testo integrale con note e bibliografia

1. Il tema del contrasto alla povertà è stato e resta un argomento centrale all’interno del dibattito politico nazionale ed europeo . A tal proposito, lo Stato si impegna a predisporre strumenti volti a sostenere il reddito dei lavoratori, perché possa essere garantita a tutti un’esistenza libera e dignitosa come espressamente sancito dall’art. 36 della Costituzione.
Dunque, si parla non solo di misure di assistenza sociale, ma anche e, soprattutto, di misure di inclusione sociale. Assistenza sociale ed inclusione sociale presentano – certamente – una certa interdipendenza. I soggetti definiti “poveri” hanno, purtroppo, minore possibilità di partecipare alla vita sociale, culturale ed economica del Paese; potrebbe essere definita un’esistenza “diversa”, in quanto improntata a soddisfare i fabbisogni primari necessari per vivere. È esattamente a questi soggetti che si rivolge l’aiuto e il sostegno statale, per permettere loro di ricevere un quid pluris alla propria esistenza affinché possano svolgere attività che ne permettano l’inclusione sociale.
Ciò premesso, il legislatore, da oltre venticinque anni, ha effettuato diversi tentativi e sperimentazioni per giungere ad un risultato che, dal punto di vista fattuale, presentasse maggiori margini di effettività e di risultato sul tema della povertà. Sebbene tali sperimentazioni siano sempre state il frutto di dibattiti politici dei Governi di epoche diverse e portatori di interessi economici e sociali del contesto storico di riferimento, solo un principio ha – quasi sempre – contraddistinto le diverse misure di assistenza sociale e di contrasto alla povertà: il principio di condizionalità, il do ut des a cui il legislatore si è sempre ispirato nella concessione di sussidi affinché i beneficiari dimostrassero di “meritare” l’aiuto statale, mediante attività che favorissero, oltretutto, anche l’inclusione sociale degli stessi. Ma non è tutto: da sempre il nostro sistema di sicurezza sociale è ispirato dall’esigenza di garantire prestazioni adeguate (art. 38, comma 2, Cost.) con le quali misurare l’efficacia degli interventi legislativi anche e soprattutto nelle misure di contrasto e di lotta alla povertà.

2. Prima di procedere all’excursus normativo che vede come protagonista il principio di condizionalità, sembra doveroso annoverare il principio costituzionale da cui, detto principio, trae fondamento. Ergo, occorre richiamare l’art. 4 della Costituzione , il quale può prestarsi ad una lettura ambivalente connaturata al lavoro come diritto-dovere, ed è proprio all’interno della condizionalità che è possibile rinvenire fermamente tale duplice scopo. Anzitutto, il principio di condizionalità consiste in una serie di misure di raccordo tra politiche attive e politiche passive del lavoro. In altre parole, la condizionalità permette, da un lato, la fruizione delle diverse forme di sostegno al reddito per chi dovesse trovarsi senza lavoro; dall’altro, però, impone ai beneficiari di tali misure un comportamento attivo finalizzato alla ricerca di un’occupazione. Dunque, è possibile rinvenire in tale principio uno strumento di cerniera tra i diritti sociali - garantiti dallo Stato - e gli obblighi posti in capo al singolo fruitore di detti diritti. Proprio per questa funzione di cerniera, il principio di condizionalità può essere considerato anche come una cartina di tornasole che consente di cogliere l’equilibrio tra diritti sociali ed obblighi in una data società .
Il principio di condizionalità è al centro delle politiche occupazionali da più di mezzo secolo; tuttavia, è solo a partire dagli anni ‘2000 che la condizionalità ha iniziato a farsi spazio tra le prime misure di raccordo tra le politiche attive e passive. Ciò che si può affermare con costanza è che la condizionalità è sempre stata concepita come decadenza dal godimento di un certo status o di un trattamento a sostegno del reddito collegato a quel dato status .
Ciò detto, la prima misura di contrasto alla povertà sperimentata dall’Italia, è stata rappresentata dal Reddito Minimo di Inserimento, introdotto a partire dal 1° gennaio 1999 . Tale misura, consisteva in un trasferimento monetario riservato ai soggetti in condizioni di povertà e a rischio di marginalità sociale, il cui aspetto innovativo era riconducibile alla configurazione di uno strumento indirizzato a strati sociali del tutto impossibilitati ad accedere al mercato del lavoro e a cui veniva richiesto di aderire esplicitamente ai programmi di accesso e di formazione predisposti dalle istituzioni , il che, risulta essere una primordiale attuazione del principio di condizionalità.
Le problematiche afferenti alla mancata riuscita del RMI sono varie: anzitutto, la capacità di verifica delle condizioni di vita è risultata molto scarsa e attestata mediante autocertificazioni supportate da documentazioni limitate. In secondo luogo, anche la gestione dello strumento non è stata delle migliori, in quanto la sperimentazione dello stesso è stata condizionata dalla forte polarizzazione delle politiche sociali presenti nel nostro Paese e ciò deriva dal fatto che la delega delle responsabilità operative agli enti locali avveniva in assenza di un quadro nazionale di servizi assistenziali minimi. Infine, ulteriore problematica è stata rappresentata dalla scarsità di risorse da destinare alla generalizzazione della misura.
Tutto questo non vuol dire che il reddito minimo di inserimento non abbia portato con sé anche degli aspetti positivi: quasi il 20 per cento dei beneficiari meridionali è riuscito ad ottenere un diploma scolastico o professionale. Questo è, insieme al rientro dalla morosità abitativa, probabilmente il risultato di maggior rilievo ottenuto nel primo biennio di sperimentazione .
L’esperienza fallimentare del reddito minimo di inserimento, ha spento per quasi un decennio il dibattito politico nazionale in materia di reddito minimo.
Tuttavia, tale silenzio politico è stato sovente interrotto da alcune misure introdotte per finalità diverse a seconda dello scenario politico-economico di riferimento. Si annovera, a tal proposito, la Carta Acquisti introdotta dal quarto Governo Berlusconi (2008-2011), volta a contrastare gli effetti della crisi economico-finanziaria scatenatasi a partire dal settembre 2008 negli Stati Uniti e rapidamente propagatasi anche sul continente europeo e in Italia. Si trattava di una carta di pagamento elettronico prepagata, riservata ai poveri assoluti di età inferiore ai tre anni o superiore ai sessantacinque, di importo pari a 40 euro mensili.
Tale misura è stata poi ridisegnata dai Governi Monti e Letta con la denominazione “Nuova Carta Acquisti” (cd. NCA) , ed è stata configurata come ulteriore misura sperimentale di contrasto alla povertà assoluta delle famiglie con minori. Con il Governo Letta, successivamente, tale misura è stata confermata e denominata SIA (Sostegno di Inclusione Attiva), in linea con gli orientamenti europei in tema di inclusione attiva, per l’appunto.
Punto debole di tale misura, era rappresentato dall’esclusione di molti potenziali beneficiari: innanzitutto i nuclei familiari senza figli, le persone sole e gli extracomunitari con permesso di soggiorno annuale. Era una misura che, inoltre, tendeva ad escludere i soggetti che versassero da tempo in stato di disoccupazione e, allo stesso tempo, non era in grado di captare chi fossero i “nuovi poveri” non ancora in condizioni di totale disagio economico tale da soddisfare i requisiti di accesso al trattamento.
Quanto alla logica di intervento, il Sostegno di Inclusione Attiva si connotava come uno strumento di politica attiva che – oltre al trasferimento monetario – prevedeva anche un piano personalizzato di interventi orientati all’inclusione sociale e al reinserimento lavorativo dei beneficiari. L’adesione a tale piano era una condizione necessaria per poter fruire del trattamento economico; da questo punto di vista, la nuova misura era perfettamente in linea con gli obiettivi fissati dall’Unione Europea. Dunque, il principio di condizionalità trovava pieno riscontro nella logica di intervento predisposta dal legislatore tout court.
In seguito alle varie vicissitudini che hanno animato il dibattito politico tra il 2015 e il 2016 è stato istituito – il 15 settembre 2017 – il cd. ReI (Reddito di Inclusione) . Di fatto, la misura de qua non è stata designata unilateralmente o improvvisamente e in maniera rivoluzionaria dalla politica, piuttosto è il frutto delle sperimentazioni avvenute nell’ultimo ventennio e, soprattutto, nasce dal confronto tra i Governi che si son succeduti negli anni e la società civile .
Il ReI era inserito in un piano nazionale di lotta alla povertà e all’esclusione sociale: ciò era particolarmente rilevante, in quanto una delle principali lacune della politica economica contemporanea consiste proprio nella difficoltà di conferirle una certa lungimiranza dato che, le politiche economiche pensate considerando solo il “breve periodo” hanno sovente determinato crisi economiche.
Può certamente affermarsi, tanto dal testo della l. n. 33/2017 sul REI quanto dal D.M. del 26 maggio 2016 sul SIA, che entrambe le misure non erano certamente finalizzate all’introduzione di una qualche forma di reddito minimo in Italia, pur essendo maggiormente “universali” rispetto ai previgenti sussidi; esse infatti non solo non prevedevano le risorse necessarie per far fronte all’intera platea di soggetti che versavano in uno stato di povertà assoluta, ma non presentavano nemmeno quei caratteri a tutela della garanzia della continuità di reddito in situazioni di discontinuità lavorativa, in quanto non si rivolgevano ad una categoria più vasta di soggetti precari, inoccupati, working poor. Infine, non si riscontrava alcuna tendenza verso strumenti di sostegno al reddito erogati su base individuale con l’obiettivo di emancipare il singolo individuo all’interno della propria realtà familiare.
Pertanto, tali misure non favorivano né l’affrancamento dell’individuo dalle sue condizioni economiche di partenza né la possibilità di rinunciare a condizioni di lavoro non adeguate .

3. Il Reddito di Cittadinanza è stato istituito a partire dal mese di aprile 2019 ed ha rappresentato - più che un’evoluzione delle sperimentazioni dell’ultimo decennio - un tentativo per la realizzazione di un reddito minimo garantito a beneficio dei soggetti maggiormente colpiti dalle disuguaglianze sostanziali che caratterizzano i diversi settori del mercato occupazionale.
Il termine utilizzato dal Movimento 5 Stelle, ossia “Reddito di Cittadinanza” può trarre in inganno, dal momento che, propriamente, con il termine “basic income” si indica un reddito erogato in modo incondizionato a tutti, su base individuale, senza verifica delle condizioni economiche o richieste di disponibilità a lavorare . Infatti, il Reddito di Cittadinanza non deve essere confuso con il principio universalistico del reddito minimo garantito; mentre quest’ultimo spetta in maniera incondizionata a tutti i cittadini, l’erogazione del RdC è subordinata al verificarsi di determinate condizioni, così come le misure che lo hanno preceduto. Il RdC, inoltre, prescinde dall’argomento lavoristico ed occupazionale e trova fondamento nel comma 3 dell’art. 34 della Carta di Nizza, che riconosce “il diritto all’assistenza sociale e all’assistenza abitativa volta a garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongano di risorse sufficienti” e ancora, in un’ottica universalistica, la tutela del rischio della povertà e dell’esclusione sociale; sono queste le ragioni da cui il disegno politico del “Reddito di Cittadinanza” ha tratto ispirazione .
Occorre innanzitutto sottolineare la spiccata natura polifunzionale del RdC: anzitutto esso si configura quale «misura di politica attiva del lavoro a garanzia del diritto al lavoro» e, inoltre, come misura «di contrasto alla povertà, alla diseguaglianza e all’esclusione sociale» . Detto altrimenti, nonostante l’equivoca scelta relativa alla denominazione universalistica, il RdC evidenzia una doppia anima: è al contempo, una misura assistenziale e previdenziale.
Dunque, nell’introdurre tale strumento, il legislatore si è focalizzato sulla necessità di “attivare” i beneficiari cercando in tutti i modi di evitare l’effetto contrapposto, ossia quello di allontanarli dal mercato del lavoro . Sebbene questo fosse l’obiettivo nobile del legislatore, sovente la condizionalità è compromessa da fattori estrinseci e sicuramente anche legati alle aree territoriali di riferimento, in cui a fronte di un’eccessiva offerta di lavoro si registra scarsità di domanda. Uno dei fattori cruciali di incidenza è sicuramente dovuto allo scarso finanziamento dei Centri per l’Impiego , che sono i protagonisti principali nella fase di attuazione e di regolamentazione del principio di condizionalità che, per quanto concerne il Reddito di Cittadinanza, si sostanzia nella sottoscrizione di due accordi: il Patto per il lavoro ed il Patto per l’inclusione sociale.
Per evitare che l’erogazione di un sussidio come il Reddito di Cittadinanza facesse venir meno il desiderio di ricercare un’occupazione, il legislatore ha imposto come prima condizione, la prestazione da parte dei beneficiari della Dichiarazione di Immediata Disponibilità (DID) e la sottoscrizione di uno dei due Patti di servizio.
Il documento è denominato Patto per il lavoro o Patto per l’inclusione sociale in base a delle condizioni soggettive in grado di provare ex ante quanto il soggetto sia “lontano” dal mercato del lavoro; in base a tale distanza varia anche la competenza dell’ufficio designato per le prime convocazioni.
L’accordo assume la denominazione “Patto per il lavoro” e l’ufficio competente è il Centro per l’Impiego in tutte quelle ipotesi in cui i beneficiari siano soggetti non troppo distanti dal mercato del lavoro: sono tali gli individui che siano disoccupati da non più di due anni, quelli con un’età inferiore ai 26 anni, i beneficiari di NASpI o di altri ammortizzatori sociali o che comunque non ne usufruiscano più da un anno e, infine, coloro che abbiano sottoscritto altro Patto di servizio nei due anni che precedono la richiesta del beneficio. Esso ha la finalità di favorire l’inserimento del beneficiario nel mercato del lavoro sulla scorta di un percorso personalizzato mediante l’individuazione dei fabbisogni dell’utente. Il tutor ha anche il compito di presentare al beneficiario quelle che sono le opportunità formative e professionali legate all’occupazione nonché supportarlo e guidarlo nella stesura del curriculum vitae.
La convocazione dell’utente avviene nei 30 giorni successivi l’erogazione del RdC e, dopo aver posto in essere il descritto ciclo di azioni, il beneficiario stipula il patto.
Tuttavia, una delle maggiori criticità affrontate dai Centri per l’Impiego è stata rappresentata dalla carenza di software adeguati, di strumenti digitalizzati agili (come un’ applicazione per smartphone) e, soprattutto, la carenza di personale in grado di svolgere funzioni di assistenza personalizzata dato che, a servizi sempre più complessi e specialistici, si amplificano le criticità già presenti . A tal proposito, sono stati proprio i Centri per l’impiego a rappresentare il cd. “tallone d’Achille” del RdC, a cui si aggiunge la scarsità dei controlli o comunque la scelta di criteri di verifica ex post e dunque svolti solo in un momento successivo rispetto all’erogazione del sussidio.
In relazione ai Centri per l’Impiego, la “curvatura lavoristica” della misura, ha affidato a questi ultimi un ruolo protagonista nella gestione delle attività e nella verifiche relative agli adempimenti degli obblighi di attivazione che incombono sui beneficiari, per dare attuazione al principio di condizionalità : tale implementazione ha necessitato dell’intervento di un’intera governance di enti e di una complessa strumentazione . Detto altrimenti, il funzionamento della misura è stato alterato dalla complessità di una rete in cui sono entrati troppi attori che hanno finito per svilire le finalità stesse dello strumento .
Il dato sconfortante e che risulta essere un’ulteriore sconfitta per i Centri per l’impiego è che, a quattro anni dall’introduzione del RdC, oltre la metà dei percettori non è passata dai centri per l’impiego : solo una piccola percentuale dei percettori del Reddito di Cittadinanza risulta aver beneficiato dei servizi di attivazione lavorativa ed offerta formativa. Il problema risiede nelle tempistiche che in media trascorrono tra l’autorizzazione dell’Inps rivolta ai beneficiari del RdC e la presa in carico del beneficiario da parte dei centri per l’impiego per cui in media trascorrono circa 4 mesi e mezzo – nel Meridione salgono anche a 5 mesi e mezzo – a fronte dei 30 giorni prescritti dalla legge .
Oltre al problema relativo all’alta percentuale di richiedenti – dovuta all’aumento della platea dei beneficiari – si è registrata anche una certa lentezza da parte dei CpI per la gestione delle pratiche. Dunque, i ritardi nella modernizzazione dei centri per l’impiego, dipendono non solo dalla scarsità di risorse umane ed informatiche, ma anche e soprattutto da problematiche strutturali: a tal proposito, non vi sono disposizioni che prevedano criteri-guida vincolanti anche riguardo alle tempistiche di erogazioni dei servizi, le quali restano ancora vincolate alla macchinosa burocrazia tipica dei pubblici uffici .
Allo stato attuale, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) , tra i vari interventi promossi ha previsto anche il potenziamento dei centri per l’impiego: specificamente, con il PNRR sono stati stanziati 400 milioni di euro per la valorizzazione delle linee d’attività dei centri per l’impiego. Si tratta sicuramente di risorse importanti che si auspica potranno rafforzare, almeno dal punto di vista economico, il sistema degli ammortizzatori sociali riformato in occasione della legge di bilancio 2022 e che dovrebbero produrre un salto di qualità nel contrasto alle disuguaglianze , ma tutto dipenderà, come sempre, da come tali risorse verranno impiegate .
Infine, ulteriore lacuna della misura è stata rappresentata dal carente coordinamento tra Centri per l’Impiego e l’Inps. Il riferimento al coordinamento tra Centri per l’Impiego ed Inps richiama tautologicamente l’intreccio tra politiche attive e politiche passive del lavoro.
In Italia, le misure di sostegno al reddito, ergo le misure di politica passiva, sono erogate dall’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale; affinché avvenga l’”attivazione” dei beneficiari di tali misure, i centri per l’impiego dovrebbero svolgere un’importante funzione di guida.
Tuttavia, i problemi risiedono nella scarsa comunicazione tra Inps e Regioni, da cui dipendono inevitabilmente i centri per l’impiego; di talché sovente accade che questi ultimi non sappiano se effettivamente un soggetto “preso in carico” percepisca o meno un beneficio economico da parte dell’Inps . A questo proposito, è venuta in rilievo anche la debolissima governance dell’Anpal che, nel piano di intervento sulla Pubblica Amministrazione, è stata soppressa .
D’altra parte, cercare di rendere davvero effettivo il principio di condizionalità vuol dire anche provare a garantire una migliore comunicazione tra tutti i soggetti che rivestono un ruolo sia nella rete delle politiche attive che in quella delle politiche passive del lavoro: ciò potrebbe essere garantito mediante piattaforme informatiche interconnesse fra loro, capaci di intervenire in tempi ragionevoli e che ora invece, sono dislocate in un sistema pressoché frastagliato.
Così facendo l’Italia sarà sempre lontana dagli obiettivi raggiunti da altri Paesi europei che sono invece riusciti ad istituire un sistema misto pubblico-privato inclusivo sia delle politiche attive sia delle politiche passive del lavoro .

4. La legge di Bilancio 2023 è intervenuta anche sul discusso fronte del Reddito di Cittadinanza, disciplinandone la fase transitoria per tutta la durata del 2023.
In particolare, il legislatore - con il Decreto Lavoro , convertito in legge 3 luglio 2023, n. 85 - ha previsto l’abolizione del Reddito di Cittadinanza che, a partire dal 1° gennaio 2024, è stato sostituito da una nuova misura: l’Assegno di Inclusione .
Tale strumento rappresenta, inoltre, un tentativo di concretizzazione delle politiche europee sul tema, soprattutto dopo l’approvazione – da parte del Consiglio dell’UE – della raccomandazione relativa ad un adeguato reddito minimo in grado di garantire l’inclusione attiva, proposta dalla Commissione Europea il 28 settembre 2022. Tale iniziativa rispecchia l’impegno dell’Unione a promuovere economie più inclusive affinché nessuno venga “lasciato indietro” .
Quanto ai beneficiari, il sussidio economico è rivolto ai nuclei familiari costituiti da almeno una persona minorenne, o una persona con disabilità oppure una persona ultrasessantenne, in presenza di specifici requisiti il cui possesso è necessario per tutta la durata del beneficio.
In particolare, il decreto-legge prevede che, con riferimento ai requisiti di cittadinanza e di soggiorno, il richiedente debba essere cumulativamente cittadino dell’Unione Europea o suo familiare che sia titolare del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente ovvero cittadino di paesi terzi in possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo ; il richiedente deve essere residente in Italia da almeno cinque anni, di cui gli ultimi due anni in modo continuativo.
Quanto ai requisiti economici, il nucleo familiare del richiedente deve essere in possesso congiuntamente di un valore dell’indicatore della situazione economica equivalente (ISEE) non superiore ad euro 9.360 e un valore di reddito familiare inferiore ad euro 6.000, maggiorato sulla base del numero di componenti particolarmente disabili. Inoltre, è previsto un calcolo relativo al valore ISEE diverso, qualora dovessero esserci dei soggetti minorenni all’interno del nucleo familiare . Se il nucleo è composto da soggetti di età pari o superiore a 67 anni e da altri familiari in condizioni di disabilità grave o non autosufficienti, la soglia ISEE è fissata ad euro 7.560 annui.
Il valore del patrimonio immobiliare della prima casa, ai fini IMU, non deve essere superiore ad euro 150.000; il valore degli immobili diversi dalla casa di abitazione non deve essere superiore ad euro 30.000 ai fini ISEE.
Con riferimento al godimento dei beni durevoli, nessun componente del nucleo familiare deve essere intestatario a qualunque titolo o avere piena disponibilità di autoveicoli di cilindrata superiore a 1600 cc. o motoveicoli di cilindrata superiore a 250 cc., immatricolati per la prima volta nei 36 mesi antecedenti la richiesta, esclusi gli autoveicoli o motoveicoli per cui sono previste agevolazioni fiscali in favore delle persone con disabilità secondo la normativa vigente. Infine, nessun componente deve essere intestatario o avere piena disponibilità di navi e imbarcazioni da diporto .
La prestazione economica sarà erogata mensilmente per un periodo continuativo non superiore a 18 mesi e potrà essere rinnovato, previa sospensione di un mese, per ulteriori 12 mesi. L’Assegno di Inclusione potrà essere richiesto all’INPS presentando telematicamente domanda e sarà erogato mediante la Carta di inclusione, una tessera elettronica ricaricabile.
L’INPS, dopo aver effettuato la verifica dei requisiti, comunica al richiedente di dover effettuare l’iscrizione presso il Sistema Informativo per l’Inclusione Sociale e Lavorativa (SIISL), finalizzato alla sottoscrizione del patto di attivazione digitale, perché il beneficiario possa ottenere la prestazione economica.
La piattaforma SIISL consente a tutte le piattaforme digitali dei soggetti accreditati al sistema sociale e del lavoro di operare e comunicare. Inoltre, l’obiettivo primario della piattaforma è quello di semplificare la ricerca del lavoro, la possibilità di aderire ad attività di formazione e rafforzamento delle competenze, tenendo conto non solo del bagaglio professionale e conoscitivo del beneficiari ma anche della disponibilità di offerte di lavoro, corsi di formazione, tirocini ed altre misure di politica attiva.
Il principio di condizionalità trova applicazione dal momento in cui i beneficiari sono tenuti, entro 120 giorni dalla sottoscrizione del patto di attivazione digitale, a presentarsi presso i servizi sociali e, successivamente - ogni 90 giorni - tutti i beneficiari che non siano i soggetti attivabili al lavoro, debbono presentarsi ai servizi sociali o presso gli istituti di patronato per aggiornare il proprio status: in tal modo si evita la sospensione del beneficio.
Non sono di certo mancate le prime critiche al nuovo sistema di lotta alla povertà istituito dal legislatore: con il Reddito di Cittadinanza, requisito fondamentale per potervi accedere era semplicemente un reddito che fosse al di sotto della soglia di povertà; con l’Assegno di Inclusione sembrano piuttosto essere esclusi i nuclei familiari con un reddito complessivo fino ad euro 9.360 se costituiti da soggetti con età fra 18 e 60 anni . In tal modo, viene meno quel sostegno economico anche per quei soggetti che si trovino al di sotto della soglia di povertà o che addirittura non abbiano alcun reddito. Tuttavia, il legislatore ha cercato anche di prevenire situazioni in cui, adulti che vivono ancora all’interno del proprio nucleo familiare e guadagnano redditi considerevoli, possano ricevere indebitamente aiuti finanziari, compiendo un’azione fraudolenta nei confronti dello Stato.
Anche se l’esclusione dei soggetti maggiorenni comporta una riduzione del carico di spesa da parte dello Stato, è sicuramente scorretto ipotizzare che i poveri possano commettere reati per il sol fatto di essere poveri ; tuttavia, la recente esperienza del Reddito di Cittadinanza ha insegnato che la possibilità di avere un’entrata costante senza apportare alcun beneficio alla società e al mondo del lavoro, diventa allettante soprattutto per chi non è affatto povero .

5. Il principio di condizionalità è – a parere di chi scrive – un principio incontrovertibile nel sistema delle misure di sostegno al reddito e di assistenza sociale; è un do ut des a cui la società contemporanea è allenata ed abituata poiché presente in molti settori economici e sociali. Il principio di condizionalità funge anche da sprone, affinché ciascun individuo sia sempre alla costante ricerca delle proprie capacità e delle proprie attitudini, e, soprattutto, perché non venga mai meno la consapevolezza di poter essere utile per il mercato del lavoro.
Nell’ambito delle misure di contrasto e di lotta alla povertà, si è perseguito l’obiettivo di ripercorrere le iniziative che si son succedute negli anni, cercando di evidenziarne tanto le criticità quanto le potenzialità. Anche in questo contesto, purtroppo, si è rivelata particolarmente difficile la costruzione di un sistema di “pesi e contrappesi”: è necessario - soprattutto se ci si confronta con le altre esperienze europee - dotare anche il nostro ordinamento di misure che siano in grado di garantire un’esistenza dignitosa anche a chi vive al di sotto della soglia di povertà affinché possa ottenere quel “minimo vitale” non per sopravvivere, ma per vivere.
Tuttavia, l’Italia non è un Paese omogeneo dal punto di vista occupazionale, lavorativo ed economico: vi sono aree geografiche che, per disparati motivi, risentono inevitabilmente di una certa arretratezza anche dal punto di vista culturale, e questo è un punto di partenza cruciale ai fini della presente analisi. Va da sé che in aree siffatte, le necessità sono diverse ed è acuito il bisogno dei cittadini affinché lo Stato intervenga. Dunque, un primo passo in questa direzione è rappresentato dalla necessità di intervenire in modo quanto più omogeneo ed uniforme possibile, pur cercando di dar voce e spazio alle disparate necessità del nostro Paese. Da questo punto di vista, si è sottolineato più volte quanto il problema sia legato anche alla governance multilivello e ai diversi soggetti che svolgono un ruolo all’interno della rete nazionale: è necessaria una semplificazione del sistema.
Inoltre, dato il triste epilogo del Reddito di Cittadinanza, dovuto soprattutto alla scarsità dei controlli o comunque dalla scelta di criteri di verifica ex post e dunque svolti solo in un momento successivo rispetto all’erogazione del sussidio, si rende necessario un sistema di controlli che sia in grado di verificare la sussistenza dei requisiti ex ante; tuttavia, questo sembra essere stato – al momento – un elemento preso in considerazione dall’attuale Governo nell’introduzione del nuovo sussidio.
Come già sottolineato, molti beneficiari del Reddito di Cittadinanza non possedevano, di fatto, i requisiti per riceverlo ed hanno sperimentato tattiche truffaldine ai danni dello Stato e del bilancio pubblico. Purtroppo, anche questo è frutto di un’ideologia abbastanza radicata in Italia: quell’assurda necessità di voler arrivare laddove lo Stato non può arrivare, tentando di creare sotterfugi per rientrare in categorie circoscritte solo a determinati soggetti.
Fin quando un simile modus operandi sarà sempre velatamente presente all’interno del sistema, la più ambiziosa riforma e i più nobili obiettivi dovranno sempre fare i conti anche con il lato più oscuro della medaglia.

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