Testo integrale con note e bibliografia

1. A distanza di cinquant’anni dalla promulgazione, l’art. 36 può essere annoverato tra le disposizioni dello Statuto dei lavoratori (l. n. 300/1970, di seguito SL) che ormai assumono una pressoché nulla incidenza nei contenziosi giudiziari ed in particolare in quelli relativi alle procedure di affidamento degli appalti pubblici di opere e di servizi.
Com’è noto, la ragione di questa assenza è da imputare al varo all’interno dell’ordinamento, a partire dalla riforma realizzata da d.lgs. n. 163/2006 , di una tecnica diversa da quella prevista dalla disposizione statutaria per (tentare di) realizzare l’obiettivo di tenere fuori dalla dinamica concorrenziale del mercato degli appalti pubblici la variabile del costo del lavoro.
Scontando un po’ di approssimazione, giustificata dallo scopo di venire subito al cuore del tema oggetto del presente contributo, si può subito evidenziare che la differenza tra le due tecniche risiede nella diversa fonte dalla quale deriva il diritto dei lavoratori impiegati dall’appaltatore a percepire un trattamento non inferiore a quello previsto dai contratti collettivi di categoria (c.d. clausole di equo trattamento o clausole sociali di prima generazione ).
In base all’art. 36 SL , la pretesa alla percezione di tale trattamento minimo è, infatti, azionabile solo a condizione che all’interno del capitolato di appalto sia inclusa una clausola che espressamente riconosca un simile diritto . Al contrario, all’interno del Codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 50/2016, di seguito CCP), tale diritto trova fondamento direttamente nella legge, cosicché non è necessario che la clausola di equo trattamento sia prevista dal bando di gara, né che sia inserita nel contratto di appalto. La legge pone, infatti, il rispetto dei trattamenti minimi previsti dalla contrattazione collettiva, per un verso, come criterio, tra gli altri, di selezione dell’aggiudicatario e, quindi, come condizione per l’aggiudicazione dell’appalto (artt. 23, co. 16, 97, co. 5, CCP) e, per l’altro, quale misura del trattamento inderogabilmente dovuto al lavoratore “impiegato nei lavori, servizi e forniture” (artt. 30, co. 4, 105, co. 9, CCP).
Se attraverso tale mutamento della tecnica normativa il legislatore ha così rimosso uno dei limiti della disciplina statutaria, già evidenziato da un’autorevole dottrina , vale la pena però di chiedersi se l’obiettivo di assicurare al lavoratore impiegato nella realizzazione dell’appalto pubblico un trattamento conforme a quello previsto dal contratto collettivo di categoria sia divenuto, grazie a tale diversa tecnica, effettivo o, in caso di risposta negativa, quali ostacoli si frappongano ancora oggi alla sua realizzazione.

2. Prima di provare a fornire una risposta a tale domanda, appare utile interrogarsi sulle finalità che il legislatore dello SL intendeva perseguire tramite le clausole di prima generazione, per poi valutare se tali finalità siano tuttora valide o se esse si siano in qualche misura arricchite. Questa preliminare valutazione, lungi dal rivelarsi un mero esercizio speculativo, può invece tornare utile per riflettere sulla effettiva idoneità delle clausole di prima generazione a neutralizzare l’incidenza che il costo del lavoro è destinato ad assumere nella dinamica concorrenziale del mercato degli appalti pubblici.
Il limitato spazio a disposizione di questo contributo inducono invece a tralasciare l’esame, non possibile neanche per sommi capi, dei complessi problemi di compatibilità delle clausole di equo trattamento con l’ordinamento euro-unitario .
Muovendo dalla prospettiva indicata, si deve ricordare come la dottrina avesse evidenziato che tramite la regola dettata dall’art. 36 SL il legislatore mirava a realizzare un’ingerenza della pubblica amministrazione nella disciplina dei rapporti tra le imprese, destinatarie di un beneficio o aggiudicatarie di un appalto pubblico, e i loro dipendenti . Tale ingerenza era funzionale a realizzare due obiettivi complementari. Da un lato, prevenire, nell’interesse della P.A., i conflitti con i lavoratori che potrebbero ritardare la consegna del bene o la realizzazione del servizio. Dall’altro, contribuire ad attuare l’obbligo della Repubblica di tutelare il lavoro (art. 35 Cost.), assicurando l’applicazione della contrattazione collettiva da parte delle imprese con le quali lo Stato deve avere rapporti .
La previsione dell’art. 36 SL, in questa prospettiva, si rivelava perfettamente coerente con le due anime principali dello Statuto: quella volta a sostenere la presenza sindacale in azienda promuovendo l’applicazione, ancorché indiretta e mediata, della contrattazione collettiva (linea promozionale); quella di assicurare l’estensione la più ampia possibile delle tutele del lavoro subordinato sul piano del rapporto individuale di lavoro (linea costituzionalistica) . Come ancora osservava GHERA, l’interesse pubblico viene a coincidere con l’interesse collettivo ad allargare l’ambito di applicazione della disciplina posta dalla contrattazione collettiva, realizzando un importante effetto di sostegno all’azione sindacale .
Se questa era la funzione originaria delle clausole sociali di equo trattamento, la stessa ha subito negli anni recenti un indubbio arricchimento. Com’è stato messo in evidenza, sarebbe infatti oggi riduttivo attribuire alle clausole sociali una mera funzione di tutela sociale dei lavoratori, poiché le stesse operano quali strumenti di regolazione del mercato degli appalti, nell’obiettivo di evitare non solo che il costo del lavoro divenga un fattore della competizione tra le imprese, ma anche nel tentativo di orientare i comportamenti imprenditoriali verso obiettivi di maturità dei modelli organizzativi .
La funzione che le clausole sociali sono, in questa prospettiva, chiamate ad assolvere appare peraltro coerente con l’importanza che l’ordinamento euro-unitario attribuisce agli appalti pubblici come motore di ricerca e innovazione, anche sociale , ancorché le direttive continuino a condizionare l’applicazione delle regole a tutela del lavoro poste dalla legge e dalla contrattazione collettiva al fatto che le stesse siano compatibili con il diritto dell’Unione
I molteplici obiettivi che le amministrazioni pubbliche sono chiamate a realizzare tramite la leva degli appalti pubblici costituiscono, peraltro, la migliore giustificazione del superamento della regola esclusiva dell’aggiudicazione dei lavori sulla base del massimo ribasso, che può essere subordinata, come dispone l’art. 30, co. 1, CCP, “ai criteri, previsti nel bando, ispirati a esigenze sociali, nonché alla tutela della salute, dell’ambiente, del patrimonio culturale e alla promozione dello sviluppo sostenibile, anche dal punto di vista energetico”.

3. Nel quadro sin qui sommariamente richiamato, devono essere calate le norme del CCP deputate a garantire la possibilità per i lavoratori di percepire trattamenti non inferiori ad uno standard minimo, la cui determinazione in concreto, come subito vedremo, è tutt’altro che agevole e comunque non univoca.
Come anticipato in esordio, il CCP attribuisce rilevanza ai trattamenti economici da riconoscere ai lavoratori impiegati nell’esecuzione dell’appalto in due momenti diversi.
Il primo momento è quello della fase dell’aggiudicazione dell’appalto ove è previsto che la stazione appaltante debba escludere l’offerta, in quanto anormalmente bassa, nel caso in cui il costo del personale dichiarato sia inferiore ai minimi retributivi indicati nelle apposite tabelle di cui all’art. 23, co. 16, CCP (così l’art. 97, co. 5, lett. d, CCP). Quest’ultima disposizione prevede, infatti, che il Ministero del lavoro rediga annualmente le tabelle relative al costo del lavoro sulla base dei valori economici definiti dai contratti collettivi nazionali sottoscritti tra le organizzazioni, datoriali e sindacali, comparativamente più rappresentative.
Nell’interpretazione di tale regola, la giurisprudenza amministrativa ha sottolineato la necessità di tenere distinta la scelta dell’ammissione dell’offerta da quella della valutazione della sua congruità.
Muovendo da tale distinzione, il Consiglio di Stato ha in più occasioni ribadito che non è possibile escludere dalla gara un offerente sulla base del semplice fatto che lo stesso abbia scelto di dare applicazione ad un contratto collettivo diverso da quello indicato all’interno del bando .
La possibilità per l’impresa di scegliere il contratto collettivo da applicare al personale impiegato nell’esecuzione dell’opera o servizio oggetto della gara è l’effetto, non solo della libertà negoziale dell’impresa nella sua dimensiona sindacale, ma anche della libertà di organizzare la propria attività .
In questa prospettiva, unico limite alla scelta del contratto collettivo da applicare è quello della coerenza di quest’ultimo con l’attività oggetto dell’appalto (su questo profilo v. meglio infra).
Peraltro, se l’indicazione di un contratto collettivo diverso da quello indicato nel bando di gara o da quello utilizzato dal Ministero del lavoro per la redazione delle tabelle relative al costo del lavoro previste dall’art. 23 CCP non può essere causa di esclusione, tale scelta può essere chiamata a giustificazione dello scostamento del costo del lavoro indicato da quello previsto da quelle medesime tabelle.
Come ha pacificamente chiarito la giurisprudenza amministrativa, infatti, le tabelle ministeriali non dettano un valore assoluto, ma un valore medio , rispetto al quale sono quindi ammessi scostamenti.
Scostamenti che, in prima battuta, possono essere motivati proprio dalla scelta del datore di lavoro di applicare un contratto collettivo diverso da quello sulla base del quale le tabelle ministeriali siano state redatte .
Nella prospettiva appena indicata, la scelta del contratto collettivo diviene mezzo della competizione tra le imprese del settore e ciò appare tanto più evidente se si considera che, come sopra evidenziato, la giurisprudenza amministrativa la riconduce, non tanto o non solo nell’alveo della libertà di contrattazione collettiva, quanto piuttosto nell’alveo della libertà di organizzazione dell’attività imprenditoriale e quindi nel contesto della libertà di iniziativa economica privata protetta dall’art. 41 Cost. .
La libertà di organizzazione dell’attività produttiva da parte delle imprese offerenti assume però una rilevanza ulteriore, con riferimento al tema dei trattamenti concretamente percepiti dai lavoratori impiegati nell’esecuzione degli appalti pubblici, se si considera che nella valutazione della congruità dell’offerta deve essere dato un adeguato riconoscimento alle scelte organizzative dell’impresa.
Come ancora ha chiarito la giurisprudenza amministrativa, nella valutazione della congruità dell’offerta deve essere dato “spazio alla valutazione di efficienze organizzative dell'impresa, che conducono alla scelta dell'offerta realmente «economicamente più bassa». Il costo del lavoro non è un costo standardizzato e uguale per tutte le imprese, che possa essere predeterminato dalla stazione appaltante e previamente scorporato sulla base di indicazioni tassative da questa provenienti” .
Ragionando su quest’ultimo profilo, ci si avvede allora facilmente di come la competitività della proposta formulata dall’impresa offerente possa dipendere dalla scelta di impiegare, ad esempio, un’organizzazione del lavoro che dia spazio prevalente a tipologie negoziali suscettibili di assicurare una riduzione del costo del lavoro, per esempio, ma non solo, tramite l’accesso a sgravi contributi e fiscali.
Le sintetiche osservazioni che precedono pongono in evidenza come la garanzia dell’equo trattamento per i lavoratori impiegati nell’appalto imposta dal CCP non si traduca nel riconoscimento a quei medesimi lavoratori di un trattamento medio corrispondente alla media indicata all’interno delle tabelle ministeriali, ben potendo il trattamento finale collocarsi al di sotto della stessa. Le medesime osservazioni spiegano anche perché quello degli appalti pubblici, soprattutto di servizi ad alta intensità di lavoro, sia un settore caratterizzato da salari bassi . Ciò poiché il costo di lavoro, dati i meccanismi appena ricostruiti, costituisce una delle variabili sulle quali si gioca la concorrenza tra le imprese interessate alla gara in un settore normalmente caratterizzato da margini di guadagno inevitabilmente contenuti.
Venendo al secondo momento nel quale il CCP attribuisce rilevanza al trattamento dovuto ai lavoratori impiegati dall’appaltatore pubblico, deve essere ricordata innanzitutto la previsione dell’art. 30, co. 4, a mente del quale “al personale impiegato nei lavori, servizi e forniture oggetto di appalti pubblici e concessioni è applicato il contratto collettivo nazionale e territoriale in vigore per il settore e per la zona nella quale si eseguono le prestazioni di lavoro stipulato dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e quelli il cui ambito di applicazione sia strettamente connesso con l'attività oggetto dell'appalto o della concessione svolta dall'impresa anche in maniera prevalente”. Coerentemente con tale previsione, l’art. 105, co. 9, per l’ipotesi del subappalto, precisa che “l’affidatario è tenuto ad osservare integralmente il trattamento economico e normativo stabilito dai contratti collettivi nazionale e territoriale in vigore per il settore e per la zona nella quale si eseguono le prestazioni”.
A dispetto dell’apparente chiarezza della regola che tali disposizioni enunciano, l’applicazione pratica della stessa non è scevra di difficoltà. Difficoltà principalmente generate dalla natura di contratti di diritto comune dei contratti collettivi e dal principio di libertà sindacale che informa il nostro sistema di contrattazione collettiva, alla luce del quale parte della dottrina ha rilevato una potenziale incostituzionalità delle disposizioni che impongono all’appaltatore di applicare un certo contratto collettivo .
L’analisi della giurisprudenza amministrativa, con riferimento a questo specifico aspetto, sembra restituire due importanti indicazioni che possiamo sintetizzare come segue.
Da un primo punto di vista, l’analisi dei repertori giurisprudenziali evidenziano come il contenzioso appaia principalmente concentrato sulla fase dell’aggiudicazione dell’appalto pubblico, cosicché è in questa fase che il tema del rispetto dei trattamenti previsti dai contratti collettivi leader viene sollevato dinanzi ai giudici amministrativi e risolto nell’applicazione delle regole più sopra ricordate. Il che induce a concludere che sul piano della dinamica concreta dei rapporti di appalto, le stazioni appaltanti sono capaci di esercitare un controllo sulla corretta erogazione ai dipendenti dei trattamenti previsti dai contratti collettivi avvalendosi dei poteri conferiti dai commi 5 e ss. dell’art. 30 CCP. Poteri che di fatto permettono alla stazione appaltante di bloccare il pagamento del compenso dell’appaltatore o di intervenire in funzione sostitutiva in caso di inadempimento dell’appaltatore agli obblighi retributivi e contributivi connessi alla prestazione resa dai dipendenti impiegati nell’appalto.
Da un secondo punto di vista, la salvaguardia del principio della libertà sindacale appare assicurata, nella giurisprudenza amministrativa sopra citata, attraverso il riconoscimento del diritto dell’appaltatore di scegliere il contratto collettivo da applicare, ancorché diverso dal c.d. contratto leader, ponendo l’unico limite della corrispondenza tra l’attività oggetto dell’appalto e l’ambito di applicazione del contratto collettivo, così come definito dalle parti sociali.
Non sembra dunque essersi (ancora) posto nella giurisprudenza amministrativa il diverso tema della compatibilità con la seconda parte dell’art. 39 Cost. della norma che impone all’appaltatore di applicare un contratto collettivo (ancorché non necessariamente quello leader). Sotto questo versante, condividendo le osservazioni già espressa da una parte della dottrina, è però possibile ritenere che tale incompatibilità non si configuri nel momento in cui l’applicazione del contratto collettivo costituisce una condizione per potere esercitare la scelta, che rimane libera, di conseguire l’aggiudicazione di un appalto pubblico . Condizione che appare lecita se letta nell’ottica del contemperamento tra il principio di libertà sindacale e i principi di buon andamento e imparzialità dell’azione pubblica .

4. In base a quanto sin qui osservato, appare dunque possibile identificare la chiave di volta idonea a garantire la legittimità costituzionale del meccanismo normativo previsto dal CCP, nel limite costituito dalla coerenza tra oggetto dell’appalto e ambito di applicazione del contratto collettivo .
A ben vedere, infatti, tale regola, anziché limitare la libertà sindacale realizzando una reintroduzione surrettizia della categoria ontologica, in realtà la valorizza. Ed infatti, nel momento in cui l’ordinamento pone una misura minima del trattamento dovuto ai lavoratori impiegati nell’appalto come condizione per l’aggiudicazione, lascia infatti al datore di lavoro la facoltà di scegliere quale contratto applicare, ma entro i limiti della regolamentazione dell’interesse collettivo definita dalle parti sociali (che di quell’interesse sono le uniche titolari).
Muovendo da questa prospettiva, non si può però non osservare come sia destinata ad avere un impatto anche sul mercato degli appalti pubblici l’attuale dinamica delle relazioni sindacali italiane, caratterizzate, com’è noto, dalla frammentazione della contrattazione collettiva di categoria in un numero elevatissimo di contratti collettivi nazionali, più o meno qualificabili come tali .
Rispetto a tale proliferazione, la condizione che il contratto collettivo da applicare sia quello sottoscritto dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative sul piano nazionale (art. 30, co. 4, CCP) non appare idonea a selezionare adeguatamente il contratto da assumere come punto di riferimento e, quindi, non appare in grado di contenere l’effetto di scaricare la concorrenza tra le imprese sul costo del lavoro.
Ciò almeno per due ragioni.
La prima è che, com’è noto, nell’assenza di una legge specificamente deputata a regolamentare la misurazione della rappresentatività delle organizzazioni, non esistono al momento strumenti idonei a pesare in maniera certa e oggettiva il “peso” di ciascuna organizzazione e, di conseguenza, la possibilità di annoverare il contratto collettivo tra quelli a cui la disposizione legale rinvia.
La seconda ragione deriva dal criterio, sopra richiamato, adottato dalla giurisprudenza amministrativa per selezionare il contratto collettivo di riferimento: ossia la coerenza tra l’attività in cui saranno impiegati i lavoratori per eseguire l’appalto e l’ambito di applicazione del contratto collettivo definito dalle parti sociali. Questo criterio amplia molto il novero delle organizzazioni che devono essere “confrontate” per valutare la rappresentatività reciproca delle stesse, amplificando ancora di più la rilevanza che la diversità dei trattamenti previsti dai diversi contratti collettivi può assumere nella dinamica concorrenziale del mercato degli appalti.
In conclusione, l’analisi svolta nei paragrafi che precedono consente di cogliere agevolmente come la proliferazione dei contratti collettivi di categoria permetta di far divenire la scelta del datore di lavoro uno dei fattori principali della competizione per l’aggiudicazione dell’appalto pubblico, offrendo un vantaggio a quelle imprese che, legittimamente in relazione all’attuale assetto del nostro sistema sindacale, dovessero scegliere di applicare, tra i vari possibili, quello che riconosca ai lavoratori, a parità di mansioni svolte e tenendo conto delle peculiarità dell’attività oggetto della gara, i trattamenti più bassi.
Tali osservazioni inducono a ritenere che nell’ambito ristretto degli appalti pubblici potrebbe trovare argomenti più convincenti che in altri settori la introduzione di un salario minimo legale che, quindi, almeno con riferimento ai trattamenti economici, assicuri realmente la realizzazione dell’obiettivo di sottrare la retribuzione dei lavoratori dalle variabili sulle quali si gioca la concorrenza tra le imprese .

 

 

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