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1. Alle radici della riforma del 1970: la dialettica tra fautori e oppositori dell’intervento legislativo

Ripercorrere la vicenda politico-legislativa dello Statuto dei Lavoratori lungo il ventennio che ne ha preceduto l’approvazione parlamentare, poi negli anni della sua implementazione nel vivo del tessuto produttivo del Paese, induce oggi in molti giuslavoristi – e qui in particolare nell’Autore dell’introduzione a questa raccolta di saggi, Raffaele De Luca Tamajo – un misto di nostalgia e di senso di frustrazione. Nostalgia per un’epoca in cui le riforme legislative nascevano dal confronto preliminare fra progetti organici ispirati a visioni politico-sociali diverse, da un ampio dibattito in cui erano coinvolti tutti i soggetti interessati, poi dalla precisa scelta programmatica compiuta ed esplicitata da un Governo fin dal suo nascere, infine da una dialettica serrata tra parlamentari e “tecnici” eccellenti scelti dal ministro in carica e confermati dal ministro subentrante. Senso di frustrazione derivante dal confronto fra quel modo di procedere e il modo in cui si procede oggi, per intuizioni e improvvisazioni, guidati prevalentemente da opportunismo mediatico, senza alcun disegno organico preciso e di ampio respiro.

Assai utili per recuperare il senso e il modo di quel che è stato fatto nell’intento di riformare il diritto del lavoro mezzo secolo fa sono gli studi, proposti qui da Vincenzo Antonio Poso e da Federico Siotto, sullo sviluppo del dibattito politico nel ventennio che ha preceduto l’iniziativa legislativa del Governo di Centro-Sinistra della fine degli anni ’60, e la rivisitazione dei lavori preparatori parlamentari, in prima lettura al Senato e in seconda alla Camera, che dobbiamo agli stessi Poso e Siotto e a Franco Carinci.

Ne emerge tra l’altro un aspetto della vicenda poco conosciuto dalle nuove generazioni dei giuslavoristi di oggi, quello della dialettica – che percorse tutto il primo ventennio post-bellico – tra i fautori dell’intervento legislativo (in prima fila la Cgil e i giuslavoristi che si raccoglievano intorno al suo trimestrale, la Rivista giuridica del lavoro, e il Psi, che ne aveva fatto una bandiera, una ragion d’essere della propria partecipazione al governo con la DC) e i contrari, tra i quali soprattutto la Cisl, il cui motto in quegli anni era “il nostro Statuto è il contratto!”.

Come osserva qui Vincenzo Antonio Poso, la Confederazione guidata da Giulio Pastore negli anni ’50 e Bruno Storti nel decennio successivo si era già opposta con forza all’emanazione della legge del 1966 sui licenziamenti individuali: l’accordo interconfederale del 1965 era nato proprio con l’intendimento, comune a Confindustria, di evitare l’intervento legislativo (poi la legge n. 604/66 sarebbe stata varata lo stesso, ma avrebbe ricalcato in tutto e per tutto quell’accordo).

Negli interventi alla Camera dello stesso segretario della Cisl Bruno Storti e del deputato Amos Zanibelli veniva denunciato il rischio di una “istituzionalizzazione del sindacato” e di una “espropriazione [ai danni del sistema delle relazioni industriali] della regolazione dei rapporti di lavoro”.

La preoccupazione della Cisl era innanzitutto che la disciplina del lavoro, sottratta all’accordo tra le parti sociali, potesse essere assoggettata alle oscillazioni degli equilibri politici, non corrispondendo più a un equilibrio stabile presidiato dal sistema delle relazioni industriali: il che spiega l’assenza, di cui parla Federico Siotto, di un progetto legislativo della Confederazione guidata da Bruno Storti contrapposto a quello della Cgil. Ma la Cisl paventava anche i rischi contrapposti di norme generali non adattabili alle esigenze specifiche aziendali o di settore, e viceversa di norme dettate per i casi singoli, basate su concessioni di natura clientelare, ma destinate ad assumere applicazione generale; quindi un accumularsi di norme disordinato. Con ampi spazi per le forzature politiche, in un senso o nell’altro a seconda della temperie politica.

2. La riscrittura in Parlamento della norma sui licenziamenti

Una forzatura politica fu, effettivamente, quella che si verificò in seno alla Commissione Lavoro del Senato – cui fa cenno nel suo saggio Franco Carinci, ma la cui vicenda meriterebbe un (non facile) approfondimento storico-politico – sulla materia delicatissima dei licenziamenti, il famoso articolo 18, rispetto al contenuto del disegno di legge governativo.

Il testo elaborato dalla Commissione coordinata da Gino Giugni – confermato in questo ruolo da Carlo Donat Cattin, democristiano, succeduto al socialista Brodolini, come sottolinea qui Giuliano Cazzola – limitava la reintegrazione ai casi di licenziamento discriminatorio, per rappresaglia antisindacale o per altro motivo in sé illecito, mentre prevedeva un indennizzo rafforzato per gli altri casi di irregolarità.

Fu un emendamento del Pci, accolto in Commissione, a estendere la possibilità della reintegrazione a questi altri casi, rendendo così il giudice del lavoro arbitro finale delle scelte più rilevanti di gestione del personale. Con questa norma venne introdotta una disciplina della stabilità ispirata al regime tipico del pubblico impiego, che presuppone la possibilità per l’imprenditore di verbalizzare e dimostrare in giudizio, e per il giudice di valutare, la fondatezza di valutazioni concernenti ciò che porterà o non porterà in futuro un guadagno o una perdita nella gestione aziendale. Se mi è consentito qui esprimere la mia opinione in proposito, dico che, se la norma fosse rimasta nella sua formulazione originaria, si sarebbero probabilmente evitati alcuni eccessi di giuridificazione delle scelte gestionali aziendali, ma la possibilità di contrastare gli abusi datoriali non sarebbe stata pregiudicata significativamente: il controllo giudiziale, invece di fermarsi al giudizio sulla scelta compiuta dall’imprenditore, si sarebbe spinto molto più frequentemente alla ricerca del motivo discriminatorio o illecito, esattamente come è di fatto accaduto sul terreno della repressione delle condotte antisindacali, dove l’accertamento del motivo illecito si è basato anche su presunzioni semplici. E al tema dell’individuazione del motivo discriminatorio o comunque illecito anche la dottrina avrebbe incominciato a dedicare un’attenzione molto maggiore, con almeno un decennio di anticipo rispetto a quanto è poi effettivamente avvenuto a seguito dell’evoluzione della legislazione antidiscriminatoria europea e della giurisprudenza della Corte di Giustizia (su questo capitolo della vicenda dello Statuto v. il saggio di Elisabetta Tarquini).

Il fatto è che la lunga stagione che aveva visto le imprese di fatto libere di porre in essere le discriminazioni più odiose aveva alimentato il bisogno diffuso di un contropotere in azienda; e la politica rispose a questo bisogno diffuso con l’attribuzione al giudice del lavoro di poteri di ingerenza molto incisivi e, al tempo stesso, estesi a un novero di materie assai più ampio di quanto non fossero stati fino ad allora.

3. Il nesso essenziale tra lo Statuto del 1970 e la riforma processuale del 1973

Viene così in luce il nesso strettissimo – cui è dedicato, qui, il saggio di Vincenzo Di Cerbo – tra lo Statuto varato nel 1970 e la riforma del processo del lavoro destinata a vedere la luce tre anni più tardi, ma che già lo Statuto stesso conteneva in nuce, sia in una norma processuale relativa al licenziamento del rappresentante sindacale, sia in quella relativa alla repressione del comportamento antisindacale. Norma, quest’ultima, destinata a diventare il prototipo su cui – come osserva Raffaele De Luca Tamajo – verrà modellata anche, vent’anni dopo, la norma processuale per la repressione delle discriminazioni.

La ratio che sottende tutte queste disposizioni di natura processuale è quella di assicurare tempi rapidi del procedimento, di conferire al giudice gli strumenti necessari per rendere effettivo il diritto e, in qualche misura, stabilirne i confini, per certi aspetti destinati a essere definiti caso per caso.

Ciò che induce Giovanna Pacchiana ad avvertire, assai condivisibilmente, che la norma sulla repressione del comportamento antidindacale è una norma di diritto non soltanto processuale, ma in realtà anche sostanziale, fondativa di un capitolo rilevantissimo del nuovo diritto sindacale statuale.

In area processualistica, ma sempre su temi di grande rilevanza per l’effettività della disciplina del rapporto individuale di lavoro e dei rapporti sindacali, si collocano anche il saggio di Marco Biasi, dedicato al tema più specifico delle misure coercitive, e quello di Orsola Razzolini dedicato alla partecipazione del sindacato al processo costituzionale, che nell’articolo 28 dello Statuto ha la sua porta d’accesso principale.

4. Una legge ad alta effettività

Sarebbe un errore, però, pensare che il grado elevatissimo di effettività raggiunto rapidamente da quasi tutte le norme contenute nello Statuto in materia di rapporti di lavoro individuali e rapporti sindacali sia stato soltanto una conseguenza del contemporaneo potenziamento del controllo giudiziale sulla loro applicazione.

La ragione prima di quell’effettività sta nel fatto che lo Statuto nacque, come già la legge del ’66 sui licenziamenti e nonostante la forzatura parlamentare sulla disciplina dei licenziamenti di cui si è detto sopra, in aderenza abbastanza stretta ai contenuti dei rinnovi contrattuali del ’69-70. In altre parole, intervenne a confermare, rafforzare e generalizzare regole che per lo più erano state già in precedenza il frutto di un punto di incontro negoziale tra le parti sociali.

Era inoltre una legge… leggibile.

Nonostante che Giuseppe Pera lo avesse qualificato come “legge malfatta” (per i motivi qui puntualmente esposti nel saggio di Vincenzo Antonio Poso), lo Statuto era – ed è fortunatamente in gran parte rimasto, a mezzo secolo di distanza – un testo legislativo esemplare per chiarezza e semplicità: 41 articoli brevi, immediatamente leggibili e comprensibili da chiunque. Tant’è vero che venne diffuso in milioni di copie in ogni angolo del Paese, e nel giro di due o tre mesi milioni di lavoratori e imprenditori furono in grado di capire la nuova disciplina delle mansioni, delle visite mediche, dei controlli a distanza, dei trasferimenti, dei permessi sindacali, delle assemblee in azienda e così via. Da questo punto di vista era un testo legislativo perfettamente in linea con le altre grandi leggi in materia di lavoro del decennio precedente, ma ora con una forte attenzione in più alla questione dell’effettività dei diritti. Fu proprio questa sua caratteristica che gli consentì di penetrare molto rapidamente nella cultura del lavoro e sindacale del Paese, facendo registrare l’altissimo tasso di effettività di cui parla qui Luigi Mariucci.

Ed è ancora Luigi Mariucci, in consonanza su questo punto con Raffaele De Luca Tamajo, a sottolineare come nell’implementazione della riforma recata dallo Statuto la contrapposizione originaria tra la sua anima “costituzionalista” cigiellina (che si esprime soprattutto nei titoli I e II) e quella “giugnana” del sostegno al sindacato e alla contrattazione si sia realizzata una sintesi dialettica tale, per cui è difficile a posteriori ascrivere all’una o all’altra i singoli rilevantissimi effetti prodotti dalla nuova legge nel mondo del lavoro.

5. Il nodo della rappresentanza sindacale e dell’efficacia dei contratti collettivi

Siamo così arrivati al capitolo più complesso e controverso del discorso sullo Statuto: quello della problematica selezione del sindacato alla cui attività la legge può dare sostegno e del come l’ordinamento possa attribuire al contratto collettivo, necessariamente non stipulato nei modi previsti dalla norma costituzionale rimasta inattuata, un’efficacia che vada al di là della capacità di rappresentanza propria del sindacato stipulante.

C’è chi si è spinto, a questo proposito, a rimproverare allo Statuto di aver in qualche modo assicurato alle tre confederazioni sindacali maggiori una sorta di monopolio della presenza sindacale nelle aziende. Questa critica non tiene conto del fatto che nel 1969, alla vigilia del varo della legge, era in atto un processo di unificazione fra le tre confederazioni, che appariva destinato a concludersi felicemente di lì a poco: infatti già nel 1972 sarebbe nata la Federazione Cgil-Cisl-Uil, capace di rappresentare allora la quasi totalità del movimento sindacale italiano.

Il legislatore non si pose il problema della valutazione comparativa di maggiore rappresentatività tra i sindacati perché la questione appariva antistorica, un problema non attuale. Solo un quindicennio più tardi verrà sancita la fine del processo di unificazione organica fra le tre confederazioni maggiori. Giuseppe Santoro Passarelli mette qui efficacemente in rilievo come il sistema imperniato sull’articolo 19 dello Statuto nel suo testo originario entri definitivamente in crisi quando, nel 1984, il patto e il decreto di San Valentino sulla scala mobile ufficializzano definitivamente la frattura: è da quel momento che il problema della misurazione comparativa della rappresentatività torna di piena attualità, così ponendosi le premesse per l’iniziativa referendaria volta a una riscrittura della norma, destinata ad avvenire con la consultazione popolare del 1995. Ed è pure nel corso degli anni ’80 che il sindacalismo autonomo – in contrapposizione a quello confederale originariamente privilegiato dallo Statuto – si afferma come realtà rilevante nel tessuto produttivo.

Parallelamente a quello della selezione del sindacato meritevole del sostegno si pone il problema dell’efficacia erga omnes dei contratti collettivi nazionali. Ilario Alvino nel suo saggio interamente dedicato a questo tema sottolinea come lo Statuto non abbia la pretesa di risolvere direttamente la questione nascente dalla mancata attuazione dell’articolo 39 della Costituzione, ma soltanto di imporre – con l’articolo 36 – la recezione degli standard stabiliti dai contratti nazionali stipulati dalle associazioni maggiormente rappresentative all’appaltatore di opere pubbliche e all’imprenditore che gode di pubbliche agevolazioni o altre forme di sostegno; e come questa norma del 1970 sia stata perfezionata dal Codice degli Appalti del 2006, con la previsione dell’automatismo dell’applicazione di quei contratti, anche se non formalmente recepiti dall’appaltatore.

Oggi però – come osserva Raffaele De Luca Tamajo nello scritto introduttivo – anche questa forma di intervento dell’ordinamento statale a sostegno dell’ordinamento intersindacale si scontra con il proliferare non soltanto dei contratti collettivi nazionali stipulati in riferimento alla stessa categoria, ma anche dei contratti che ambiscono a far nascere categorie nuove, con perimetri diversi rispetto alle categorie i cui confini sono stabiliti nei contratti tradizionali. Mentre il problema della pluralità dei contratti riferiti alla stessa categoria si risolve agevolmente col confronto tra le organizzazioni stipulanti sul piano della rappresentatività effettiva, il problema della coesistenza di contratti che definiscono categorie diversamente delimitate, ma con ampie aree di sovrapposizione tra di loro, non può essere risolto allo stesso modo, ben potendo accadere che ciascuna coalizione stipulante sia “maggiormente rappresentativa” nell’ambito della categoria da essa stessa disegnata come area di applicazione del proprio contratto.

  Qui né l’articolo 36 dello Statuto, né tanto meno il 19 (neppure dopo la sua riscrittura referendaria del 1995), offrono gli strumenti per sciogliere il nodo; e ben si comprende l’auspicio espresso da Giuseppe Santoro Passarelli nel senso di un intervento legislativo, che ormai non solo la Cgil ma anche la Cisl considera indispensabile. Se però si passa dall’auspicio generico all’indicazione dei possibili contenuti di una buona legge su questa materia, ci si accorge che la “crepa interna” dell’articolo 39 Cost. – ovvero la contraddizione tra la regola contenuta nel quarto comma, per la quale la categoria dovrebbe preesistere al contratto, imponendosi ad esso come alveo necessario, e il principio di libertà sindacale contenuto nel primo comma, per il quale la categoria non può che nascere dal contratto stesso, essendone liberamente definita – ancora oggi ha l’effetto di impedire la soluzione del problema per quel che riguarda il contratto nazionale.

Onde la legge sindacale auspicata può proporsi di risolverlo soltanto in riferimento all’area non coperta dal quarto comma dell’articolo 39, ovvero a quella della contrattazione aziendale. Su questo punto i limiti di spazio mi obbligano a rinviare al mio saggio recente nel quale ho affrontato più compiutamente l’argomento.

6. La destrutturazione della prestazione di lavoro subordinato e il suo impatto sulla disciplina della rappresentanza, dei controlli e della retribuzione minima

A complicare ulteriormente il rompicapo della rappresentanza sindacale contribuisce lo sviluppo delle forme nuove di organizzazione della produzione, soprattutto nel settore dei servizi, che rendono sempre più evanescente la distinzione tra prestazione subordinata e autonoma, ponendo la questione messa a fuoco sul piano sociologico nei saggi di Mirella Baglioni e di Giuliano Cazzola, sul piano giuridico in quello di Vincenzo Antonio Poso: la necessità di ridefinire della fattispecie di riferimento del diritto del lavoro; che, per il sindacato, è la necessità di ridefinire l’insieme dei lavoratori cui esso propone il proprio ruolo di rappresentanza.

Questione a proposito della quale sempre più mi convinco che – sia sul piano strettamente giuridico, sia su quello delle relazioni sindacali – il criterio distintivo tradizionale dell’assoggettamento o no a eterodirezione debba essere sostituito con quello della dipendenza economica, individuata essenzialmente dalla durata temporale, dalla monocommittenza ed eventualmente anche dal livello medio-basso di professionalità, di cui è indice un livello medio-basso di retribuzione.

È, questo ora enunciato, il criterio che era stato adottato, per ampliare l’area di applicazione della protezione forte del lavoro, dalla legge 28 giugno 2012 n. 92, la c.d. “legge Fornero”. Ed è curioso osservare come esso sia stato sostituito dall’articolo 2 del decreto legislativo 15 giugno 2015 n. 81 con il criterio dell’assoggettamento della prestazione a un coordinamento spazio-temporale con l’organizzazione aziendale dell’impresa creditrice, proprio nel momento in cui lo sviluppo tecnologico faceva sì che a quella forma tradizionale di coordinamento si affiancasse sempre più diffusamente il coordinamento informatico-telematico, caratteristico sia del c.d. smart work, sia del c.d. platform work: mentre il tessuto produttivo evolve verso forme di organizzazione della produzione di servizi totalmente nuove, il legislatore rispolvera il criterio selettivo proprio della legislazione sociale dei primi del Novecento.

Fatto sta che queste nuove forme di organizzazione destrutturano il rapporto di lavoro rendendo la prestazione sempre meno misurabile in termini di durata temporale e così assimilandola sempre di più a una prestazione “di risultato” invece che “di mezzi”. Fenomeno questo – ovviamente sconosciuto al legislatore del 1969-70, che aveva a che fare ancora con il modello fordista dominante nel secolo passato – in relazione al quale Luigi Mariucci avverte che la questione non è se le garanzie fondamentali istituite con lo Statuto debbano continuare ad applicarsi, avendo esse un carattere universale, ma come esse possano e debbano essere applicate nel nuovo contesto.

La materia delle apparecchiature per il controllo a distanza è solo un esempio fra i molti della necessità di adeguamento delle regole alla nuova realtà perché resti fermo il principio: quando, come nel caso dello smart work o del platform work, il tradizionale coordinamento spazio-temporale della prestazione con il resto dell’organizzazione aziendale è sostituito dal coordinamento informatico e telematico, è evidente la necessità di esentare lo strumento ordinario di lavoro dall’obbligo della contrattazione preventiva del suo utilizzo con le rappresentanze sindacali aziendali, anche se la nuova strumentazione intrinsecamente comporta una possibilità di controllo a distanza; e, per converso, è evidente la necessità di affiancare alla misura di protezione collettiva istituita dallo Statuto una garanzia specifica di natura diversa: è il tema del saggio di Roberto Pettinelli e Gaetano Zilio Grandi.

Un’altra materia sulla quale la destrutturazione della prestazione di lavoro subordinato richiede una revisione delle tecniche di protezione è quella dello standard retributivo minimo – sia esso stabilito in sede collettiva o legislativa –, che deve essere definito non più soltanto in riferimento alla durata temporale della prestazione (paga oraria), ma anche in riferimento al tempo medio per lo svolgimento del singolo compito (consegna in area urbana, correzione o traduzione di testi, tenuta della contabilità, ecc.) in relazione al quale si configura la nuova responsabilità contrattuale del prestatore.

Si apre qui anche la questione se sia o no opportuno un intervento legislativo per la fissazione dello standard retributivo minimo, sulla quale prendono posizione in senso positivo, nei rispettivi saggi, sia Mirella Baglioni, sia Ilario Alvino.

7. Dove lo Statuto ha fallito: la protezione della persona che vive del proprio lavoro nel mercato, prima ancora che nel rapporto

Se un vero difetto può essere imputato allo Statuto del 1970, non è né quello di non aver previsto ciò che allora non era prevedibile – cioè il tramonto del modello della fabbrica fordista, o il fallimento del processo di unificazione sindacale – né quello di non aver saputo risolvere la questione (irrisolvibile, ad articolo 39 della Costituzione invariato) dell’efficacia generale dei contratti collettivi nazionali, bensì quello di aver fatto propria una strategia di protezione del lavoro interamente centrata sulla tutela degli interessi della persona nel rapporto, affidando la tutela nel mercato a un meccanismo vetusto, inefficace e anzi dannoso per i lavoratori, quale era già allora il monopolio statale del collocamento: meccanismo cui lo Statuto dedica due articoli, il 33 e il 34, tendenti addirittura al suo irrigidimento e rafforzamento. Si dovrà attendere la fine del secolo perché quel ferrovecchio venga mandato in soffitta; e nel frattempo nessuno si occupa di progettare e ingegnerizzare i nuovi strumenti di protezione della persona che lavora nel mercato.

Per venire all’oggi, se non vogliamo tornare a commettere quell’errore del secolo scorso, la strategia per la protezione del lavoro e al tempo stesso per la costruzione dell’eguaglianza di opportunità oggi deve essere centrata non su di una protezione dei lavoratori dal mercato, ma su di una loro protezione nel mercato. In Italia, alla fine del 2019, venivano censite un milione e duecentomila situazioni di skill shortage, cioè posti di lavoro che rimanevano permanentemente scoperti per mancanza di persone capaci di ricoprirli; un vero e proprio “giacimento occupazionale” inutilizzato, che si è presumibilmente ridotto in conseguenza della pandemia da covid-19, ma certamente non azzerato.

Quello che dobbiamo risolvere, dunque, prima ancora che il problema di rafforzare la domanda di lavoro, è quello del difetto grave dei servizi efficaci indispensabili per consentire a centinaia di migliaia di persone di rispondere alla domanda di personale qualificato e specializzato delle imprese. Nella consapevolezza che un mercato del lavoro capace di rispondere a quella domanda costituisce uno dei fattori più importanti di attrattività di un Paese per i nuovi insediamenti produttivi.

Nel XXI secolo, nel quale l’obsolescenza delle tecniche applicate ha assunto un ritmo elevatissimo, la sicurezza economica e professionale delle persone non può essere perseguita attraverso l’ingessatura dei posti di lavoro: la si può perseguire soltanto innervando capillarmente il mercato del lavoro di servizi efficaci di informazione, di orientamento professionale per gli adolescenti e per gli adulti, di formazione e addestramento mirati a rispondere alla domanda insoddisfatta, capaci davvero di soddisfarla. E la cui capacità di soddisfarla sia controllata capillarmente, misurata e resa conoscibile da tutti gli interessati.

Solo su un sistema di servizi efficaci, dei quali si conosca con precisione il tasso di coerenza tra la formazione impartita e gli esiti occupazionali effettivi, si può fondare il diritto al lavoro di cui parla l’articolo 4 della Costituzione. Non per caso è a un sistema della formazione professionale così concepito che Bruno Trentin già nei primi anni ’90 si riferiva come allo strumento fondamentale per la sicurezza economica e professionale dei lavoratori nel secolo che stava per aprirsi: quello che potremmo indicare oggi come una sorta di “articolo 18 del XXI secolo”.

 

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