testo integrale con note e bibliografia

1. Vivremo del lavoro?
In un aureo libretto di Pierre Carniti, molto menzionato, il sindacalista della CISL più mitico e capace pure di associare all’azione sindacale la riflessione sul lavoro, tanto da fare da pendant a Bruno Trentin, sindacalista-filosofo della CIGL, si possono trovare delle linee teoriche di indubbio interesse. Sulla base dell’affermazione secondo la quale «la cittadinanza industriale (che, in definitiva, è il tratto caratteristico della nostra civiltà) si è costruita attraverso il lavoro» (Carniti 1996, 26), si sottolinea la connotazione trasformativa del lavoro stesso e la conseguente difficoltà di scandagliarne il «significato profondo» al di là della sua definizione immediata. Carniti non esita a tracciare un percorso esegetico che rimarca, nel cristianesimo, una correzione importante rispetto alla «visione pessimista dell’Antico testamento». «Tramite il sacrificio di Cristo, Dio concede all’umanità la speranza della salvezza eterna. In quest’ottica il lavoro rimane una condizione faticosa, ma viene visto nella prospettiva positiva della salvezza eterna […] Del resto lo stesso Gesù, il Salvatore, spende la maggior parte della sua vita nell’esercizio di un lavoro manuale» (Carniti 1996, 28).
Tralasciamo i riferimenti di Carniti ai sistemi etici del lavoro presenti in Calvino e in Lutero, per evidenziare la sua critica allo stravolgimento delle condizioni del lavoro e della vita dei lavoratori connesso alla rivoluzione industriale: «Il tradizionale rapporto dell’uomo con il suo lavoro viene ribaltato ed il lavoro diventa un elemento assolutamente impersonale, una merce che si compra, si vende e si organizza al pari di tutte le altre» (Carniti 1996, 31). Non manca la citazione di Papa Giovanni Paolo II che denuncia il privilegio unilaterale dei detentori di capitali a scapito del lavoro ridotto a mero “strumento di produzione”, con l’esito eticamente riprovevole della “esclusione sociale”, oltre al richiamo del pensiero di Amartya Sen sul nesso politico tra “organizzazione più efficiente e razionale” delle risorse e buon funzionamento della democrazia, aggiungendo l’avvertimento di Jeremy Rifkin quando mette in guardia dai pericoli ai quali lo Stato democratico si espone quando non garantisce la possibilità di lavoro per tutti. La conclusione di Carniti è che «i cambiamenti con cui siamo alle prese possono portare ad una implosione della nostra civiltà. Ma possono anche costituire l’occasione di una rinascita dello spirito umano e perciò di una grande trasformazione sociale» (Carniti 1996, 38-39).
La riflessione di Carniti ci può riportare alla stagione del cristianesimo sociale del secondo dopoguerra, oggetto di selezione da parte nostra in questo saggio perché in essa si fecero i conti, in misura incisiva anche per le fasi storiche successive, con le dinamiche trasformative del lavoro in considerazione specialmente del suo accresciuto potenziale produttivo.

2. La scossa della cultura francese
Più avanti ci concentreremo sulla figura di Mario Romani, il quale incarna la versione ritenuta più pragmatica e «aderente ai fatti» del cristianesimo o, più precisamente, del cattolicesimo sociale, in un contesto nel quale esso era animato da ispirazioni composite, sia sotto il profilo teologico sia per l’aspetto teorico-filosofico . Pour une théologie du travail di Marie-Dominique Chenu comparve in traduzione italiana solo nel 1964 (Chenu 1964) nella temperie del Concilio vaticano II; in Francia già nel 1955, ma la sua prima parte vide la luce nel gennaio 1952 nella rivista “Esprit” fondata da Emmanuel Mounier, rivista che nell’anno precedente, nel numero di luglio/agosto, aveva affrontato il tema della “Condition prolétarienne et lutte ouvrière” (con testi, tra gli altri, di Francis Jeanson, “Définition du proletariat?”; Georges Friedmann, “Techniques industrielles et condition ouvrière”; Jean-Marie Domenach, “La combativité ouvrière”; Jean Lacroix, “Prolétariat et philosophie”; con essi pure un articolo redazionale dal titolo “Pour une civilation du travail”). Nella “Introduzione” alla versione italiana dell’opera cult di Chenu, oltre a lamentarne il ritardo editoriale, si accusavano i “cattolici italiani” di «un certo torpore», cui si poneva finalmente rimedio con l’aggiornamento conciliare.
Senza nulla togliere agli impulsi suscitati dal risveglio conciliare, si deve però evidenziare che l’attenzione al lavoro era ben presente nell’ambito cattolico italiano in anni precedenti, tanto che non mancò il confronto con le provocazioni, percepite certamente come audaci e spregiudicate, della stessa rivista “Esprit”. Quest’ultima giungeva a proporre un’etica del lavoro, «ancora da inventare», oltre le «routines maléfiques du desordre établi» (formula emblematica della critica mounieriana del capitalismo) e «les réponses incertaines d’un messianisme marxiste» (formula eufemistica del rifiuto dell’enfasi ‘religiosa’ del marxismo in simbiosi con i suoi dubbiosi esiti operativi).

3. Gemelli e il fattore umano del lavoro nella critica del macchinismo industriale
Gli scrittori di “Esprit”, secondo Agostino Gemelli che da studioso dei problemi del lavoro intreccia un dialogo critico con la rivista d’oltralpe, certamente «si sono lasciati prendere al laccio di alcune formule ingannatrici del marxismo»; essi «hanno però una conoscenza e una pratica della vita cristiana che permette loro di comprendere che, per mettersi a servizio dei proletari e per aiutarli nel preparare una civiltà del lavoro, bisogna aiutarli a formarsi una coscienza che il Marxismo né esprime né può esprimere» (Gemelli 1951, 535). Da parte sua Gemelli non nasconde la convinzione che preparare una società in cui sia attuata la civiltà del lavoro e in cui sia abolita la schiavitù dell'operaio non vuol dire che la società non avrà più poveri. Soprattutto è per lui importante affermare che la nuova civiltà del lavoro esige un'etica del lavoro che sola può conferire un senso e un valore al lavoro di ciascuno e fare di esso «l'espressione efficace della persona umana», in modo da superare «la schiavitù della moderna civiltà tecnocratica e del macchinismo» (Gemelli 1951, 536).
Il fondatore dell’Università Cattolica di Milano ritiene pure che i progressi compiuti nel campo degli studi del fattore umano del lavoro siano tali da contribuire a «quella pace sociale che deve essere nella mente e nei propositi di tutti». Il lavoro è quindi inteso come espressione efficace della persona e veicolo della pace sociale come bene per tutti. A questo fine, senza la presunzione di risolvere i problemi nella loro gravità, Gemelli menziona come significative «le nostre ricerche di psicotecnica del lavoro, gli studi sulle relazioni umane nelle aziende, i recenti studi sulla produttività» . Al di la della replica manifestamente polemica verso “Esprit”, cui si opponeva che la ricercata etica del lavoro era già presente nei documenti dei pontefici Leone XIII, Pio XI e Pio XII, Gemelli si addentrava in un’analisi puntuale e incisiva non solo della struttura della produttività industriale, ma altresì delle «condizioni fisiologiche e psicosociologiche dell’unità-lavoro» e specialmente delle sue «condizioni sociali». Egli notava che, nel lavoro in serie specie della grande industria, le operazioni manuali diventano sempre più parcellari: «il lavoro perciò è uniforme e monotono; esso non risveglia alcun interesse nell' operaio che ignora completamente a che cosa deve servire ciò che egli produce; si aggiunga la disciplina di officina, le leggi del cottimo, la non conoscenza che l’operaio ha del materiale che egli lavora e via dicendo» (Gemelli 1951, 537). Anche le condizioni ambientali – aerazione, rumore, vibrazione – rendono il lavoro sempre più duro e pesante; persino l’urlo della sirena della propria officina e di quelle vicine stimola nell’operaio sentimenti la cui nota è l’aggressività. Le incidenze psicologiche si aggravano quanto più vasta e complessa è l’officina: «l 'operaio si sente sperduto e solo» subendo «il moderno macchinismo, la moderna organizzazione scientifica del lavoro, la teocrazia del lavoro».
L’analisi è degna di essere accostata agli scenari cupi e incombenti dei film sull’incubo della industrializzazione disumanizzante come “Metropolis” di Fritz Lang (1926). Viene pure immediato il riferimento all’esperienza dello svuotamento e dell’annullamento di sé descritta nell’opera di Simone Weil sulla condizione operaia (pubblicata postuma nel 1951). Inoltre, se per Frederick Winslow Taylor la riduzione del lavoro in unità operative semplici e ripetitive avrebbe alleggerito la fatica fisica e favorito l’attività della mente (anche per Antonio Gramsci il risparmio di energia nervosa nel lavoro fisico avrebbe potuto rendere l’operaio più disponibile al pensiero politico), per Gemelli l pensieri che l’operaio «rimastica» sono espressione dei tentativi di evasione «dalla camicia di forza che è il lavoro industriale».

4. Produttività e condizioni sociali del lavoro
Le condizioni negative del lavoro industriale incidono sulla produttività e si ripercuotono in un rendimento minore e «non uniforme né qualitativamente né quantitativamente». In alternativa, all’organizzazione scientifica del lavoro, fondata sui tempi della prestazione controllati con il cronometro, dovrebbe subentrare «una organizzazione la quale tenga conto, mediante il controllo psicofisico fatto dal psicotecnico, delle attitudini e del rendimento di ciascun operaio» (Gemelli 1951, 538). Sulla base di sperimentazioni sul campo, Gemelli mostra come un’organizzazione alternativa del lavoro, «aderente cioè alle esigenze della personalità» sia vantaggiosa sotto il profilo della produttività. Tra i “fattori della produzione” (lavoro umano, capitale investito, attrezzatura dell'azienda, materia prima utilizzata ecc.) la valorizzazione del fattore umano del lavoro non dipende però soltanto dal miglioramento delle condizioni fisiologiche e psicologiche dell'unità-lavoro, ma altresì da condizioni sociali che investono «un problema assai grave: possiamo noi aumentare l'unità di produzione solo mutando le condizioni individuali del lavoratore?» (Gemelli 1951, 539). Richiamandosi a Hubert Somervell (1950, 195), Gemelli ne recepisce l’insistenza sulla necessità che nell'industria si abbia ad attuare una forma di collaborazione, una “associative economic Relationship” tra capitale, direzione dell'azienda e operai, nella quale nessuno di questi tre membri debba considerare l'azienda come qualcosa che torni a proprio vantaggio esclusivo.
Le responsabilità politiche vengono collocate in un quadro sistemico di cui sarebbe elemento qualificante l’ispirazione cristiana, qualora non fosse disattesa: «È nel sistema economico attuale, è nell'attuale organizzazione della società, è nella decadenza del pubblico e privato costume, è nell'inadeguata e insufficiente ispirazione cristiana di coloro che affrontano questo problema e che dirigono l'ordinamento sociale che si deve cercare la causa della “condizione proletaria”»; però lo studio delle «relazioni umane» e del «fattore umano del lavoro», promosso da «noi psicologi» , conclude Gemelli, ha indicato chiaramente la linea lungo la quale deve essere cercata la soluzione, non senza guardare peraltro agli «economisti illuminati dalla concezione cristiana della società» (Gemelli 1951 , 541), che in quegli anni non mancavano (si pensi a figure come Ezio Vanoni, autore del noto “Piano” che da lui prese il nome e Pasquale Saraceno, tra gli elaboratori, con il primo, del “Codice di Camaldoli” in odore di antifascismo e in prospettiva postfascista, 1943-45).

5. Cenni di teologia del lavoro
Nel medesimo arco temporale che stiamo prendendo in esame non mancarono nemmeno, nel panorama italiano, visioni più marcatamente teologiche che diedero del lavoro definizioni di tipo “speculativo”. Giovanni Battista Montini riprendeva il concetto filosofico, di marca tomista filtrato attraverso Jacques Maritain, delle “cause seconde” a partire dalle quali si può risalire alla “causa prima”: «Il lavoro è una ricerca delle cause prossime e immediate che, mediante l’intelligenza e l’opera dell’uomo, vengono assoggettate al suo servizio, alla sua vita: non è implicitamente una ricerca della causa prima?» (Montini 1988, 75). Con minore finezza concettuale ma con maggiore forza retorica improntata a un antropocentrismo che oggi ci appare discutibile, Luigi Civardi, assistente generale delle Acli, in un numero di “Quaderni di azione sociale”, esaltava il «primato imperdibile» dell’uomo non solo come «re della creazione» ma anche come «re della produzione» (Civardi 1950, 163). Risuona forte l’eco della visione del lavoro, suggerita dalla nuova teologia valorizzatrice delle “realtà terrestri”, come con-creazione cioè come partecipazione e continuazione dell’opera divina . Si possono pure ricordare le pratiche di nuova devozione che avevano al loro centro la figura di san Giuseppe artigiano che bene impersonava – come precisò Pio XII – la «dignità del lavoratore del braccio» (la festa fu celebrata per la prima volta nel 1956, non senza una certo disappunto per coloro che puntavano su una decisione per la festa di “Gesù lavoratore”, che fu ostacolata dal Sant’Uffizio che giudicava l’ipotesi troppo “classista”) .

6. Mario Romani e il lavoro come protagonista dell’incivilimento storico
In questo contesto possiamo collocare la figura di Mario Romani, il quale, sulle scia della diagnosi delle patologie sociali dell’industrialismo, ha suggerito le terapie con cui farvi fronte non solo con spirito pragmatico, ma anche sulla base di orientamenti suggeriti da una lettura del senso dei processi storici di lungo periodo. In questo modo egli ha consegnato alla cultura della organizzazione sindacale della Cisl un esempio di intreccio tra pratica sul campo e motivazione teorica. Nella sua riflessione sono ricorrenti schemi teorici che gli permettono di confrontarsi con le questioni emergenti del suo tempo e presiedono anche all’attività di promozione culturale e di formazione dei lavoratori del sindacato (Carera 2007, 117-176) a lungo perseguita dal docente della Università Cattolica di Milano.
Tra le idee conduttrici di Romani campeggia certamente quella del lavoro come protagonista dell’”incivilimento” storico in atto e, insieme, come perno del suo compimento oltre le distorsioni e le lacerazioni del presente. L’incivilimento che Romani senza esitazioni ravvisava nel passaggio dalla società contadina alla società industriale era infatti a suo parere solcato da una sorta di spaccatura evidente, specialmente con riguardo alla situazione italiana mai isolata però dal contesto europeo e mondiale, nel cuore del processo della seconda rivoluzione industriale. Una tale spaccatura determinava effetti di integrazione e di vantaggio per alcuni soggetti sociali e di estraneità per altri. Si tratta allora di cogliere le tensioni e i blocchi condizionanti la società industriale : Questa tensione, a cui si aggiungono «quelle generate dalla inferiorità da non-appartenenza e quindi da non-rilevanza» (Romani 1988, 110), può essere affrontata efficacemente solo sul piano dell’agire dei gruppi aventi «affinità di posizioni» e «comunanza di interessi» (Romani 1988, 111).
Come allora rimediare e fare equilibrio, con una strategia di ‘moderazione’ degli scompensi, rispetto a tensioni che possono suscitare instabilità e insicurezza? All’altezza di questa domanda, che scaturisce dall’idea di un senso da riconoscere e da imprimere alla vicenda temporale, si colloca l’individuazione di un soggetto storicamente decisivo perché in grado di assumersi l’impegno di dare corpo alla costruzione di un assetto più valido del convivere.

7. Soggetto sindacale, partecipazione e rapporto con l’antagonismo
Il soggetto storico s’incarna nel movimento sindacale, termine cui si possono annettere valenze dinamiche più marcate rispetto a quello di “organizzazione” e associato spesso a unionismo, per motivi di pregnanza semantica e non soltanto come eco della terminologia anglosassone. Il movimento sindacale, soggetto sociale generato dallo stesso industrialismo, ha le carte in regola per farsi carico, con un’azione virtuosa, degl’interessi generali, che la classe imprenditoriale borghese rischia di disattendere a causa delle sue inclinazioni particolaristiche. Se si dà credito a un nuovo e autonomo soggetto sociale con la capacità di guardare in modo giusto agli interessi generali, allora con questa visione del processo storico si collega una meta etica di universalizzazione del bene possibile, in armonia con una civilizzazione da tutti partecipabile.
Emerge qui il tema strategico della partecipazione e del suo rapporto con l’antagonismo. Perché non essere soltanto antagonisti o unilateralmente antagonisti? Non per spirito di accomodamento a tutti i costi o per furbizia pragmatica in funzione di vantaggi immediati, ma perché l’antagonismo unilaterale coinciderebbe con l’essere portatori di interessi particolari e, come tali, di breve respiro. L’atteggiamento partecipativo non si riduce insomma a essere una tattica più conveniente di altre, ma può vantare una validità maggiore in quanto è alla base di un’azione in grado di assumere la cura dell’interesse generale. Pertanto la partecipazione è la via operativa di una civilizzazione all’altezza di una razionalità sociale condivisa nel superamento delle lacerazioni che creano diseguaglianza.

8. Partecipazione e contrattazione
Nell’orizzonte della partecipazione si iscrive il metodo “Cislino” della contrattazione. A voler approfondire il concetto, potremmo dire che “contrattare” non è soltanto un’apprezzabile abilità tecnica. La prassi contrattuale è piuttosto l’attuazione di una procedura deliberativa consona alle esigenze del giusto e del bene , grazie alla quale le diverse voci in campo vengono anzitutto investite di pari dignità in quanto disponibili a un risultato che possa essere condiviso, sebbene l’interesse per un tale esito possa essere diverso o avere scopi non omologabili. Ne scaturisce un modello di partecipazione “competitiva”, in quanto la partecipazione non esclude e non bandisce a priori il conflitto. Quest’ultimo favorisce la verifica puntuale delle posizioni in gioco e intreccia il potere di determinazione del risultato con la forza degli argomenti addotti nella ponderazione dei vantaggi e degli svantaggi. Ma quando la contrattazione ben impostata non perviene all’accordo, la “parte” sindacale che è portatrice di un interesse generale, o comunque di un interesse collettivo più accreditabile di quello della “controparte”, può assumersi la responsabilità di una iniziativa in certo modo di supplenza rispetto alle carenze decisionali altrui. In tal caso la sospensione o l’interruzione della procedura contrattuale condivisa può giustificare l’astensione dalla prestazione lavorativa, nella forma canonica dello sciopero come strumento di negoziazione univoca ma non unilaterale, dal momento che esso diventa la via obbligata ed efficace grazie alla quale il movimento sindacale organizzato riesce ad esprimere l’istanza di razionalità sociale di cui è portatore.
Risulta così con maggiore chiarezza il compito di imprimere al processo storico una qualità razionale conforme all’interesse collettivo, in vista di una fruizione condivisa delle risorse, al presente soddisfatta in misura insufficiente nonostante le premesse ad essa favorevoli. Si tratta insomma di operare per una razionalità della convivenza come assetto di partecipazione universale ai beni e alle opportunità, traghettando le potenzialità storiche verso la loro attualizzazione. Il movimento sindacale è chiamato a questa vocazione peculiare, la quale investe un soggetto specifico di un impegno di portata generale.

9. Un commento: contrattazione e moderatismo
L’ermeneutica della contrattazione come dispositivo di razionalità sociale nel contesto storico in cui il lavoro è veicolo di incivilimento si pone a monte delle scelte tattiche di tipo moderato o di tipo radicale che l’organizzazione sindacale può esprimere. Ciò significa che la vicenda della CISL non può essere rubricata all’insegna del moderatismo – inteso come preclusione aprioristica di ogni posizione conflittuale – fino alla metà degli anni Sessanta del secolo scorso, per essere poi accusata di degenerazione in “sindacato di classe” nella stagione che inizia con l’autunno caldo del 1969, prima di rinsavire successivamente e di redimersi con il passaggio dalla postura negativa della rivendicazione a una rinnovata cultura della partecipazione. La contrattazione è di per sé un dispositivo metodico oscillante nelle modalità di attuazione e la elasticità del suo carattere può dar conto del filo rosso che lega tra loro esperienze apparentemente contrastanti e discontinue.

10. Protagonismo dei soggetti del lavoro e collaborazione all’accrescimento della produttività
In questa cornice si innesta il tema della collaborazione all’accrescimento della produttività “a condizioni determinate” e quindi il disegno ambizioso della «partecipazione attiva di tutti i prestatori d’opera e dei lavoratori alle responsabilità direzionali» dell’azienda secondo il progetto espresso nel documento CISL dell’ottobre 1953 (1956, 24). Una cultura del lavoro sganciata da modelli sistematici propri della tradizione sindacale di ascendenza in senso lato marxista permette a Mario Romani di formulare un disegno di protagonismo dei soggetti del lavoro inserito nel nucleo dinamico della trasformazione industriale in cui emergono nuovi fattori di produttività. L’idea di produttività del lavoro associato a incrementi retributivi per i lavoratori non può essere intesa come una soluzione soltanto tecnica. La produttività ‘partecipata’ è un obiettivo strategico complesso che fa entrare in gioco attori diversi, i quali vengono chiamati in causa con la dignità di protagonisti del processo produttivo.
In una conversazione del 1953, sul tema “Sindacalismo operaio e produttività”, Romani ricordava che «il problema dell’accrescimento della produttività consiste nell’utilizzare nel modo più efficace il complesso delle risorse disponibili onde produrre il massimo possibile di ricchezza al costo più basso possibile” (Romani 1988, 186). Respinta quindi l’equazione tra accrescimento della produttività e supersfruttamento dei lavoratori, Romani veniva a porre, come condizione dell’«avvicinamento» dei lavoratori al problema, la ripartizione dei benefici derivanti da tale accrescimento di produttività e la partecipazione alla individuazione dei «mezzi» atti a realizzarlo (Romani 1988, 187). Precisava egli ulteriormente: «È di immediata evidenza l’importanza della cooperazione del sindacato allo studio e alla applicazione della vasta gamma di misure (dall’addestramento professionale allo studio dei tempi e dei movimenti; dal confort psico-fisiologico del lavoratore al flusso dei materiale nello stabilimento) suscettibile di migliorare l’efficienza delle combinazioni produttive per unità o per settore».
Qui il teorico della CISL innestava pure l’aspetto più propriamente contrattualistico della cooperazione, scandito su due piani: «l’effettivo apporto tecnico dei lavoratori al miglioramento del livello di produttività aziendale» e «la introduzione nella remunerazione del nuovo elemento – cioè di un incentivo o di un premio – destinato ad interessare collettivamente il personale a tale miglioramento».

11. La persona e i nuovi orizzonti della sua realizzazione
Romani ci consegna anche un problema: tenendo fermo il compito di una costruzione storica conforme a una razionalità superatrice delle fratture, è sufficiente oggi un movimento di emancipazione che si affidi alle forze positive dello sviluppo industriale e quindi, potremmo dire, alla potenza del lavoro o dei lavoratori riscattati dal senso di estraneità a tale sviluppo? Occorre essere chiari: non vi è dubbio che tale movimento resti necessario, ma è anche sufficiente? Si è osservato che Romani ha avuto «la forza di non concedere nulla o quasi alle visioni tradizionali del problema del lavoro salariato» . Si può andare avanti nell’approfondimento della visione, per così dire, laica che del lavoro egli ci ha trasmesso?
Per andare avanti, possiamo prendere le mosse dalla consapevolezza, nutrita da Romani, del fatto che la posta in gioco fondamentale è la soddisfazione della persona o, come egli diceva, la realizzazione della personalità. E’ questo l’orizzonte ricomprensivo della stessa soddisfazione del lavoratore. Ora, è indubbio che l’affermazione dei lavoratori è stata, in un passato non lontano, la via maestra per la realizzazione della persona e, più concretamente, della sua condizione di cittadino partecipe a pieno diritto dei benefici dell’inclusione politica. Noi oggi però non possiamo non renderci conto che l’insistenza esclusiva e unilaterale sul lavoro come via alla soddisfazione della persona conduce a non raggiungere il risultato. Anzi il lavoro, sia per le deficienze in ordine ad un accesso universalistico sia per i suoi limiti sul piano antropologico, si rivela una porta forse troppo stretta e per l’acquisto della cittadinanza e per il conseguimento della pienezza della persona. Come muoversi perciò in una situazione nella quale il lavoro è sacrosanto che rimanga importante, e venga quindi tutelato e promosso nel modo più efficace dall’azione sindacale, ma nella quale, al tempo stesso, non basta da solo a coprire le finalità che in passato gli sono state assegnate?
Occorrono altri strumenti di copertura (almeno) minima dei bisogni a carico della intera collettività, che deve essere chiamata a sostenere un patto politico più impegnativo e istituzioni più mirate, per far fronte alle esigenze di coloro che o sono fuori del lavoro o hanno con esso un rapporto di precarietà marginale che si ripercuote sulle condizioni complessive di esistenza. In definitiva come è possibile, stando pur sempre con i piedi saldi nel lavoro, avere da parte del sindacato un’incidenza sociale ed umana che non si arresti al solo lavoro? Mi sembra che nella riflessione di Romani sia disegnato il cammino di una razionalità storica lungo il quale siamo spinti con urgenza a usare categorie aggiuntive a quelle da lui usate, sempre nella direzione dell’incivilimento e della compiuta personalizzazione per tutti, specialmente per coloro che, schiacciati da dinamiche inedite di espulsione dai luoghi della convivenza, sono esposti al rischio di precipitare nel «senso di estraneità e di avversione nei riguardi del contesto sociale» (Romani 1952, in Baglioni 2005, 161).

12. Un bilancio e un confronto: la visione ‘salvifica’ del lavoro e i suoi limiti
Passando in rassegna l’idea di lavoro nella concezione della Cisl, a distanza di un trentennio, Aris Accornero (1980, vol. I, 243) emetteva una sentenza molto severa, che arrivava a rimproverare a quel sindacato di non avere considerato il lavoro una componente centrale e fondativa della propria cultura, subordinando acriticamente il lavoro salariato al ruolo trainante dell’impresa e al modello dell’industrialismo vincente, anche per la suggestione esercitata dalla “sociologia della modernizzazione” di stampo americano (Talcott Parsons e Thornstein Veblen). In sostanza, sulle orme di un giudizio attribuito a Bruno Trentin, una “filosofia della produttività” (Accornero 1980, 254-55) avrebbe oscurato l’antagonismo dei lavoratori al capitale, al punto da avallare un mito della «produttività» senza «forze produttive», indulgendo a una sorta di “pragmatismo tecnocratico”. Una siffatta valutazione può essere ribaltata a favore della Cisl se si dà invece credito a una imputazione di ritardo del sindacato Cgil – fermo in una impostazione “marxista” dottrinaria che portava all’enfasi della irriducibilità dell’”operaio di mestiere” nella contrapposizione al management industriale – nel recepire i mutamenti dell’impresa, almeno fino alla correzione di rotta imposta dalla sconfitta nelle elezioni interne alla Fiat del marzo 1955.
La valutazione di Accornero permette però di fare un bilancio riguardo al “cristianesimo sociale”, che si è cercato di esplorare in un segmento temporale nella sezione specifica di alcuni pronunciamenti selezionati con il criterio della operatività storica ai quali hanno dato corso . La filosofia – ammesso che il termine non sia ridondante – che li ha sostenuti non è certamente improntata a una visione complessiva del processo storico imperniata sulla contraddizione dialettica tra forze di produzione e rapporti di produzione grazie alla quale la “condizione proletaria” diventerebbe il punto di leva del rovesciamento “rivoluzionario” dell’assetto capitalistico. Si potrebbe parlare invece di una compresenza e talvolta di un sincretismo di posizioni che vanno dalla rivisitazione del lavoro come luogo qualificante, sia sul piano antropologico sia sul piano teologico, alle letture storicizzanti della evoluzione del capitalismo industriale, segnato al contempo dall’incremento della ricchezza e dalla deficienza nella sua distribuzione, con effetti di lacerazione sociale e di iniquità nella fruizione di risorse che costituiscono il “bene comune”.
In particolare, la valorizzazione della “produttività”, lungi dall’essere attribuita unilateralmente ai detentori del capitale e alle innovazioni organizzative di tipo tecnico, viene fatta dipendere dalla capacità di partecipazione dei lavoratori in un contesto di contrattazione che mette in gioco le loro competenze e anche le loro potenzialità direttive. La contrattazione – come sarebbe emerso con evidenza nella stagione “calda” del 1968 e soprattutto del 1969 – non esclude l’antagonismo, l’orienta bensì verso approdi non palingenetici di condivisione equa delle risorse. Il lavoro, come si è visto, diventa il fulcro di un “incivilimento” che passa attraverso il superamento delle spaccature e delle tensioni, in vista di una “pace sociale” possibile solo nel contemperare le distanze esistenti e nella capacità di far prevalere l’interesse generale sui privilegi particolari. Il lavoro è senz’altro la leva del riscatto e non del rovesciamento rivoluzionario, a meno che quest’ultimo non venga considerato secondo i canoni del “personalismo comunitario” di marca mounieriana e distintivo della rivista “Esprit”. Il terreno comune al cristianesimo sociale e al messaggio di ascendenza marxiana è, per quanto possa sembrare strano, quello della valenza salvifica del lavoro. In un caso si tratta però di una salvezza – una volta battuto in breccia ogni residuo stereotipo del lavoro come conseguenza della maledizione divina ed espiazione della colpa originaria – affidata a un modello che potremmo chiamare di santificazione laica legato a un messaggio religioso di trascendenza, nell’altro caso di una salvezza generata dalla prospettiva immanente della società senza classi dei “liberi e uguali”.
Entrambe le posizioni sembrano attualmente oggetti vintage. D’altra parte, anche l’apertura al paradigma della produttività e alle human relations nei rapporti aziendali, cui pure la cultura Cgil aderì non senza puntare sull’uso progressivo che le tecniche produttive avrebbero potuto avere grazie a un potere politico alternativo a quello capitalistico-borghese, andrebbe oggi riesaminata criticamente in ragione del suo temibile slittamento passivo in una resa al produttivismo e al consumismo senza limiti. In questo senso, l’enfasi lavoristica, diversamente ascrivibile alle due culture, andrebbe corretta per smarcarsi dall’acquiescenza ai modelli di domino e alle forme di sfruttamento derivanti dall’antropocentrismo unilaterale, dannoso per i viventi non umani e per l’ambiente, a favore invece di modelli antropologici ed ecologici più ricchi e comprensivi.

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