’organizzazione sociale sulla solidarietà, considerata il culmine del processo di civilizzazione dell’umanità . Lo Stato sociale è stato costruito su tre basi: il diritto del lavoro, la sicurezza sociale e i servizi pubblici garantiti in condizioni di uguaglianza, continuità e accessibilità. Oggi, però, il modello occupazionale - cioè, uno status che garantisce un reddito e una protezione sociale a ciascun lavoratore - è in crisi, almeno per una parte della popolazione. Si tratta di persone che guadagnano poco in termini di retribuzione, si trovano in una situazione di precarietà che deriva dalla circostanza che al tipo di lavoro svolto non è riconosciuto lo status di lavoratore subordinato e/o dalla frammentazione dei periodi di occupazione dovuta al ricorso al lavoro temporaneo, a tempo determinato e a tempo parziale. Quando il lavoro è svolto in qualità di lavoratore autonomo, il diritto sociale viene addirittura eluso. La composizione della delegazione ufficiale dei Gilet Gialli nominata per incontrare le autorità è illuminante al riguardo: due lavoratori autonomi, un lavoratore temporaneo e la figura simbolo del movimento, la signora Mouraud, che ha dichiarato di essere ipnoterapeuta, fisarmonicista e responsabile della sicurezza antincendio. Non a caso anche Ken Loach, con decisione non casuale e senz’altro segno dei tempi, ha scelto le professioni della coppia protagonista del suo film Sorry I miss you, individuandole in quelle di addetta ai servizi di cura e di fattorino freelance della logistica.
Ciò che accomuna tali lavori è che sono meno ben pagati (al punto da connotarsi come poveri) e meno tutelati rispetto ai posti di lavoro andati distrutti nell’industria e nei servizi, portando con sé inevitabilmente un tenore di vita più basso per chi li svolge. Per molti lavoratori relegati ai Bullshit jobs, l’orizzonte sembra limitato. In passato, a seconda delle proprie capacità e dei propri investimenti formativi e occupazionali, si poteva sperare di scalare i livelli e i gradini che il contratto collettivo descriveva con dovizia di particolari, per raggiungere posizioni manageriali, di supervisione o addirittura dirigenziali. Al contrario, i nuovi settori occupazionali non offrono le stesse prospettive di sviluppo. L’unica speranza di avanzamento è spesso quella di allontanarsi dai ritmi infernali di lavoro e dai turni che si susseguono e trovare rifugio in un lavoro non molto meglio retribuito, ma almeno meno faticoso.
Una frazione della popolazione cd. «Francia periferica» si mantiene lavorando nel settore “informale”, investendo nel mercato sommerso, come dimostrano il successo del sito web Le bon coin e i mercatini di ogni genere che abbondano nelle province, o ancora gli hard discount dove le promozioni sui prodotti di marca (si pensi alla promozione sui vasetti di Nutella ) possono degenerare in una rissa che richiede l’intervento della polizia. Il tessuto sociale francese, per usare le parole di Braudel , si sta lacerando, le tutele collettive si stanno erodendo e la lunga opera della Repubblica Sociale rischia di crollare. Queste trasformazioni appaiono sullo sfondo della letteratura contemporanea, in particolare nei romanzi di Michel Houellebecq e Nicolas Mathieu.

3. Il conflitto sociale.
Quale coscienza di classe può maturare per coloro che sono occupati nei servizi domestici di cura ed accudimento della persona? L’identità e gli interessi comuni faticano a prendere forma nell’azione collettiva e la mancanza di coscienza di classe di questi gruppi evoca ciò che Antonio Gramsci chiamava classi o gruppi subalterni: «Agli antipodi della classe operaia organizzata e coscientizzata dal Partito Comunista e [dai sindacati], il proletariato della logistica e dei servizi della Francia post-francese ricorda irresistibilmente i contadini del Mezzogiorno all’inizio del XX secolo [...]: in perenne fermentazione, ma come massa sono incapaci di dare espressione comune alle loro aspirazioni e ai loro bisogni» .
Prima i dominanti si opponevano ai dominati. In cambio, mobilitavano un’appartenenza collettiva che proteggeva gli individui dal sentimento di subalternità e dava loro persino una forma di orgoglio, veicolata dai sindacati e dai partiti di sinistra. L’epoca attuale è quella della disgregazione del legame sociale, della frammentazione dell’identità collettiva (e quindi della solidarietà che dalla stessa si generava), del crollo del senso di appartenenza professionale, in cui ogni individuo si sente responsabile dei propri fallimenti, il che alimenta «la denuncia, l’odio, il risentimento e la capacità di disprezzare a propria volta» . Queste tristi emozioni sono state esibite e lasciate per così dire a briglia sciolta durante il movimento dei Gilets jaunes, trasmesse ad nauseam sui social network e sui canali televisivi. Sono stati dati spazio e visibilità anche alle manifestazioni violente, e persino alle sommosse, secondo schemi del tutto sconosciuti alla tradizione del movimento sociale iniziato all’inizio del XX secolo quando, nel 1909, a sostegno del libertario spagnolo Francisco Ferrer, Jean Jaurès volle impressionare la borghesia scegliendo di manifestare con atteggiamento calmo. Da allora, le manifestazioni sono state pacifiche, con un inizio e una fine, sorvegliate da un servizio di sicurezza e rispettose dell’ordine repubblicano. Niente di tutto questo è accaduto invece con i Gilet Gialli.
Siffatto movimento sembrava inserirsi in una tradizione di jacqueries e rivolte popolari e per molti versi evocava i sans-culottes. Con una differenza sostanziale, tuttavia: quella di una visione “piatta” del movimento priva, cioè di afflato progettuale. Anche a monte, d’altro canto, tutto è avvenuto come se la maggior parte dei Gilet Gialli non avesse «la scienza della propria disgrazia» per usare una bella formula di Fernand Pelloutier, che militava per educare i lavoratori sindacalizzati alla lotta contro il capitalismo.
Come detto, l’epoca attuale è quella della polverizzazione dell’identità collettiva e, di conseguenza, della solidarietà che essa generava. Cosicché in essa si alimenta anche la violenza.
E infatti non sono (più) i datori di lavoro a finire nel mirino dei Gilet Gialli, bensì ricchi ed élite, con tutta l’incertezza che, in modo evidente, circonda il perimetro di queste categorie destinatarie di sentimenti di disprezzo, tanto che sembrava che lo stesso Presidente della Repubblica francese si trovasse all’incrocio dei due mondi .
In tale scenario, i partiti di sinistra fanno fatica a pensare alla questione sociale e i sindacati, dal canto loro, pur fautori dell’organizzazione del movimento, hanno mostrato diffidenza nei confronti dello stesso. Al di là dell’argomento psicanalitico (il colore giallo ha un significato particolare per il movimento sindacale: i «gialli» sono i sindacalisti vicini al (se non conniventi col) datore di lavoro), il sospetto di legami con l’estrema destra e l’attacco frontale alle trattenute che erodono il «salario di sussistenza» hanno alimentato la diffidenza. Inoltre, fin dall’inizio, anche per quanto riguarda la tassa sul carburante, il discorso dei Gilets jaunes ha offeso le sensibilità sindacali più aperte alla questione ambientale. Per la CFDT (Confédération Française du Travail), la lotta al riscaldamento globale «richiede un cambiamento di comportamento che non possiamo più evitare» e Sud-Solidaires, un altro sindacato, parte dal presupposto che «il modello attuale non è ecologicamente sostenibile». Lapidariamente, tuttavia, a segnare una sorta di incomunicabilità tra le due visioni, è giunta la risposta, improntata ad estremo pragmatismo, dalle rotonde: «Voi ci parlate della fine del mondo, noi vi parliamo della fine del mese».
Alcuni sindacati hanno cercato di aderire al movimento tanto maldestramente quanto invano, non riuscendo a centrare l’obiettivo dello sciopero generale dopo aver, come dice la vulgata, invocato «la convergenza delle lotte». D’altro canto, gli stessi sindacati sono stati tenuti a distanza dai Gilet Gialli che, occorre ammetterlo, da un punto di vista sociologico non costituiscono la parte di popolazione che aderisce ai sindacati e ancor meno quella che vi milita. Lo sciopero nella sua accezione letterale è stato evitato dal movimento che infatti ha preferito dispiegare le sue forze il sabato, giorno non lavorato dai partecipanti. Molti hanno detto di non avere i mezzi per scioperare e, del resto, la scelta è coerente con una manifestazione che non era rivolta ai datori di lavoro, bensì allo Stato, e che quindi non mirava a sottoscrivere il mito dello sciopero generale e della grande notte, del tutto estraneo al “catechismo” dei Gilet Gialli. Negli anni ‘80, il movimento dei “coordinamenti” (costituito dalla Société Nationale des Chemins de Fer: Ferrovie dello Stato (SNCF), infermieri, etc.) è fiorito al di fuori dei sindacati, ma lo stesso poggiava pur sempre su una struttura e dei leader assenti nel movimento dei Gilet Gialli. Anche le autorità pubbliche, d’altro canto, per tutta la durata del recente movimento, hanno largamente ignorato i sindacati e hanno scelto la linea di un dialogo diretto con la popolazione, rifiutando la proposta di un compromesso avanzata dalla CFDT all’apice del movimento.
In ogni caso, rientra nell’ordine delle cose comprendere più agevolmente il ruolo e l’importanza rivestiti dai sindacati e dai partiti politici, quali interlocutori che mirano a raffreddare i conflitti, perché «capaci di riunire le persone, di farle discutere tra loro, di stabilire le priorità delle rivendicazioni, di definire la rappresentanza, di inquadrare le manifestazioni, di limitare gli eccessi e, infine, di impegnarsi nella ricerca di soluzioni», come ben spiegava Laurent Berger, ex segretario generale della CFDT . La tecnica del dialogo diretto è, all’opposto, pericolosa, come si è visto chiaramente durante i mesi di rivolta, perché non è adatta a canalizzare e ordinare il coacervo di rivendicazioni prive di coerenza complessiva e talvolta persino contraddittorie, nei confronti delle quali nessuno di coloro che le avanzano vuole cedere.
Torna alla mente la visione che propugnava un rapporto diretto tra politica e popolo: «la socialdemocrazia è talvolta faticosa, perché un compromesso è sempre più difficile da raggiungere rispetto ad una decisione presa da pochi e imposta ai molti. Ma è più efficace» . Nel contesto dei Gilet Gialli, tuttavia, quella stessa visione si è rivelata pericolosa.

4. La ricerca della giustizia sociale.
Si può ben dire che il sangue che scorre nelle vene dei più pessimisti si raffredda quando essi pensano al domani. Il rischio è quello di alimentare le fiamme dell’ingiustizia sociale, o almeno il sentimento di ingiustizia sociale, ricordando la profezia della Costituzione dell’OIL del 1919, secondo cui non può esistere una pace duratura e universale che non sia basata sulla giustizia sociale. Le immagini dei Gilet Gialli hanno dato un’idea di quale movimento sociale – di fatto, è bene rammentarlo, ancora latente - violento e per certi versi inviso essi incarnino. Il Presidente Giscard d’Estaing ha giustamente parlato di «guerra civile fredda». Il rischio è quindi che si crei una situazione di stallo in cui si assiste ad una società letteralmente fratturata dalla questione sociale, sapendo che alle divisioni sociali si sovrappongono quelle culturali e territoriali, che accentuano la sensazione di secessione della popolazione (a questo proposito, sono significative, e al contempo inquietanti, le parole di uno dei candidati di sinistra alle elezioni europee, che illustra la tesi di David Goodhart : «Quando vado a New York o a Berlino, mi sento culturalmente più a casa di quando vado in Piccardia» . È spaventoso che ogni zona fuori dai confini di Parigi stia diventando una terra sconosciuta per l’intellighenzia parigina .
La questione essenziale è quella dell’insicurezza sociale, per usare l’espressione di Robert Castel, le cui opere hanno una forte influenza sul dibattito contemporaneo . Nell’antico regime, l’individuo non esisteva per sé stesso e si fondeva con le comunità a cui apparteneva (la famiglia, il villaggio, la comunità parrocchiale o professionale o le relazioni clientelari). Era definito dal suo status e dai suoi doveri. La Rivoluzione ha sganciato l’individuo dalle protezioni collettive, ha spezzato i legami di solidarietà e di privilegio che «ferivano la libertà e l’uguaglianza dei diritti» e ha dissolto le appartenenze «protettive» . Era la proprietà, resa sacra, a garantire la protezione degli individui. Lo status della classe non proprietaria divenne una questione importante dopo le rivoluzioni industriali. La reazione fu quella di attribuire tutele al lavoro: vennero gradualmente imposti sistemi di garanzia del lavoro subordinato e il lavoro divenne una sorta di “proprietà sociale’’ paragonabile a quella “privata” in termini di sicurezza che offriva. Da allora, il bisogno di protezione sociale è diventato parte della natura dell’uomo contemporaneo; come si è affermato, «l’individuo contemporaneo non può stare da solo perché è come infuso e attraversato dai sistemi collettivi di protezione e sicurezza istituiti dallo Stato sociale» . L’individuo isolato non esiste, ripeteva Léon Bourgeois: i ricchi e i poveri sono ugualmente esposti ai mali biologici (come ha dimostrato la crisi epidemica) e sociali, e le sofferenze patite dai primi si ripercuotono inevitabilmente sulla vita dei secondi, che sono interdipendenti e solidali. Le persone sono in debito le une con le altre. Come alla fine del XIX secolo, quando il liberalismo ortodosso sembrava sempre meno accettabile con l’aumento delle disuguaglianze sociali e la spinosa questione sociale, lo stesso obiettivo di riconciliazione delle classi e di conservazione della pace sociale poteva giustificare il costante aggiornamento del contratto sociale.
Oggi si pone con drammatica attualità la questione della valorizzazione dello status sociale dei lavoratori più precari. Non dovremmo forse ripensare la gerarchia sociale delle occupazioni se si scopre, come ha dimostrato la crisi epidemica, che le occupazioni meno apprezzate simbolicamente e meno remunerate finanziariamente sono quelle che a conti fatti sono tra le più utili alla società? Un ragionamento che, provocatoriamente, potrebbe portare a tracciare una linea di demarcazione tra chi è utile e chi è inutile alla società per giustificare, in una sorta di inversione dei poli, la ricostruzione delle gerarchie sociali e allineare la gerarchia dei lavori al loro grado di utilità sociale. La suggestione ricorda Saint-Simon e la sua parabola, che opponeva le api (la “classe industriale”: imprenditori, produttori, finanzieri, ma anche artigiani, operai e contadini), che partecipano alla produzione e allo scambio, ai calabroni (la nobiltà e il clero), che vivono del lavoro degli altri.
È indubbio che sia degna di biasimo la circostanza secondo cui i lavoratori più utili al bene comune siano anche i meno considerati in termini di riconoscimento simbolico e materiale. Tuttavia, è altrettanto certo che sia una caratteristica dei progetti irrealizzabili, come il socialismo utopico di Fourier, Cabet o Proudhon, astrarsi dalla realtà. D’altro canto, il progetto di invertire la gerarchia sociale, avendo come unica bussola l’utilità sociale dei mestieri, porta certamente sulla pericolosa strada delle strutture lavorative collettiviste e delle costrizioni autoritarie. Prosaicamente, quale mestiere potrà dirsi inutile per il bene comune? Vorremmo dedicarci esclusivamente alla cura degli altri? L’attività umana non può essere seriamente ridotta a questo. Vogliamo isolare le attività vitali? I contorni di tali attività sarebbero immediatamente discussi e messi in dubbio, come dimostra una decisione del 22 marzo 2020 del Consiglio di Stato francese . L’impasse pare, al riguardo, insormontabile e l’inversione della gerarchia sociale sembra risolversi in null’altro che nelle parole della Chiesa (“Gli ultimi saranno i primi”, Matteo 20:16).
Tuttavia, come scriveva Simone Weil, «l’intera società deve prima essere costituita in modo tale che il lavoro non trascini con sé coloro che lo svolgono» : la questione del lavoro dignitoso, che guida l’azione dell’OIL dal 1999 , dopo la Dichiarazione di Filadelfia del 1944 , deve essere al centro della riflessione e dell’azione. I concetti marxisti di sfruttamento e alienazione non sono obsoleti quando il lavoratore appare ridotto a mero strumento di produzione, a mera forza lavoro, a valore esclusivamente materiale, tanto che talvolta si affacciano sul mercato del lavoro persino metodi disumanizzanti, con lo spettro della disintegrazione sociale . La situazione di tutti coloro la cui vita è appesa a un filo , delle persone impiegate in condizioni precarie e la cui retribuzione non consente di sfamare se stesse (i lavoratori poveri) e le loro famiglie, è preoccupante. La rivisitazione sociale che si rende necessaria è innanzitutto materiale riguardando, in primo luogo, la questione salariale e di equa ripartizione del valore aggiunto tra capitale e lavoro. In tale senso, è evidente che le basi della partecipazione non hanno perso la loro ragione d’essere. La Chiesa parla, al riguardo, di una “ecologia sociale” : «Ogni persona, in virtù del suo lavoro, ha il pieno diritto di considerarsi al tempo stesso comproprietaria del grande cantiere in cui è impegnata assieme a tutti gli altri» .
La crisi epidemica è anche un’occasione per mettere in discussione il nostro modello di sviluppo e per ipotizzare profonde trasformazioni nei nostri metodi di produzione, nei nostri comportamenti di consumo, nei nostri stili di vita e nel nostro rapporto con la natura. In risposta allo sconvolgimento economico, la scelta potrebbe essere, per guidare lo sforzo di ricostruzione, quella di una ripresa verde incentrata sui bisogni essenziali. Le politiche pubbliche di rilancio sarebbero quindi l’occasione per una trasformazione ecologica in grado di fornire posti di lavoro dignitosi. Il ruolo dello Stato appare al riguardo centrale, in quanto precedenti crisi epidemiche avevano portato lo stesso a superare le sue tradizionali funzioni istituzionali per diventare «custode della vita e delle popolazioni».
Il ripristino dei servizi pubblici e delle tutele per coloro che operano al di fuori del modello occupazionale sembra essere necessario, in ambito nazionale o - se vogliamo essere utopici - europeo, per prevenire la violenza delle popolazioni alle prese con le disuguaglianze. Le recenti crisi potrebbero così divenire un’opportunità per rifondare lo Stato sociale. Il separatismo sociale che sta frammentando la società porta con sé grandi e concreti pericoli per la nostra democrazia e si può essere d’accordo con il professor Alain Supiot quando sostiene che «nei momenti di pericolo, come quelli che stiamo vivendo, ci sono e ci saranno sempre uomini e donne che, invece di credersi giocattoli di forze immanenti, si interrogheranno, alla luce dell’esperienza storica, sulle cause dei loro mali e sul mondo che vogliono costruire insieme». Tale sembra essere, non a caso, il percorso tracciato per un certo periodo, a inizio pandemia, dal Presidente della Repubblica .
Inoltre, la convinzione, supportata da dati statistici, è che la formazione protegga dalla precarietà. Al contrario, non essere (sufficientemente) formati espone al rischio sociale della precarietà, di una vita sociale incerta e fragile. Al riguardo, occorre fare del proprio meglio, dal corso preparatorio alla formazione continua degli adulti.
Seppure in questa direzione siano state avviate riforme relative alle politiche educative (ad esempio attraverso il raddoppiamento delle classi a livello primario) e del lavoro (riforma della formazione continua ), occorre sottolineare come si tratti di tentativi piuttosto deboli di fronte alla posta in gioco: da un lato, come noto, la formazione iniziale è ideale per quelli che nascono in un certo contesto sociale e familiare, ma piuttosto avara, se non crudele, per gli altri, e, dall’altro lato, la formazione continua avvantaggia soprattutto coloro che sono già stati formati. I confini sono marcati e le ambizioni limitate: la società è come bloccata, congelata e, senza trascurare gli sforzi individuali che possono portare al miglioramento della sorte di chi si sacrifica e la quota di responsabilità individuale che il movimento dei Gilet Gialli ha certamente talvolta esagerato, sono pochi quelli che possono sperare di passare dal mondo dei poveri “socialmente” a quello più elitario. La miseria della condizione (in cui si nasce) è diventata una miseria della posizione, se vogliamo rileggere Pierre Bourdieu, che ritiene ingiusta l’organizzazione liberale del mercato del lavoro.
Questi pochi elementi prospettici hanno un fattore in comune: la necessità di un approccio sistematico che rompa con le riforme che si susseguono senza coerenza complessiva e senza avere il respiro per affrontare le sfide. Occorre, in altri termini, una forte volontà politica, all’altezza di ambiziose politiche pubbliche nazionali ed europee. Questo aggiornamento richiederebbe certamente un ritorno al controllo dello Stato e al dispiegamento di servizi pubblici, che non sono affatto in contrasto con il libero spazio offerto al mercato, purché si voglia un mercato giusto e non solo il mercato.

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