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Le celebrazioni del cinquantenario dello Statuto dei lavoratori, di una legge vanto del più alto riformismo italico, sono esposte al rischio di enfasi più o meno retoriche o, al contrario, alla tentazione di affettuosa rievocazione di una normativa, ritenuta ormai superata in ragione delle odierne connotazioni del sistema produttivo o, ancora, ad una insistita verifica della permanente attualità di alcune sue parti e dei suoi principii ispiratori.
Ai commentatori delle singole norme della l. n. 300 del 1970 spetterà il compito di optare per l’una o l’altra prospettiva, mentre questa introduzione tenterà di rappresentare soprattutto l’humus in cui quella legge vide la luce e il ruolo storico svolto in questi 50 anni, prescindendo da una disamina dell’odierna sopravvivenza delle singole norme, alcune delle quali, pur presentando tratti di permanente attualità, non sembrano offrire chiavi per indirizzare il futuro del diritto del lavoro. Un futuro caratterizzato da nuovi modelli organizzativi delle imprese e affollato da lavoratori lontani dal prototipo monolitico della l. 300 e, piuttosto, frammentati, decentrati, semiindipendenti.
Come è noto lo Statuto dei Lavoratori ha accompagnato e alimentato l’attività professionale ed accademica di molte generazioni di giuslavoristi. Come ha detto Umberto Romagnoli “per un giurista del lavoro ripercorrere i 50 anni trascorsi con lo Statuto dei lavoratori è come guardare un film documentario sulla sua vita professionale”, ma è la mia generazione, che all’epoca del varo dello Statuto si affacciava agli studi accademici, ad avere accumulato un forte debito di riconoscenza. Lo Statuto e il genius temporis di cui fu espressione costituirono, infatti, la scintilla e il vettore originario di un interesse, meglio di una passione per il Diritto del lavoro, che ci avrebbe accompagnato in tutto il nostro percorso professionale.
Ed è appunto da quello straordinario spirito del tempo dei primi anni 70 che vorrei partire in questa revocazione.
Furono anni, quelli, pregni di fermenti ideali, di appassionate dialettiche di pensiero, di rinnovate opzioni metodologiche e di inedite politiche del diritto che non potevano non affascinare noi giovani studiosi. Anni in cui il cambiamento scorreva in un alveo tutto “collettivo” materiato da lotte, rivendicazioni e normative declinati al plurale a ridosso delle classi, dei gruppi, dei movimenti. Le lotte operaie per gli aumenti salariali, per l’egualitarismo, per la salute e la sicurezza, per il riequilibrio dei poteri in fabbrica, ma anche i movimenti per i diritti civili (il femminismo, le battaglie per il divorzio e l’aborto, le lotte studentesche) erano in quel periodo espressione di aspirazioni e vicende di massa, più che di istanze individuali. Questo genius temporis, evidentemente improntato al “collettivo”, non poteva non esaltare la strutturale vocazione della nostra materia, che – come è noto – nasce e si nutre del conflitto collettivo e del tendenziale antagonismo tra classi sociali.
Lo Statuto nacque, dunque, in quel terreno sociale e culturale di grande fascino ideale e fu motore di grande suggestione già soltanto per questo.
Tuttavia, proprio per la sua pregnanza politica e valoriale, sin dalla sua emanazione la l. n. 300 del 1970 si trovò al centro di opposte valutazioni.
I più ne esaltavano il potenziale garantistico, l’efficacia emancipatoria della classe lavoratrice e il valore di civiltà rappresentato dall’ingresso della Costituzione nei luoghi di lavoro. Dal versante opposto, però, si sottolineava l’appesantimento che ne scaturiva a carico di un sistema imprenditoriale non pronto ad assorbire i costi del garantismo e dei vincoli posti ai poteri imprenditoriali; un sistema che fu presto chiamato ad affrontare crisi economiche (alla metà degli anni ’70) e poi, molto dopo, sarà investito dalla competizione globale poco disponibile a tollerare modelli di tutela differenziati tra i vari Paesi.
Qualcuno ricorderà che vi fu anche chi – dalla estrema sinistra – parlò, in modo ingeneroso e sprezzante, di una legge fatta per i padroni e per i sindacati ufficiali, in quanto diretta a disinnescare le spinte anti sistema e i fermenti anticapitalistici dell’epoca, a silenziare le contraddizioni sociali e a mantenere la conflittualità in limiti compatibili con la stabilizzazione del sistema capitalistico.
Ora, per quanto quelle valutazioni fossero subito bollate come “una sciocchezza estremistica” (Romagnoli) e come “emblema del folclore ideologico allora dominante” Mancini), non c’è dubbio che quelle impostazioni ideologiche funzionarono da germe di quelle idee e forze eversive che qualche decennio dopo porranno nel mirino i giuslavoristi e demonizzeranno il Diritto del lavoro come luogo di una avversata mediazione sociale.
Di fronte a così radicali e contraddittorie valutazioni della legge 300 si disse allora che lo Storia avrebbe giudicato quella legge: ebbene a distanza di 50 anni forse oggi la storia siamo noi: proprio quei giovani studiosi che assistettero, suggestionati, al varo di quella legge e che oggi sono chiamati ad un consuntivo, al di là della facile retorica dell’anniversario.
E allora non è difficile riconoscere subito allo Statuto una serie di meriti e di successi politici e giuridici di non poco conto e di longeva tenuta:
a) Ad onta dell’acceso dibattito tra i c.d. costituzionalisti, che vedevano il fulcro della nuova normativa nella perentoria affermazione di diritti costituzionalmente sanciti anche all’interno dei luoghi di lavoro, e i promotori del sostegno alle organizzazioni sindacali, al fine di garantire un’efficace presenza nelle fabbriche, lo Statuto, sin dai primi anni della sua implementazione, dimostrò la piena complementarietà delle due opzioni di politica del diritto del lavoro: nelle fabbriche ci potevano stare sia i diritti che i sindacati. Ed anzi solo dall’intreccio tra la dimensione collettiva e individuale il garantismo attingeva una reale effettività.
b) Quanto in particolare alla parte “promozionale”, non c’è dubbio che uno degli esiti più felici fu proprio la istituzionalizzazione o sindacalizzazione della contestazione e dello spontaneismo operaio del 68 – 69, la capacità di inglobare quest’ultimo nell’alveo delle grandi confederazioni sindacali, senza che, peraltro, l’azione di difesa collettiva perdesse mordente ed efficacia.
c) Sul versante della tutela dei diritti della persona del lavoratore la sfida alla razionalità capitalistica, che al più tollerava limiti interni e funzionali ai poteri datoriali, si realizzò attraverso la previsione di una serie di corposi limiti “esterni” alle facoltà del datore, facoltà che peraltro furono implicitamente legittimate in quanto ribadite e sottratte alle proposte che, specie in tema di jus variandi e di potere disciplinare, tendevano a sottoporre l’esercizio di quei poteri ad una consensualità o di organismi bilaterali.
Insomma lo Statuto sancì con perentorietà che l’organizzazione tecnico-produttiva della impresa, pur governata da poteri unilaterali, doveva modellarsi sull’uomo e non viceversa (Mengoni).
d) Come non sottolineare, poi, la chiarezza e semplicità di quei 41 articoli, che tanto più risalta al cospetto dei prodotti legislativi di questi ultimi anni e di questi ultimi giorni: il nitore stilistico e sistematico, peraltro, non era solo un fatto estetico, ma rendeva esplicite e coerenti le scelte valoriali sottostanti.
e) Infine, una ulteriore valutazione positiva concerne la novità e l’efficacia dei modelli normativi inaugurati dalla legge 300 del 1970, che autorizzano ad affermare che essa ha influito significativamente sulle tecniche della regolazione non soltanto nel settore giuslavoristico.
Basti pensare soltanto: - alla tecnica di condizionare la fruizione di determinati benefici in favore dell’imprenditore al perseguimento di obiettivi sociali (v. l’art. 36), con il connesso effetto di estensione indiretta della efficacia del contratto collettivo di diritto comune; modello di condizionalità successivamente ripreso più volte dal legislatore;
- alla particolare struttura processuale inaugurata con l’art. 28 in tema di repressione della condotta antisindacale, che successivamente ha costituito il prototipo per le repressioni delle discriminazioni di genere, a partire dalla prima legge di parità uomo-donna fino alle attuali formulazioni del Codice delle pari opportunità e , anche fuori della normativa lavoristica, per le azioni dei cittadini comunitari per violazione del divieto di discriminazione per nazionalità. Senza peraltro dimenticare il ricorso alla norma penale dell’art. 650 c.p. quale strumento di coazione indiretta al rispetto dell’ordine giudiziale di cessazione della condotta e di rimozione degli effetti;
- alla esplicita e generalizzata affermazione di inderogabilità in peius delle norme statutarie rispetto alle previsioni della contrattazione collettiva (art. 40), che ha sugellato anche simbolicamente lo Statuto come espressione più alta della tecnica della inderogabilità nei confronti della autonomia privata collettiva ed individuale, laddove la successiva legislazione si è sovente ispirata ad una derogabilità controllata proprio dalla autonomia collettiva;
- al sostegno selettivo di una delle parti del conflitto industriale senza predeterminazione rigorosa del soggetto sindacale ausiliato se non tramite l’innovativa formula del sindacato maggiormente rappresentativo, che in qualche modo rinviava alle dinamiche interne dell’ordinamento intersindacale.
Come è noto la formula statutaria di una rappresentatività individuata su base presuntiva, sulla base di indici forgiati dalla giurisprudenza, è stata oggetto di rilevanti modifiche: dapprima ad opera del referendum popolare del 1995 che, affermò, senza alcuna consapevolezza da parte dei votanti, una nozione più oggettiva di rappresentatività “verificata”, attestata dalla sottoscrizione di un contratto collettivo applicato nella azienda interessata. Poi fu la Corte Costituzionale, con la sentenza 231 del 2013 ad estendere l’attributo della maggiore rappresentatività anche ai sindacati che avessero soltanto partecipato alle trattative per il rinnovo di un contratto collettivo applicato nella azienda in questione.
Infine il c.d. TU del 2014 (e i successivi Accordi interconfederali) che ha optato per una rappresentatività quantificata, determinata attraverso una conta puntuale delle percentuali degli iscritti e dei votanti alle elezioni della rappresentanza sindacale unitaria.
Quest’ultimo modello, pur fatto proprio da numerosi disegni di legge e da taluni progetti di dottrina, in realtà sconta un vizio di origine: la impossibilità, in un regime di piena libertà sindacale (art. 39 , I° c. Cost.) di delineare ed imporre, in via eteronoma o anche in via autonomia collettiva, un perimetro per la misurazione, cioè a dire un ambito ben preciso entro il quale calcolare il numero degli iscritti e quello dei votanti.
Di qui la tentazione di tornare al più duttile modello della rappresentatività presunta, capace di ben adattarsi al dinamismo e alla informalità delle relazioni sindacali.
Tuttavia, lo Statuto, come ogni costrutto storico - giurisprudenziale con forte identità, in alcune fasi – quelle in cui l’economia tirava – ha dato il meglio di sé, riuscendo a coniugare molto bene socialità, traguardi di civiltà del lavoro ed efficacia imprenditoriale, in altri periodi caratterizzati da crisi economica e successivamente dalla globalizzazione, ha mostrato limiti di elasticità e di adattamento, anche perché – secondo qualcuno – ha inconsapevolmente promosso un duplice contro potere: quello sindacale e quello giudiziale che, aggiungendosi al garantismo individuale, hanno messo talora le imprese in affanno.
La competizione globale, in particolare, ha molto spiazzato i prodotti normativi caratterizzati da un garantismo avanguardistico e da quella assolutizzazione dei valori che aveva promosso la cultura della “variabile indipendente” e l’idea che le garanzie dovessero espandersi in tutta la loro ampiezza e in qualsiasi tempo o contesto, senza alcuna possibilità di contemperamento, pure postulata dall’art. 41 Cost.
Il che, almeno indirettamente, contribuì a favorire, sia pure in ambiti limitati una cultura di rigetto dei valori di efficienza produttiva, se non addirittura una certa opzione antindustriale; anche se Gino Giugni, consapevole di questo rischio, tendeva a imputare ciò non al portato della legge, ma ad eccessi di determinate frange della dottrina e della giurisprudenza.
Lo Statuto dei Lavoratori, come è naturale che accadesse, è molto cambiato, non tanto nel corso dei 50 anni, ma direi in quest’ultimo decennio: e già questo è segno di una straordinaria longevità. Ma la legge n. 300 del 1970 resta, comunque, una pietra miliare della cultura giuridica e del progresso sociale, un modello inarrivabile di efficace intervento riformistico, capace di penetrare realmente nel tessuto sociale del nostro Paese e di lasciarvi tracce indelebili.
Noi oggi, all’atto di compiere un bilancio in chiave diacronica di questa storica legge, la omaggiamo con il rispetto dovuto ad una straordinaria opera dell’ingegno giuridico, portatrice di ormai irretrattabili e permanenti traguardi di civiltà del lavoro. L’occasione, peraltro, torna propizia per un ricordo e un omaggio a quello straordinario personaggio che ne fu il principale artefice: Gino Giugni.
Ad ogni anniversario dello Statuto, ad ogni 20 maggio, non possiamo omettere il ricordo di un altro grande giuslavorista, Massimo D’Antona, brutalmente assassinato proprio il 20 maggio 1999, sacrificato da una barbarie cieca e distruttrice, proprio perché emblema di quei valori di mediazione sociale avanzata e intelligente che avevano ispirato anche la l. 300 del ‘70.

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