TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA 

Stefano Giubboni ha fatto centro. In pieno.
Nel suo libro, che fin da subito viene definito come “libro orientato”, prende posizione in modo fortemente critico contro la legislazione del lavoro in materia di licenziamenti, così come è stata ridisegnata prima dalla c.d. Riforma Fornero (2012) e poi dal Jobs Act (2015), con l’aggiunta dei vari decreti che si sono succeduti e degli interventi della Corte Costituzionale.
Ne è uscito, secondo Giubboni, un pasticcio di incongruenze e contraddizioni che rende la materia dei licenziamenti assolutamente incomprensibile “a causa della sovrapposizione d’una pluralità incongrua di interventi legislativi succedutisi in un breve arco temporale, senza un adeguato coordinamento sistemico”.
L’avvertenza per il lettore è che non si tratta di un libro ipocritamente “neutro”, in cui sotto la pretesa di una equidistanza formale si nascondono invece scelte ben precise di politica giudiziaria, in un senso o nel suo contrario.
Ebbene il grande pregio di Giubboni è di dire subito che lui non sarà obiettivo, ma si collocherà senza tentennamenti da una parte sola, quella dei lavoratori.
L’idea del Ministro Brodolini, padre dello Statuto del Lavoratori era quella di cominciare a pensare a un diritto del lavoro diseguale, realizzando peraltro un precetto costituzionale (art. 3 secondo comma Cost.); un diritto che avesse come obiettivo una legislazione che in qualche modo riequilibrasse i rapporti di forza nelle fabbriche.
Ma oggi i rapporti di forza si sono modificati radicalmente: a fronte di un’uguaglianza formale si è sempre più rafforzata una diseguaglianza profonda a vantaggio delle imprese: ed ha avuto ragione Marco Revelli a titolare un suo libro “La lotta di classe esiste, e l’hanno vinta i ricchi”.
Da qui dunque parte Giubboni per esaminare la legislazione sui licenziamenti.
E l’esame, meticoloso e approfondito, sbalordisce per la sovrapposizione di norme tra loro contrastanti e incomprensibili.
Partendo dalla considerazione che ogni intervento legislativo è figlio delle scelte politiche del momento in cui viene alla luce, Giubboni smonta a una a una le giustificazioni economiche e di politica giudiziaria che hanno caratterizzato questo momento storico del mercato del lavoro, in cui la flessibilità avrebbe garantito il benessere dei lavoratori (nel mercato, ma fuori dal rapporto); all’inverso l’opzione preferenziale per la tutela indennitaria, in luogo della reintegrazione, avrebbe garantito alle imprese la predeterminazione dei costi di ogni licenziamento. Corollario di tutto questo bendidio era che l’occupazione si sarebbe moltiplicata in modo vertiginoso.
In quegli anni (2012-2015) ci hanno fornito spiegazioni dai toni apocalittici per giustificare la riduzione di tutele dei lavoratori (dalla fuga dei capitali stranieri alla dissoluzione del tessuto produttivo del paese). Solo sacrificando i lavoratori si poteva sperare di restare in Europa, alla pari con gli altri paesi, e solo riducendo le garanzie si poteva salvare l’economia nazionale.
La realtà ha dimostrato nei fatti che le cose non stavano e non stanno così.
Ma per di più la riduzione delle tutele ha raggiunto livelli che la stessa UE ritiene non accettabili.
La sanzione per un licenziamento totalmente ingiustificato è (era) di ridottissimo impatto per le imprese, ma è soprattutto inefficace per risarcire il gravissimo pregiudizio determinato dalla perdita incolpevole del posto di lavoro.
I principi affermati dagli organismi europei sono la proporzionalità (la limitazione di un diritto è giustificata solo se necessaria a tutelarne un altro di pari valore e solo se non esistono altre vie per perseguire tale finalità: principio che, se applicato al licenziamento, implica un rigoroso bilanciamento tra esigenze della produzione e diritto al lavoro, fondato sul criterio dell’extrema ratio) e la effettività (per il quale la sanzione per la violazione di un diritto deve avere anche il carattere dell’adeguatezza e della dissuasività).
La normativa introdotta con il D.Lgs.23/2015 non rispetta nessuno di questi requisiti.

Giubboni esamina compiutamente con rigore scientifico (e non orientato, in questo caso) le varie tipologie di licenziamento (a tutele crescenti, disciplinare, per inidoneità alla mansione, per giustificato motivo oggettivo, collettivo, nel pubblico impiego) e dimostra senza difficoltà il pasticcio in cui si trova la legislazione oggi nel nostro paese.

Il rimedio per ogni tipo di licenziamento si presta a numerose ipotesi di sanzione (dalla tutela nelle aziende con più o con meno di 15 dipendenti; dalla reintegrazione forte alla reintegrazione attenuata; dalla tutela indennitaria forte a quella debole; da quella per gli assunti prima il 7 marzo 2015 – Jobs Act – a quella per gli assunti dopo)

C’è da aggiungere che dopo la pubblicazione del libro è intervenuta nuovamente la Corte Costituzionale (sentenza del 24 febbraio 2021) sulla Legge Fornero, stabilendo che il giudice, quando accerta l’insussistenza del presunto motivo oggettivo, DEVE (e non PUO’) ordinare la reintegra, analogamente a quanto deve fare per il licenziamento disciplinare.

Insomma, in materia di licenziamenti c’è di tutto e di più: orientarsi e dipanare la matassa delle norme contrastanti e disorganiche è esercizio estremamente complesso e riservato ai pochi specialisti della materia.

Ed ecco allora che Giubboni propone una rifondazione e dunque una revisione organica e radicale dell’intera materia dei licenziamenti, che parta dalle indicazioni fornite dalla Ue e dal Comitato Europeo dei diritti sociali (CEDS), e che abroghi interamente Legge Fornero e Jobs Act,, estendendo il rimedio della reintegrazione a tutte le ipotesi di licenziamento ingiustificato.
Ma Giubboni va anche più in là perché di fronte alla drammatica situazione sociale ed economica del paese propone un’autentica opera di riforma profonda dell’intero diritto del lavoro, che aiuti il sistema produttivo italiano a ritrovare la strada dello sviluppo; precisando però che qualunque idea di rilancio del paese deve passare dalla ritrovata centralità del lavoro, e quindi dei suoi diritti e delle sue giuste tutele, che non sono in contrasto con le ragioni dell’impresa., mettendo al centro della riforma la dignità del lavoro.

Una riforma profonda e organica dell’intero diritto del lavoro, oggi sparso in un variegato e disarmonico insieme di leggi, non può non tenere conto anche del problema dell’accesso alla giustizia.

Nel recente passato, davanti all’aumento dell’arretrato dei Tribunali del Lavoro e alla conseguente durata pluriennale delle cause (peraltro con diverse lodevoli eccezioni territoriali), si è pensato di intervenire sul contenzioso scoraggiandolo. In altri termini, invece di rimuovere le cause delle inefficienze, aumentando organici amministrativi e giudiziari, e introducendo le altre misure indispensabili per un corretto e celere svolgimento del processo del lavoro, si è pensato di disincentivare il ricorso alla giustizia, rendendola oltremodo onerosa per i ricorrenti introducendo il balzello del Contributo Unificato, ma soprattutto vietando ai giudici di compensare le spese in caso di soccombenza del lavoratore. Su questo obbligo negativo è intervenuta provvidenzialmente, ancora una volta, la Corte Costituzionale dichiarando la illegittimità costituzionale dell’art.92 cpc, così come modificato nel 2014, nella parte in cui non prevede che il giudice possa compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni. Ma i giudici hanno orecchie sensibili e da allora hanno iniziato a condannare i ricorrenti, in caso di rigetto della domanda, a rimborsare alla controparte importi sovente molto elevati, che difficilmente un lavoratore può reperire.
Tenendo conto che il processo del lavoro, sin dalla sua introduzione nel 1973, intendeva consentire un facile ricorso alla Magistratura da parte dei lavoratori, rendendolo gratuito, oggi appare davvero iniquo che per eliminare dei problemi strutturali che coinvolgono gli organi dello Stato (la disfunzione del sistema Giustizia) si voglia intervenire disincentivando invece l’accesso alla giustizia.
Nell’ambito di una riscrittura organica dell’intero diritto del lavoro è indispensabile che si renda il processo integralmente gratuito.
Non è possibile che chi voglia tutelare un proprio diritto primario, quale ad esempio il posto di lavoro, sia sottoposto a costi che non può sostenere e che gli impediscono di esercitare quel diritto. Il C.U. deve essere abolito e la condanna alle spese deve essere vietata, ammettendola solo nel caso di lite temeraria di cui all’art.96 c.p.c.
Tra l’altro la condanna alle spese introduce un altro motivo di discriminazione tra i soggetti del processo: le imprese possono scaricare fiscalmente le somme versate a titolo di rimborso delle spese, il lavoratore non può farlo. E l’impresa recupera anche l’IVA corrisposta, mentre il dipendente la aggiunge all’importo a cui è stato condannato.
Un sistema balordo che è ben lontano da quell’intento dei legislatori del 1970 di introdurre un sistema volutamente diseguale, per pareggiare le diseguaglianze nei luoghi di lavoro.

 

 

 

 

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