Testo integrale con note e bibliografia

1. Non è facile commemorare gli anniversari , specie quello della legge n. 300 del 1970. Da una parte, forse, per il rifiuto di ogni forma di rievocazione, celebrativa o demonizzante, delle ricorrenze, dall’altra, per la propensione a rispettare più l’“anima” del provvedimento normativo che il “corpo”, ormai mutato inesorabilmente sotto i colpi del tempo . È arduo non incorrere in una parata di luoghi comuni e in frasi di circostanza. Probabilmente, è stato scritto molto su questa norma simbolo e, tuttavia, sembra utile tornare ad indagare sulla storia dell’idea originaria ovvero sui progetti anteriori e sui lavori preparatori di matrice parlamentare .
Per tale ragione una ricostruzione del significato attribuito a quello che comunemente è chiamato Statuto dei diritti dei lavoratori non può prescindere dal contesto giuridico in cui la normativa speciale si è inserita. Questa esigenza di carattere generale e metodologico è valida per due ordini di motivi.
Il primo, immediato, è connesso alla circostanza che con la legge n. 300 del 1970 si è inteso regolare i rapporti di lavoro e, in particolare, l’equilibrio contrattuale che si stabilisce nei luoghi di lavoro fra datore e prestatore. Questioni decisive come la possibilità di sanzionare in forma specifica il licenziamento illegittimo privo di una giustificazione (reintegrazione), di strutturare e organizzare la prestazione lavorativa (ius variandi), ma anche il diritto del lavoratore alla salute, alla continuità della sua attività, allo sviluppo professionale e all’esercizio dei diritti fondamentali (es. quello di organizzarsi sindacalmente e quello di esprimere una propria convinzione politica o religiosa) sono presi in considerazione e regolati dal legislatore. Da qui la rilevanza diretta della norma per il carattere e lo sviluppo dei rapporti di lavoro e delle relazioni collettive inerenti alla condizione lavorativa.
Il secondo, indiretto, è collegato alla esigenza di declinare in modo più appropriato i contenuti della Carta costituzionale attraverso precisi interventi normativi. Come noto, non è sufficiente formulare una norma fondamentale per modificare i caratteri di alcuni rapporti di forza in atto nelle sedi lavorative, bensì è necessaria una prescrizione di regole dettagliate che promuovono un certo assetto sociale
Una storia, quella dello Statuto, che viene da lontano e che trova agganci non contingenti nella Carta costituzionale . È appena sufficiente richiamare la portata centrale della Parte prima, Titolo III (Rapporti economici) della Costituzione, e nella prospettiva più ampia i Principi fondamentali e la Parte prima, Titolo I (Rapporti civili), per cogliere il rilievo dato dal costituente ai problemi di tutela e promozione della condizione e del ruolo di chi lavora sia come singolo sia come membro di un gruppo sociale.
La genesi di tale impostazione è facilmente rinvenibile nel passato antidemocratico e illiberale che ha preceduto la formazione della Repubblica italiana, motivo per il quale al momento di ridisegnare gli elementi portanti dello Stato e della società sono state riconosciute e proclamate con cura e dettaglio libertà politiche e civili, ma anche diritti sociali essenziali per il conseguimento di una organizzazione produttiva più bilanciata e giusta.
Sono fin troppo note le vicende degli ultimi anni ’40 e dei primi anni ’50 per comprendere in profondità il difficile percorso legislativo culminato a maggio del 1970 nelle Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro. Una certa linea conservatrice degli anni ’50 e ’60, poi, ha mirato a sfibrare le capacità di iniziativa del movimento operaio, indebolendo le organizzazioni sindacali e comprimendo le condizioni di esistenza delle lavoratrici e dei lavoratori .
Solo, a titolo di cronaca, si può menzionare il moltiplicarsi di licenziamenti per motivi politici e sindacali. Certamente, con questo non si può negare che anche in quell’epoca non siano esistite legittime esigenze di ristrutturazione dell’organizzazione del lavoro. Tuttavia, una delle caratteristiche della prima fase del diritto del lavoro post-costituzionale è contraddistinta proprio da un’erosione della forza di resistenza delle organizzazioni dei lavoratori , specie attraverso licenziamenti di soggetti più esposti o più attivi . A ciò si aggiungono la rottura dell’unità sindacale resa possibile mediante la pratica lecita di contratti collettivi separati con le sigle sindacali che si sono formate all’indomani della scissione e tutte quelle situazioni accompagnate da metodi coercitivi, non sempre in linea con il dettato costituzionale (es. premi antisciopero; reparti confino; sorveglianza dei movimenti dei lavoratori all’interno e all’esterno dei luoghi di lavoro) .
È questa la situazione che ha posto con forza l’esigenza di riconsiderare la questione dei diritti di libertà all’interno dei luoghi di lavoro ed è in tale ambito che sono da inquadrare i contributi di vari soggetti che, in modo diverso, si sono fatti portatori di iniziative legislative in proposito.
La prima proposta di tale natura proviene dalla Cgil nel 1952 con il titolo di “Statuto dei diritti, delle libertà e della dignità dei lavoratori in azienda” , la quale segue la presentazione da parte della stessa confederazione del progetto “Piano di lavoro” (1949) ed è compresa nella relazione del segretario generale al III congresso della Cgil dal titolo significativo “La lotta della Cgil per il benessere degli italiani”.
L’idea di statuto si inserisce da subito in un disegno più ampio, mirato a considerare la complessa dinamica sociale e a porre in rilievo la necessità di una effettiva difesa dei diritti dei lavoratori. Il carattere centrale di questo progetto è costituito dal tentativo di affermare e garantire quelli che sono considerati i diritti inviolabili che la Costituzione riconosce all’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali dove svolge la sua personalità (art. 2 Cost.) . Non si riscontra, invece, un riferimento all’esigenza di proteggere e promuovere l’attività sindacale se non in forma indiretta quando si afferma che il “rapporto di lavoro non può […] limitare il diritto del lavoratore […] di tutelare i propri interessi di lavoratore e di adempiere ai propri doveri associativi” (punto 1° del progetto di statuto). Esplicito e articolato, invece, è il richiamo all’obiettivo di proteggere la sicurezza e le caratteristiche principali del posto di lavoro. Il legame tra difesa dell’occupazione e difesa dei diritti e delle libertà, di cui il prestatore è titolare, è fortemente rimarcato, lasciando emergere una concezione dinamica del rapporto di lavoro.
La stabilità non è presentata come un fine in sé, bensì è concepita come strumento fondamentale per lo sviluppo di un certo tipo di presenza nei luoghi di lavoro vista l’evidenza oggettiva del problema occupazionale e della minaccia di licenziamento. Questa idea di statuto, secondo autorevoli studiosi , potrebbe rivelare una visione acritica e paternalistica della norma di legge. Sicuramente, però, tale progetto ha operato da pungolo per gli organi legislativi e di governo e li ha stimolati a prendere una posizione su alcune situazioni. La confederazione, infatti, non ha mai previsto un esito positivo rispetto alla richiesta di intervento legislativo, atteso che in quegli anni si è aperta una esplicita pressione nei confronti del movimento operaio sia in fabbrica sia fuori. Inoltre, si deve ricordare che attraverso la contrattazione collettiva sono stati acquisiti risultati significativi nella direzione della tutela dei diritti dei lavoratori e delle loro organizzazioni.
Ad onore del vero, la proposta di statuto votata dal congresso della Cgil non è indirizzata al legislatore, ma alle altre confederazioni sindacali per farne oggetto di una trattativa con la controparte datoriale e, solo in via secondaria, viste le particolari difficoltà della negoziazione, è rivolta all’organo legislativo . Non sembra corretto, per tale ragione, attribuire alla Cgil una mera concezione legalistico-burocratica, rimproverandole di essere troppo fiduciosa nella misura legislativa e incapace di uscire dalla ferrea autoreferenzialità. Significativa in tal senso l’autocritica fatta da Di Vittorio nel direttivo del 1955 quando, esprimendo l’opinione secondo cui la colpa della Cgil non è stata quella di lottare troppo, bensì di non aver esteso e radicato con intelligenza strategica la conflittualità .
Purtroppo, tra la proposta del 1952 (e quella del Piano del lavoro del 1949) e questa posizione del 1955 vi sono differenze rilevanti e per precisare ancora di più il senso che si attribuisce all’idea di statuto è utile confrontare la prima (1952) con le indicazioni emerse sul tema in una conferenza stampa della stessa confederazione nel giugno 1955 . Mentre in quella del 1952 non vi è alcun accenno alla commissione interna, nella seconda (1955) su dieci punti elencati tre prevedono forme di garanzia per questo tipo di organizzazione e in altri due le si riconosce una esplicita funzione di contrattazione-mobilitazione nel luogo di lavoro.
Malgrado la presenza di un accordo interconfederale sulle commissioni interne sottoscritto l’8 maggio 1953, alcune di esse non sono state elette e non hanno avuto a disposizione strumenti necessari per esercitare le loro funzioni. La conferenza stampa del 1955 esprime un’articolazione dell’atteggiamento della confederazione circa i mezzi per garantire i diritti dei lavoratori. Si va delineando l’ipotesi che quei diritti possono essere affermati e realizzati attraverso la considerazione e la tutela delle organizzazioni dei lavoratori: il richiamo alla commissione interna è una prova esplicita in tal senso. In simile contesto non è fatto irrilevante che tale organismo sia stato nel 1955 uno strumento tutt’altro che superato nell’organizzazione della lotta in azienda e abbia avuto un carattere il cui valore è stato ripreso con forza ed in forma rinnovata alla fine degli anni ’60: non è considerato un segmento delle organizzazioni sindacali, un loro prolungamento nei luoghi di lavoro, ha costituito invece un’organizzazione autonoma e per questo è statala eletta da tutti i lavoratori nei vari stabilimenti.
All’opposto della Cgil, la Cisl non ha fornito, specie nei primi anni dopo la sua formazione, un contributo esplicito e positivo per la definizione di una normativa a tutela dei diritti dei lavoratori. Ciononostante, sembra necessario richiamare alcuni elementi che hanno contraddistinto l’atteggiamento di questa confederazione perché una sua linea di indirizzo ha trovato precisa risonanza nella l. n. 300/1970.
Al di là dei problemi di collocazione e strategia nell’ambito del movimento sindacale, l’attenzione della Cisl in ordine allo statuto ruota attorno alla concezione del sindacato come associazione . L’esperienza del sindacalismo anglosassone e la concezione del sindacato come corpo intermedio offre una soluzione che pare adeguata. La logica interna dell’organizzazione è “democratica” perché fondata sul reciproco patto associativo, mentre la garanzia di democraticità nei rapporti con le altre sigle sindacali e istituzioni (in particolare i partiti) deriva dalla indipendenza delle rispettive istanze. Una norma che proclami una serie di diritti per i lavoratori nei luoghi di lavoro non è vista con favore per vari motivi. Intanto, per una ragione di principio connessa con la centralità della concezione del sindacato-associazione: la legge tutela interessi generali, invece gli interessi del lavoratore e del sindacato non possono essere considerati tali. Proprio la natura di interessi particolari rende corretta e agevole la contrattazione privata fra le parti. Inoltre, un intervento legislativo dà luogo a controlli e limiti nei confronti delle organizzazioni sindacali, mentre queste ultime sono particolarmente sensibili rispetto alla propria autodeterminazione. Senza considerare poi che la Cisl teme che l’eventuale misura legislativa cristallizzi la situazione di minoranza rispetto alla Cgil.
A conferma di questa linea e del perdurare di tale atteggiamento fino all’approvazione della l. n. 300 del 1970 si può leggere il modo con cui inizia la risposta della Cisl al questionario inviato dal Ministero del lavoro (1969) in merito all’ipotesi di un intervento legislativo . Tuttavia, la Cisl non giudica negativamente la possibilità di giungere ad una legge che generalizzi alcuni trattamenti minimi per tutti i lavoratori . In merito all’opportunità di tutelare per legge le commissioni interne vi è un dibattito molto acceso all’interno della confederazione e i motivi per cui, in fondo, prevale la soluzione negativa non derivano da un pregiudizio verso lo strumento legislativo, ma dalle ambiguità e dai pericoli che si riscontrano nelle caratteristiche di questo organismo . La disponibilità si sviluppa e si articola progressivamente fino a diventare accettazione di un intervento legislativo che ne agevoli l’attività, attraverso un raccordo tra garanzie pubbliche di libertà e sviluppo dell’autotutela. Si fa strada l’idea secondo cui la difesa e l’affermazione dei diritti dei lavoratori si realizzano mediante il riconoscimento delle loro organizzazioni nei luoghi di lavoro.
Dopo questa schematica ricostruzione delle posizioni delle due principali confederazioni si può comprendere come maturi una comune accettazione di una legge e, soprattutto, come si delinei un terreno di unità di azione del movimento sindacale . Oggi, appare ambiguo e riduttivo vedere una contrapposizione fra pan-contrattualismo (Cisl) e legalismo paternalistico (Cgil). È necessario, invece, osservare, attraverso la storia, l’evoluzione delle due diverse prospettive con riguardo alla natura concreta dei problemi che si sono posti al movimento sindacale e alle soluzioni che sono state costruite anche in dottrina per fronteggiarli nelle aziende.

2. Nel 1954, in un clima di duro scontro sindacale e politico, l’idea di proporre uno statuto dei lavoratori è avanzata in un convegno sulla libertà nei luoghi di lavoro, svoltosi presso la Società Umanitaria a Milano . Inoltre, un libro bianco delle Acli sulla condizione operaia in quegli anni analizza puntualmente la difficile realtà lavorativa all’interno delle fabbriche, dove è presente una certa violenza datoriale morale e fisica. Un’inchiesta parlamentare , nel 1958 , ha l’occasione di verificare quanto già denunciato dalla Cgil molti anni prima, attraverso un’indagine condotta per lunghi mesi nelle fabbriche. Nelle dichiarazioni programmatiche lette in Parlamento nella seduta del 12 dicembre 1963, il Presidente del Consiglio Aldo Moro dichiara che “il Governo esprime inoltre il proposito di definire, sentite le organizzazioni sindacali, uno statuto dei diritti dei lavoratori al fine di garantire dignità, libertà e sicurezza nei luoghi di lavoro” . In un intervento di poco successivo alla esposizione del programma di governo dell’onorevole Moro, il Vicepresidente del consiglio, onorevole Nenni, afferma che per statuto dei lavoratori deve intendersi “un insieme di provvedimenti volti ad assicurare l’esercizio integrale dei diritti sindacali e politici dei lavoratori in tutti i luoghi di lavoro. Non è sufficiente dire che tale garanzia è affidata esclusivamente alla forza del sindacato, giacché infinite sono le vie attraverso le quali può essere eluso il contenuto dei contratti. Questioni come il diritto di presenza del sindacato nel luogo di lavoro, questioni come l’intervento dei lavoratori nel collocamento e nel licenziamento devono trovare un sistema giuridico di garanzie, una volta che sia riconosciuto, come il centro-sinistra riconosce, che l’organizzazione sindacale, le sue libertà, la sua autonomia, sono delle componenti essenziali del processo produttivo e non un elemento estraneo ed abusivo alla vita sociale e democratica del Paese”.
In relazione all’impegno enunciato dal Governo, il Ministro del lavoro e della previdenza sociale Umberto Delle Fave, nel novembre del 1964, elabora un questionario con il quale si pongono alle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro una serie di domande specifiche su tre questioni centrali da ricomprendere o meno nello statuto: la disciplina dei licenziamenti individuali, la disciplina delle commissioni interne, la tutela dell’esercizio dei diritti sindacali nell’azienda.
L’impegno è parzialmente assolto, atteso che trova spazio solo la legge 15 luglio 1966, n. 604 , che, tuttavia, contiene norme sul licenziamento individuale ovvero uno dei temi principali ricompreso nel progetto dello statuto fin dalla sua formulazione originale: nel rapporto di lavoro a tempo indeterminato, il licenziamento del prestatore di lavoro non può avvenire che per giusta causa ai sensi dell’art. 2119 c.c. o per giustificato motivo . Come opportunamente evidenziato , durante la discussione del provvedimento, sia alla Camera dei deputati sia al Senato, i parlamentari appartenenti al sindacato della Cisl (ben sedici) ribadiscono la posizione della loro confederazione contraria al ricorso allo strumento legislativo per la disciplina di una materia come quella dei licenziamenti individuali, suscettibile di regolamentazione attraverso la contrattazione collettiva.
Nel corso della IV legislatura il Governo non presenta altri disegni di legge collegati alla materia dello statuto dei lavoratori, tuttavia un riferimento preciso allo statuto è inserito nel paragrafo 41 del Programma di sviluppo economico per il quinquennio 1966-1970 (c.d. Piano Pieraccini) le cui finalità e linee direttive sono approvate con la legge 27 luglio 1967, n. 685. Il testo del paragrafo (primi due periodi) è il seguente: “Nel campo del lavoro, la definizione di uno statuto dei diritti dei lavoratori – di cui la legge sulla giusta causa già approvata dal Parlamento è la prima realizzazione – introdurrà nell’ordinamento giuridico norme atte a garantire dignità, sicurezza e libertà nei luoghi di lavoro, in conformità alle norme della Costituzione. In particolare, tale statuto dovrà disciplinare giuridicamente i licenziamenti individuali e collettivi e le Commissioni interne, e garantire il libero esercizio dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro”.
Nella IV e V legislatura, invece, sono varie le proposte di iniziativa legislativa , soprattutto da parte dell’opposizione (Pci, Psiup), da cui emerge come prevalente il momento della garanzia della libertà del singolo nell’ambito lavorativo, sia per quanto attiene al momento dei rapporti collettivi di lavoro (riunione, propaganda, incarichi sindacali), sia per la libera espressione della dimensione individuale della libertà di ogni singolo lavoratore (libertà di pensiero; divieti di indagine sulle opinioni; ispezioni personali).
Il tema dello statuto dei lavoratori costituisce un impegno del Governo di centro-sinistra alla fine del 1968 e lo stesso Presidente del Consiglio Rumor, nella esposizione del programma governativo al Parlamento , così si esprime: “Prioritario il Governo considera l’impegno a definire in via legislativa, indipendentemente e nella garanzia della libera attività contrattuale delle organizzazioni sindacali, e con la loro consultazione, una compiuta tutela dei lavoratori nelle aziende produttive di beni e servizi che assicuri dignità, libertà e sicurezza nei luoghi di lavoro, con particolare riferimento ai problemi della libertà di espressione di pensiero, della salvaguardia dei lavoratori singoli e della loro rappresentanza nelle aziende e delle riunioni sindacali nell’impresa”. Questo obiettivo è poi confermato in Senato dal Ministro del lavoro e della previdenza sociale, senatore Giacomo Brodolini, nella seduta della Commissione lavoro del 23 gennaio 1969 e nella seduta dell’Assemblea del 29 gennaio 1969 .

3. Il famoso disegno di legge di Giacomo Brodolini (S. 738) – presentato dal Ministro del lavoro al Senato della repubblica il 24 giugno 1969 – consta di 25 articoli (rispetto ai 41 della stesura finale), suddivisi in cinque Titoli: I – Della libertà e dignità del lavoratore (artt. 1-6); II – Della libertà sindacale (artt. 7-10); III – Dell’attività sindacale (artt. 11-19); IV – Disposizioni varie e generali (artt. 20-23); V – Disposizioni finali e penali (artt. 24-25). A titolo di curiosità, l’art. 4, sui controlli a distanza, in sede di iniziativa governativa è l’art. 3 (impianti audiovisivi); il famigerato art. 18 corrisponde, in origine, all’art. 10 (reintegrazione nel posto di lavoro) del progetto iniziale; l’art. 19 definitivo è l’art. 11 (costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali); così come l’art. 28 nella versione finale è inizialmente l’art. 20 (repressione della condotta antisindacale); l’art. 35, che stabilisce la soglia di operatività del Titolo III per le imprese industriali e commerciali che occupano più di 15 dipendenti e per le imprese agricole che occupano più di 5 dipendenti, in prima battuta è l’art. 24 (campo di applicazione), il quale individua egualmente limiti differenziati in base alla tipologia di impresa (industriale, commerciale/agricola) e al numero di dipendenti (40-30 dipendenti/30-20 dipendenti). Non compare, invece, il fondamentale art. 13 (mansioni del lavoratore) di riforma dell’art. 2103 c.c., il quale è inserito dalla 10a Commissione permanente al Senato in sede referente con la numerazione art. 6-septies (mansioni del lavoratore).
La relazione di accompagnamento di Brodolini è estremamente interessante perché traccia le linee guida giuridiche del provvedimento . In essa si rinvengono anche le determinanti influenze del pensiero di Gino Giugni, specie la teoria della legislazione di sostegno ma anche la comparazione con altri ordinamenti: si pensi, al rinvio al rapporto presentato dopo tre anni di studio al governo inglese da parte della Royal Commission, noto come Rapporto Donovan (1968) , nonché al provvedimento di riconoscimento dell’organizzazione sindacale a livello di impresa emanato dal governo francese nel dicembre del 1968 . Ma l’impronta di Giugni la si può leggere anche nel drafting legislativo, che mira a non eccedere in formulazioni normative e punta ad un dettato prescrittivo semplice e chiaro, accompagnato da un adeguato apparato sanzionatorio. Sotto questo aspetto meritano rilievo particolare gli artt. 10 e 20 (originari) basati sul presupposto che la normativa sui rapporti sindacali, per essere efficace, postula anche un parziale rinnovamento della struttura sanzionatoria, elaborata in funzione di altre esigenze e in ragione dell’ispirazione individualistica propria dei codici. Ciò considerato, il ricorso alle sanzioni penali è stato limitato allo stretto lento necessario, tenendo conto che queste ultime non rispondono normalmente all’esigenza d’immediata reintegrazione dell’interesse leso, nonché della tendenza in atto a ridimensionare la normativa penale . Anche in questo caso è determinante l’influenza di diritto comparato che emerge laddove si prova a superare la strozzatura costituita da un’applicazione rigida ed ortodossa del principio dell’incoercibilità delle prestazioni di fare in forma specifica : principio che sia il diritto processuale tedesco sia quello francese hanno superato, quest’ultimo nei rapporti privatistici, con il ricorso all’astreinte, cioè ad una pena giudiziaria affine a quella proposta . Si evoca anche l’esperienza degli Stati Uniti , dove il licenziamento privo di giustificato motivo, può essere seguito, in caso di mancata riassunzione, da una condanna penale per «disprezzo della corte».
L’art. 11 (poi divenuto art. 19) sulla costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali, pur tra i dubbi di legittimità costituzionale sollevati, tenta una sintesi tra sindacato-movimento e sindacato-istituzione. Singolare il richiamo – poi eliminato nel testo definitivo – “alle rappresentanze sindacali aziendali, costituite, secondo le norme interne delle associazioni sindacali”, espressione che valorizza la fonte giuridica nelle norme interne di ciascuna sigla sindacale, consentendo ad esse di assumere le forme più disparate (sezioni sindacali, delegati di fabbrica, ecc.) da queste previste.
Un rilievo finale concerne il problema dei rapporti tra questo disegno di legge e l’art. 39 della Costituzione. Esso si pone in funzione di diretta attuazione dell’art. 39, comma 1, Cost., così come delle Convenzioni n. 87 e 98 dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil) . Per quanto attiene ai commi 2 e 3 dell’art. 39 Cost., è sufficiente rilevare che – secondo Brodolini che riecheggia le impostazioni di Giugni – essi hanno per oggetto, da un lato, l’attribuzione della personalità giuridica ai sindacati e, dall’altro, la stipulazione dei contratti con efficacia generale: aspetti, ambedue, che non sono affrontati dal disegno di legge, per cui il confronto con la norma costituzionale non si pone neppure . Il disegno di legge è considerato come un momento necessario della politica di sviluppo economico, sociale e politico del paese, anche se nel testo non sono considerati tutti gli aspetti del rapporto di lavoro. Esso non è, né intende essere, un codice del lavoro e per la trattazione di altre materie pur di primaria importanza nella vita del lavoro (prevenzione degli infortuni, tutela della salute, formazione professionale, ecc.) non può che rinviare ad ulteriori iniziative in cui i principi di base siano declinati in adeguate strutture organizzative ed amministrative (es. conciliazioni individuali e collettive , ecc.).
Le successive fasi del dibattito sullo statuto dei lavoratori trovano spazio nella discussione presso la Commissione lavoro del Senato, la quale, in data 6 marzo 1969, prima di cominciare l’esame dei cinque disegni di legge (nn. 8, 56, 240, 700 e 738), delibera di chiedere al Presidente del Senato l’autorizzazione ad effettuare una indagine conoscitiva sulla situazione dei lavoratori nelle aziende. Ottenuta l’autorizzazione nella seduta del 26 marzo 1969, sono formulati alcuni quesiti da rivolgere ai rappresentanti sindacali e ai rappresentanti delle aziende scelte per l’indagine .

3a. Il disegno di legge assegnato, il 2 luglio 1969, all’esame in sede referente della 10a Commissione permanente (lavoro, emigrazione, previdenza sociale) giunge molto rielaborato all’approvazione del Senato . Il dibattito in Commissione è lungo e laborioso, con la partecipazione attiva del nuovo Ministro del lavoro Donat-Cattin e del sottosegretario Rampa. Più volte, per superare contrasti e giungere a soluzioni concordate, ci si è avvale di un comitato ristretto che ha intensamente lavorato e si giunge così al testo che comprende 40 articoli, rispetto ai 25 del progetto Brodolini. L’originario art. 23, relativo alla rappresentanza del datore di lavoro a livello aziendale, è abrogato. Gli articoli aggiunti sono ben 16, alcuni dei quali fondamentali: l’art. 2-bis, sul personale di vigilanza; l’art. 6-bis, relativo al divieto di indagini sulle opinioni; l’art. 6-ter, che riguarda la tutela della salute e dell’integrità fisica; l’art. 6-quater che attiene alla tutela dei lavoratori studenti; l’art. 6-quinquies sulle attività culturali, ricreative e assistenziali; l’art. 6-sexies sugli istituti di patronato; l’art. 6-septies sulle mansioni del lavoratore; l’art. 11-bis, sulle commissioni interne; l’art. 20-bis sulla fusione delle rappresentanze sindacali aziendali; l’art. 22-bis sui permessi ai lavoratori chiamati a funzioni pubbliche elettive; l’art. 24-bis, sugli obblighi dei titolari di benefici accordati dallo Stato e degli appaltatori di opere pubbliche; l’art. 24-ter, sull’applicazione ai dipendenti da enti pubblici delle disposizioni statutarie; l’art. 25-bis, sul versamento delle ammende al Fondo adeguamento pensioni; l’art. 25-ter sull’abrogazione delle disposizioni contrastanti; l’art. 25-quater sulle esenzioni fiscali; l’art. 25-quinquies che riguarda le norme sul collocamento.
Rimane invariata la ripartizione della materia in cinque titoli. La relazione della Commissione è comunicata al Presidente del Senato il 27 novembre 1969 (relatore sen. Alessandro Bermani, Psi) e la proposta è messa in discussione il 2 dicembre 1969, con emendamenti significativi e assorbendo i d.d.l. n. 8, 56, 240 e 700 del Senato. Si pensi, a titolo esemplificativo, al tanto dibattuto art. 1 concernente la libertà di pensiero del lavoratore, dove, rispetto al testo originario di Brodolini, sono soppresse le parole: “nel rispetto dell’altrui libertà e in forme che non rechino intralcio alla svolgimento dell’attività aziendale”, ritenute pleonastiche: ogni diritto ha già giuridicamente il suo limite nel rispetto della libertà e del diritto altrui, secondo il noto brocardo abusus non est usus, sed corruptela. Oppure alla modifica dell’art. 2 sulle guardie giurate dove è eliminato il riferimento alla contestazione di fatti che costituiscano motivo per la applicazione di sanzioni disciplinari se queste ultime ineriscano a fatti lesivi del patrimonio aziendale. Non si può dimenticare l’inserimento nell’art. 6 sulle sanzioni disciplinari dell’inciso sulla previa contestazione dell’addebito e sul diritto di difesa. Il nuovo testo approvato dalla Commissione è modificato in senso migliorativo rispetto al progetto originario e precisamente nei punti in cui è stabilito che nel caso di costituzione del collegio di conciliazione e arbitrato le sanzioni siano sospese fino alla pronuncia arbitrale. L’integrazione dell’art. 7 sugli atti discriminatori si estende anche all’assegnazione di qualifiche o mansioni, ai trasferimenti e ai provvedimenti disciplinari. Di un certo peso la modifica dell’art. 10 (reintegrazione nel posto di lavoro), la quale introduce una innovazione di rilievo rispetto al disegno di legge Brodolini atteso che estende la tutela reintegratoria non solo ai casi di discriminazione per ragioni di credo politico, religioso, sindacale (art. 4, l. n. 604/1966) ma anche ai casi di licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo (art. 1, l. n. 604/1966) . L’art. 12 prevede lo svolgimento delle assemblee nell’azienda e contiene un’altra significativa innovazione rispetto al testo governativo. Quest’ultimo, infatti, prevede la facoltà di indire le assemblee soltanto fuori dall’orario di lavoro mentre il testo approvato dalla Commissione prevede invece che le assemblee possano essere indette anche durante “l’orario di lavoro”. Ampliata dal testo della Commissione, rispetto al testo governativo, è stata poi la disposizione dell’art. 15 riguardante i permessi retribuiti da accordarsi ai dirigenti delle rappresentanze aziendali sindacali di cui all’art. 11 per consentire loro di espletare adeguatamente il mandato.
Il dibattito nell’aula di Palazzo Madama – avvenuto tra il 2 e l’11 dicembre 1969 – è molto intenso e si sofferma su temi cruciali come la reintegrazione nel caso di licenziamento illegittimo, la costituzione delle rappresentanze sindacali e il diritto di assemblea.
L’accesa discussione generale è chiusa dal senatore Terracini (Pci), il quale, nel presentare il disegno di legge come sintesi di apporti molteplici, evidenzia lo sforzo comune fatto, nella 10a Commissione, da ogni parte politica. Pur annunciando emendamenti atti a tutelare con più forza i lavoratori, specialmente quelli che hanno minore possibilità di affidare le proprie rivendicazioni alle forze dell’organizzazione sindacale, è davvero significativo che il dibattito sullo Statuto dei lavoratori finisca proprio con l’intervento di colui che ha presieduto l’Assemblea costituente.
La replica finale del relatore sen. Bermani (Psi) ribadisce la indifferibilità di un provvedimento che serve ad introdurre nella realtà quotidiana principi contenuti nella Costituzione della Repubblica: solo mantenendo il provvedimento che stabilisce la reintegrazione del lavoratore (fermo naturalmente il caso che il lavoratore se ne voglia andare sua sponte), si attua un’effettiva tutela del posto di lavoro .
Il Ministro Donat-Cattin, partecipando al dibattito finale, esprime un ringraziamento al Prof. Giugni, capo dell’Ufficio legislativo del Ministero del lavoro, e insiste sull’importanza della dialettica sociale. Il conflitto sociale – sulla scorta del pensiero di Giugni – è parallelo allo sviluppo dell’industrializzazione, nel senso che il dinamismo di questa genera, con il cambiamento, lotte e insoddisfazioni sempre innovative. Per Donat-Cattin lo Statuto, mentre consacra fondamentali diritti soggettivi dei lavoratori in fabbrica, per la prima volta favorisce la espansione di organismi di rappresentanza collettiva, quali il sindacato, come mezzo per realizzare la tutela dei diritti e degli interessi individuali .
La 10a Commissione, nell’apportare modifiche e aggiunte al disegno di legge n. 738 (e cioè quello presentato dal ministro Brodolini, preso a base per la discussione degli articoli tra i cinque disegni di legge sottoposti all’esame della Commissione stessa) ha tenuto presente – unitamente all’apporto di proposte e di idee derivante dagli altri disegni di legge presentati dall’opposizione – le risultanze delle udienze conoscitive. Mentre la finalità principale, comune a tutti i disegni di legge presentati, è quella di garantire la libera esplicazione della personalità del lavoratore che nel processo produttivo si trova costretta da strutture gerarchiche e autoritarie, il vero obiettivo primario del disegno di legge n. 738, come si evince dalla relazione illustrativa, si traduce in un’azione di sostegno e di promozione dell’attività rappresentativa del sindacato nell’azienda .
Il testo approvato dal Senato l’11 dicembre 1969, è trasmesso dal Presidente di Palazzo Madama alla Camera dei deputati il 17 dicembre 1969 e diviene il disegno di legge C. 2133, formato da 41 articoli e suddiviso in sei Titoli .
Forse, uno degli aspetti meno evidenziati del disegno di legge di Brodolini è il fatto che si presenti come progetto aperto all’accoglimento di nuovi contenuti anche da parte delle opposizioni, specialmente in una fase di agitazioni e pressioni sociali, dirette in gran parte a raggiungere obiettivi convergenti con quelli della legge: non può essere valutato come una meta ma solo come un punto di partenza verso nuovi approdi. Le modificazioni al progetto originario apportate dalla 10a Commissione del Senato appaiono come il dovuto riscontro a un rapido mutamento del clima sociale, frutto della spinta proveniente dal Paese reale cui corrispondono nuove relazioni tra datori di lavoro e lavoratori.

3b. Il disegno di legge è deferito il 13 gennaio 1970 alla XIII Commissione permanente (lavoro, assistenza e previdenza sociale, cooperazione) della Camera dei deputati. La relazione della Commissione è presentata il 6 maggio 1970 (relatore on. Vincenzo Mancini, Dc) e posta in discussione e approvazione in aula a Montecitorio il 13 e 14 maggio 1970.
Senza la pretesa di poter dar conto dell’intera discussione e degli emendamenti presentati, è sufficiente considerare i passaggi salienti contenuti nelle dichiarazioni di voto espresse nella seduta pomeridiana del 14 maggio 1970 dai vari gruppi parlamentari. Il Psi (Ballardini), dichiarando il voto favorevole, ricorda come il valore positivo del disegno di legge risieda non nella capacità di anticipare una mutazione dei rapporti di forza reali, bensì nel recepire e assecondare la trasformazione sociale in atto: “con questa legge della Repubblica, che esalta nell’operaio l’uomo, rendiamo appunto legittima nell’azienda una legge morale che contrasterà l’impero esclusivo dell’alienante legge economica” . Il Psiup (Alini), dichiarando l’astensione, mette in luce gli aspetti innovativi che lo statuto dei lavoratori introduce nel campo del rapporto di lavoro all’interno delle aziende ma sottolinea, allo stesso tempo, anche i forti limiti che esso contiene rispetto alle reali attese dei lavoratori, cioè rispetto ad un più compiuto riconoscimento dei diritti democratici e costituzionali, come essi sono andati affermandosi sotto la pressione e la spinta delle lotte: “è una breccia, pertanto, quella che abbiamo aperto; una breccia destinata inevitabilmente ad allargarsi sotto la spinta impetuosa delle lotte operaie, contadine e studentesche, che anche in questo momento stanno scuotendo tutta la società e che nessuna nuova ondata o ritorno di fiamma di autoritarismo e di repressione padronale o governativa potrà rigettare indietro” . Il Movimento sociale italiano (Pazzaglia) indica succintamente le ragioni dell’astensione (mancata attuazione dell’art. 39 Cost.), pur con una valutazione parzialmente positiva del disegno di legge.
Il Pci (Giuliano Pajetta, fratello del noto Giancarlo), confermando l’astensione, articola una critica su tre punti quali il problema dell’applicazione alle piccole aziende, il problema dei licenziamenti collettivi (mancanza di sanzioni) e il riconoscimento del libero esercizio dei diritti politici anche nei luoghi di lavoro: “l’unità operaia, l’unità sindacale e i nuovi diritti che si sono affermati di fatto nelle fabbriche – e in molte grandi fabbriche già sono andati oltre quanto è stabilito dallo statuto – [sono] stati conseguiti perché vi sono stati degli operai che si sono occupati di politica. […] importante il fatto che si sia arrivati a varare questa legge, anche se non la consideriamo ancora una svolta – come ha detto il ministro – ma soltanto un passo avanti”. Lo statuto dei lavoratori – già prefigurato da Di Vittorio – secondo Pajetta, “i lavoratori se lo sono guadagnato con la loro unità e con le loro lotte” . Il Pri (Terrana) conferma il voto favorevole ed evidenzia il carattere innovatore del provvedimento, il quale, in sostanza, definisce alcune certezze per i diritti sindacali e rappresenta una garanzia di democrazia per i lavoratori, una garanzia di difesa dei loro diritti nell’azienda: si ritiene che “lo Stato oggi non possa essere più spettatore di una lotta economica che si svolge tra forze sociali solo ipoteticamente uguali e sullo stesso piano, ma debba darsi carico di una sintesi politica di varie istanze, rispettandone tuttavia l’autonomia, ma orientandole verso obiettivi comuni nell’interesse di tutta la collettività. Questo del resto è anche il presupposto della programmazione economica, che è l’acquisizione, la presa di coscienza più recente e più rilevante delle forze democratiche del nostro paese” . Il Pli (Pucci di Barsento) è favorevole all’approvazione di una legge ad hoc che costituisca la piattaforma da cui deve partire la contrattazione collettiva, la sola capace di dare ai rapporti di lavoro una disciplina giuridica dinamica rispondente alle conquiste sociali e al progresso economico. Pur confermando l’urgenza e la necessità di dare completa applicazione alle norme costituzionali in materia di rapporti di lavoro (artt. 39, 40 e 46 Cost.), il disegno di legge ha il “pregio innegabile di rappresentare il primo atto di un modo nuovo di considerare il lavoratore nell’ambito della unità produttiva in cui esso presta la sua opera, in aderenza ai princìpi costituzionali in materia di lavoro. Essa tende, almeno in via teorica, a dare al lavoratore all’interno dell’azienda una dimensione più umana e più ampia, preparando il terreno […] al più rilevante fenomeno della partecipazione dei lavoratori alla vita e agli interessi dell’azienda, che rappresenta il momento più significativo della valorizzazione dell’uomo e del rispetto della sua dignità anche nel campo del lavoro subordinato” .
Infine, la Dc (Lobianco), annunciando il voto favorevole, segnala come lo statuto dei lavoratori rappresenti un atto qualificante della V legislatura e del Governo, che si inquadra nel contesto delle nuove leggi sulle pensioni, sul collocamento agricolo, sul referendum, sulle regioni. La legge si pone nell’ottica della funzione di promozione e di potenziamento dell’autonomia sindacale ma anche alla stregua di un atto di giustizia che ristabilisce il giusto equilibrio tra datori di lavoro e lavoratori. Riemerge la visione tipica del personalismo comunitario ma anche una impronta più sensibile alla dottrina sociale della democrazia cristiana (Dossetti) come testimonia il messaggio finale di ringraziamento dell’on. Lobianco: “un atto di omaggio verso i lavoratori che hanno riscattato con la Resistenza il nostro paese, a quanti si sono immolati sull’altare del sacrificio nelle lotte del lavoro, ai quali va, nel momento in cui ci apprestiamo a votare a favore di questo disegno di legge, il nostro pensiero grato e riverente” .
Analoghe considerazioni svolge il Ministro Donat-Cattin all’esito dell’iter parlamentare in sede di discussione finale alla Camera dei deputati, dove si ricorda che su questa legge, da parecchi anni, si siano consumati speranze (per i lavoratori) e timori (per i datori di lavoro). Il disegno di legge si inquadra in una legislazione di sostegno del sindacato, ma include anche altre norme che, oltre che al sindacato come tale, tendono a garantire diritti e libertà ai singoli lavoratori .
Il provvedimento – nella forma del testo del Senato e dopo che, su richiesta del ministro Donat-Cattin, tutti gli emendamenti (tranne quelli del Pli) sono stati ritirati – è approvato dalla Camera con 217 voti a favore (la maggioranza di centro sinistra – Dc, Psi e Psdi unificati nel Psu, Pri – con l’aggiunta del Pli, al tempo all’opposizione); per l’astensione Pci, Psiup e Msi e si registrano dieci voti contrari .

4. Sebbene sia da evitare l’inutile retorica commemorativa, è innegabile che anche lo Statuto dei lavoratori si porti dietro da cinquant’anni un impalpabile e magico orgoglio, tipico del periodo in cui è nato. Si potrebbe obiettare che è fin troppo facile rifugiarsi nel passato senza prospettive sul presente, come se l’orgoglio per quello che si è stati non possa essere un vantaggioso stimolo per sapere come vorremmo essere domani. Tuttavia, è da valutare altrettanto con prudenza la lettura del triennio 1968-1970 della storia repubblicana come violenti e costellati da innovazioni solo superficiali, tali da risucchiare tutti gli altri accadimenti nella damnatio memoriae, figlie di un Paese “mancato” .
Le pagine ingiallite dei giornali dell’epoca e le immagini in bianco e nero dei preziosi filmati e documentari si concentrano sul “secondo biennio rosso” (1968-1969) e restituiscono uno scenario decisivo per ragionare con distacco e lucidità sul processo che ha condotto all’emanazione di quello che comunemente è chiamato Statuto dei lavoratori.
Eppure, il 1970 è stato un anno incredibile e meritevole di memoria, specie per il diritto sindacale e del lavoro improntato al “collettivo” , una sorta di “rasoio che separa il passato dal futuro”. Certo non come il 1968, «anno degli studenti», e nemmeno come il 1969, «anno degli operai» e dell’«autunno caldo», denso di lotte dei lavoratori per i rinnovi contrattuali , con forti contrasti nei posti di lavoro e numerosi scioperi a livello nazionale e nelle fabbriche . La stagione è segnata dal carattere spontaneo delle proteste operaie , prende le mosse da rivendicazioni redistributive radicali e da una critica serrata alle tradizionali forme di rappresentanza sindacale, sotto forma di modelli assembleari e attraverso l’esperienza dei delegati di linea e di reparto.
Il 1969 si presenta, subito, come un anno delicato. Il 4 gennaio, Giacomo Brodolini, ex vicesegretario della Cgil ed autorevole esponente socialista, appena divenuto neoministro del lavoro e della previdenza sociale del primo governo di Mariano Rumor, si reca ad Avola in seguito al famoso eccidio e annuncia un disegno di legge per varare lo Statuto del sindacato nell’impresa che garantisca i diritti della persona nei posti di lavoro e una riforma del sistema di giustizia del lavoro . A tale scopo ha chiamato il giovane professore di diritto del lavoro presso l’Università di Bari, Gino Giugni , prima, a capo dell’Ufficio legislativo , e poi, a gennaio 1969, a presiedere una commissione con l’incarico di elaborare in tempi brevi la proposta da sottoporre alle organizzazioni sindacali . Lo stile personale di Brodolini balza presto all’onore delle cronache proprio per la spiccata sensibilità verso le rivendicazioni dei lavoratori. In particolare, rimane positivamente impressa nella mente degli italiani la notte di San Silvestro del 1968, trascorsa insieme agli operai della fabbrica romana Apollon nella tenda allestita nell’elegante via Veneto a Roma. Il titolare del ministero di via Flavia – come il suo successore Donat-Cattin – conquista la fiducia dei sindacati, dichiarando senza mezzi termini di sentirsi ministro «dei lavoratori» prima che «del lavoro».
Dopo gli accordi sull’abolizione delle c.d. “gabbie salariali” – che hanno acuito il divario tra Nord e Sud del Paese – e la riforma del sistema pensionistico nell’aprile (l. n. 153/1969), misure profondamente volute da Brodolini, scocca l’ora dei metalmeccanici. In particolare, la scadenza del rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici diventa il fulcro di una battaglia per la redistribuzione del reddito e per la conquista di una serie di tutele e diritti fortemente innovativi, oltre all’auspicata nascita di un nuovo modello di sindacalismo unitario . Le richieste sono davvero forti: un aumento salariale di 75 lire l’ora; la parità normativa tra operai ed impiegati; la riduzione dell’orario di lavoro a 40 ore settimanali con eguale retribuzione. A tali aspetti si aggiunge un ricco pacchetto di diritti sindacali (assemblea in orario di lavoro, permessi, trattenuta dei contributi sindacali in busta paga), i quali troveranno, nel maggio del 1970, sbocco legislativo nello Statuto dei lavoratori. Al dicastero del lavoro, dopo la prematura scomparsa del socialista Brodolini, nel luglio del 1969, è arrivato Carlo Donat-Cattin , ex sindacalista della Cisl, leader estroso e ruvido della corrente di Forze nuove della Democrazia cristiana, dove confluiscono i militanti del sindacato.
L’11 settembre, in tutta Italia, si svolge il primo sciopero degli operai metalmeccanici, che segna l’inizio di una serrata stagione di lotte operaie, ricordata come l’autunno caldo. Nei giorni successivi scioperano i metalmeccanici del settore pubblico, i chimici, i cementieri e gli edili, a cui si uniscono gli studenti.
L’anno tristemente termina il 12 dicembre con il primo e più dirompente atto terroristico dal dopoguerra, la strage di piazza Fontana, nel centro di Milano presso la Banca Nazionale dell’Agricoltura. Dopo questo gravissimo episodio, peraltro, la repressione non si fa attendere. Le responsabilità sono attribuite, ingiustamente, agli anarchici ma le misure prese per l’ordine pubblico tracimano e colpiscono, erroneamente, vari gruppi e movimenti, compresi quelli sindacali che si sono battuti per lo Statuto dei lavoratori, approvato , in prima battuta, dal Senato l’11 dicembre 1969 ovvero il giorno prima della strage di Piazza Fontana.
Corre così l’anno 1970: iniziano grandi mutamenti nella società e nella politica. L’inizio è segnato da irrisolti problemi economici e dallo sgomento per la strage che ha scosso il Paese. I primi mesi sono dominati da avvenimenti importanti: nel mese di febbraio si dimette il governo Rumor, che però poco dopo è riconfermato; a marzo si registra un cambio al vertice della Cgil e diventa segretario Luciano Lama all’unanimità. Per Agostino Novella da 13 anni segretario del più importante sindacato italiano, è una grossa débâcle. Ad aprile anche all’interno di Confindustria il potente Angelo Costa è sostituito da Renato Lombardi, eletto al suo posto e subito pronto a cambiare lo statuto dell’associazione, visto il cambiamento dei rapporti con le organizzazioni sindacali.
Cgil, Cisl e Uil onorano la Festa dei Lavoratori con manifestazioni unitarie: è la prima volta che accade dal 1948. Sempre nel mese di maggio, il Parlamento approva le norme che istituiscono il referendum (l. n. 352 del 1970), proprio in corrispondenza con le ampie polemiche che circondano l’introduzione, a dicembre, del divorzio nel nostro ordinamento giuridico (l. n. 898 del 1970). Infine, il 14 maggio, dopo un travagliato iter, lo Statuto dei lavoratori è approvato definitivamente dalla Camera dei deputati con la rubrica Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e nell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento .
Soffermarsi sul periodo compreso tra l’autunno caldo e l’approvazione della legge n. 300 del 1970, non corrisponde ad una sorta di nostalgia per i cicli importanti della storia del sindacato in Italia, bensì è il modo per afferrare il momento in cui sono emersi, con limpidezza, i tratti più originali rispetto all’idea originaria di statuto dei diritti dei lavoratori. La molla proveniente dalle vicende rivendicative ha spinto, nei primi mesi del 1970, cioè nella fase di massimo splendore sindacale, verso l’unità sindacale, obiettivo che è sembrato prossimo e raggiungibile, ma ha anche determinato un senso di emancipazione dal condizionamento partitico per puntare a dimensioni autonome, “oscillante tra tentazioni pansindacaliste, ideologie pluralistiche, programmi a lungo termine, che propongono il tema dei nuovi schieramenti, anche politici, della classe operaia” .
Il motivo della risonanza di un simile dibattito va oltre il momento contingente del “tuono a sinistra” – per usare l’elegante espressione di Mancini – per consegnare all’interprete l’obiettivo di ricostruire in modo puntuale i diversi angoli visuali assunti in materia dai sindacati, dalla dottrina giussindacale o dai movimenti politici rispetto al cambiamento strutturale avvenuto con la legge n. 300 del 1970.
Ad onore del vero, però, il 1970 non è soltanto contrassegnato da conflitti sociali e politici, ma da un percorso di modernizzazione e democratizzazione che – pur fra molti ostacoli – sembra illuminare la scena del Paese “sperato”.
Non a caso, a margine di questo quadro, un piccolo e marginale fatto di costume sembra riflettere importanti mutamenti civili e culturali. Il calcio si consolida sempre di più come lo sport preferito dagli italiani, basti ricordare la mitica semifinale Italia-Germania 4-3 dei Campionati mondiali di calcio in Messico. Ma è soprattutto l’anno dello storico scudetto della prima squadra meridionale, il Cagliari di Manlio Scopigno, detto “il Filosofo”. Il condottiero della squadra – nata cento anni fa per volontà di un chirurgo – che ruggisce al grido di “pastori”, lanciato con offesa dal pubblico avversario, è l’indimenticabile “Rombo di tuono”, Gigi Riva.
Allora, forse, molto più prosaicamente rispetto all’aulica espressione di Mancini (“tuono a sinistra”), si potrebbe affermare che la legge n. 300 del 1970, parafrasando l’espressione di Gianni Brera, è stato il vero “rombo di tuono” del 1970 e ancora se ne ode l’eco a distanza di molti anni. Da allora ne sono passati di temporali per il diritto del lavoro e sindacale ma il rumore di fondo dello Statuto rimane sempre forte e chiaro. E come direbbero i tifosi della squadra rosso-blu del Cagliari: A Chent’annos Statuto!

 

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