Testo integrale con note e bibliografia
1. Nella Costituzione l’uomo che lavora
Il lavoro è considerato nella sua totalità nella Costituzione della Repubblica italiana, a partire dall’art. 1 comma 1 per cui «l’Italia è una repubblica democratica, fondata sul lavoro». La norma iniziale e caratterizzante considera il «lavoro» senza aggettivi, perché tutto è lavoro e non possono esserci graduazioni di valore o tantomeno preferenze.
Il valore giuridico totale del «lavoro» si vede nelle altre norme ed in particolare nell’art. 35 comma 1 per cui «la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed ap-plicazioni». La norma è precisa nella sua ampiezza, considerando non solo il «lavoro» senza aggettivi, o se si vuole con aggettivi ed espressioni che accentuano la totalità, ma anche per i destinatari, perché dev’essere la Repubblica, nelle sue componenti plurali-stiche, a fondarsi sul lavoro e non solamente lo Stato-ordinamento per quanto ampio e pubblicistico.
C’è solo una norma limitante, quella di cui all’art. 37 comma 2 Cost. che impone la ri-serva di legge per stabilire il limite massimo di età per il «lavoro salariato»: quest’espressione «lavoro salariato» indica con certezza, ma solo per questo caso, che la riserva di legge vale solo per il lavoro subordinato. Anche se in generale un’interpretazione per contrapposizione è critica, in questo caso ci sono tali precisioni da far concludere che l’unica norma indirizzata al lavoro subordinato è quella che ri-guarda il minimo dell’età lavorativa.
Nonostante questa semplicità, certezza, apparenza della nozione di lavoro che com-prende qualunque attività, purché non vietata dalla legge penale ( ), nelle interpretazio-ni si è teso tuttavia ad affermare che la Costituzione si occupa maggiormente se non esclusivamente del lavoro subordinato e comunque con un certo privilegio.
Ritenendo applicabili solo al lavoro subordinato certe norme, come per la riserva di legge su orario, riposi e ferie (art. 36 commi 2 e 3), s’è dedotto che ugualmente le altre norme costituzionali riguarderebbero il lavoro subordinato, almeno in via preferenziale. Non è vero, perché – prendendo ad esempio l’orario – si possono comunque trovare metodi e sistemi per evitare un sovraccarico nocivo di lavoro anche nei confronti dei non-subordinati; ma anche se fosse vero, sarebbe solo un’eccezione.
Più spesso si è dedotta la limitazione da asserite intenzioni della legge e cioè consideran-do che la Costituzione sarebbe indirizzata verso i deboli, o almeno con una preferenza verso i deboli, lasciando aperta una voragine incolmabile sulle nozioni di “debole” e “forte”.
Entrambe le considerazioni, la prima sull’asserita impossibilità di applicazione e la se-conda sull’asserita intenzione della Costituzione, sono frutto solo di fantasia senza giu-stificazione né tanto meno riferimento normativo. Si pensi solo alla nozione di «disoc-cupato», che non è limitata solo al dipendente che ha perso il posto e, nell’assolutezza di una parola sola, è riferita invece alla posizione soggettiva di chi vorrebbe lavorare ma non ci riesce, senza che rilevi l’origine o il tipo di rapporto.
2. Il superamento delle distinzioni con la previdenza sociale
Lavorare effettivamente ha rilievo per molti fini. Ce n’è uno «spirituale» che è quello di concorrere al progresso della società (art. 4 comma 2 Cost.), perché chi non lavora è come se fosse fuori dalla società, isolato in una città globale. Il secondo fine è di gua-dagnare per la sussistenza propria e di chi non può lavorare nella famiglia (come vecchi e minori).
Il minimo esistenziale ha una doppia garanzia, sia quando si lavora effettivamente (art. 36 Cost.), sia quando involontariamente non si riesce a lavorare (art. 38 Cost.). Il lavoro è dunque lo strumento o se si vuole un’occasione per garantire la sussistenza li-bera e dignitosa.
Anche per un reddito minimo esistenziale si ripropongono distinzioni, che nella Costi-tuzione non ci sono ma che sono state poste dalle leggi con una discrezionalità spesso considerata in modo del tutto insindacabile.
1) Le indennità di disoccupazione (ora NASpI e DS agricola) ( ) erano riservate a chi già lavorava in forma subordinata.
2) A partire dalla “riforma Fornero”, e poi in forma stabile con il D. Lgs. 4 marzo 2015, n. 22, un’indennità di disoccupazione formalmente equivalente è stata prevista anche per i lavoratori autonomi [Dis-Coll ( )] con successive ulteriori estensioni [Alas ( ), Iscro ( )].
3) Per chi non ha mai lavorato o non raggiunge i requisiti minimi di occupazione è previsto il Reddito di Cittadinanza (RdC) ( ), che spetta a chi non riesce a lavorare (in-volontarietà) e non superi i limiti di reddito della “no tax area”.
Con l’attuale sistema quindi il lavoro effettivo non è più presupposto necessario per un reddito esistenziale. Sembra quindi che sia venuta meno l’ideologia per cui avrebbe diritto al reddito esistenziale solo chi ha già lavorato. Il lavoro effettivo non è più indi-spensabile, ma resta sempre essenziale per il suo aspetto “spirituale”, perché altrimenti si resta isolati sostanzialmente fuori dalla società (art. 4 Cost.).
Sfumata se non eliminata la corrispondenza tra lavoro e reddito, restano varie distin-zioni sul tipo o preteso tipo di lavoro svolto.
Il D. Lgs. 22/2015 ha eliminato ai fini dei trattamenti di disoccupazione la distinzione fra lavoro subordinato o autonomo, considerando entrambi con requisiti equivalenti, per cui i lavoratori non-subordinati potrebbero arrivare con la Dis-Coll a percepire sus-sidi simili a quelli dei subordinati ( ).
Sia pur con molti limiti ed incertezze, derivanti anche da preoccupazioni anti-frode, il D. Lgs. 22/2015 ha sostanzialmente eliminato la distinzione tra subordinazione ed au-tonomia. C’è stato quindi un balzo avanti un po’ inaspettato ed in fondo semplice, per-ché limitato alla previdenza sociale.
Ovviamente non si possono dedurre principi generali e nemmeno tendenze dalle norme sulla previdenza sociale, che rispondono ad esigenze e logiche diverse rispetto a quelle del lavorare effettivamente. Certamente, tuttavia, è stato un passo d’eccezionale importanza, che inesorabilmente influenzerà l’intero mondo del lavoro.
3. Lo sciopero per tutti quelli che lavorano
Se c’è una cosa che colpisce è l’evoluzione sullo sciopero. Storicamente, nell’approvare la Costituzione si considerava lo sciopero dei lavoratori dipendenti o meglio degli operai, perché gli impiegati erano considerati ancora un po’ collaboratori troppo stretti dei datori di lavoro anche se l’unificazione delle qualifiche era già stata attuata dal codice civile.
Pensando quindi allo sciopero degli operai o comunque dei deboli per trovare la forza nel diventare collettivi, s’è affermato che lo sciopero costituirebbe uno strumento per superare le debolezze. Per la verità la Corte Costituzionale aveva già da tempo esteso lo sciopero anche ai non-dipendenti, purché però in qualche modo “deboli” ( ). Tuttora qualche commentatore continua a dire che lo sciopero sarebbe riconosciuto a chi è in condizione di debolezza e servirebbe per superare le debolezze.
Quando però nel 1990 è stata emanata la legge sullo sciopero nei servizi essenziali (L. 12 giugno 1990, n. 146), è stata prevista una regolamentazione dello sciopero dei lavo-ratori autonomi anche se chiamato pudicamente “astensione collettiva” e non sciopero ( ). E quando poi in occasione del Giubileo nel 2000 (L. 12 aprile 2000, n. 83) fu ema-nata una regolamentazione per lo sciopero (alias “astensione dal lavoro”) indirizzata di fatto ai taxisti, ai distributori di benzina e soprattutto agli avvocati, l’idea che lo sciope-ro costituisse strumento a fini di tutela delle parti deboli è crollata. È vero che la rego-lamentazione ha riguardato ancora i “piccoli”, ma ha compreso comunque espressa-mente gli imprenditori ed ha compreso in modo indistinto tutti gli avvocati: con pro-gressione logica non c’è più distinzione tra “piccoli” e “grandi”, con ragionamento di fatto ma con necessaria logica estensiva, perché ora un vero e proprio diritto di sciope-ro è stato riconosciuto a chiunque lavori, senza considerare forma o tipi ( ).
Lo sciopero è semplicemente uno strumento per fare pressioni ad una controparte in-certa e sfumata, venendo meno anche la nozione stessa di controparte.
“Lavoratore” è chi lavora, e basta, senza distinzioni storiche o intellettuali.
Restano tuttavia i problemi di come attuare una normativa che garantisca un reddito a chi svolga lavoro non-subordinato.
4. Lavorare per sussistenza
Il lavoro serve per produrre reddito o “anche” per produrre reddito.
Ci sono almeno due problemi: 1) l’impossibilità o difficoltà di porre norme inderogabili costituisce sempre uno strumento di ogni possibile frode, perché al non-dipendente può essere dato un compenso difficile da determinare anche in via sommaria e per questo può essere anche minimo se non simbolico. Il non-dipendente può essere paga-to poco o nulla, con grandi spazi di frode a danno di sé stesso, ed anche di fisco e pre-videnza. 2) Le collaborazioni continuative possono essere ricondotte in un modo o nell’altro nella subordinazione, quanto meno in via di equivalenza, arrivando magari ad applicare i contratti collettivi per analogia (che non sarebbe possibile ma si fa). In altre parole, il collaboratore continuativo una tutela in qualche modo ce l’ha o può trovarla: il problema è quindi del puramente “occasionale”, quello che lavora una volta tanto ma non si sa se lavorerà mai più ( ). Normalmente vengono chiamati artigiani, nel vecchio e abusato esempio di chi va a riparare il tubo dell’acqua che perde ed allaga: verrà una volta ma non si sa se mai tornerà.
Si ripropone allora una vecchia distinzione ( ), in base alla quale l’unico vero requisi-to per distinguere il lavoro subordinato da quello autonomo sarebbe proprio la “occa-sionalità” o “non abitualità”: secondo questa teoria il lavoro solo occasionale (svolto una o pochissime volte ma soprattutto senza prospettive future) sarebbe quello autonomo, mentre il non-occasionale o se si vuole professionale o continuativo (nel senso appena esposto) sarebbe lavoratore subordinato.
L’«autonomia» senza contributi previdenziali, e senza tutele, sembrerebbe limitata a casi marginali, ma è sensazione sbagliata perché si ritiene che questi lavoratori “occa-sionali” siano talmente numerosi da coprire una parte notevole e forse importante delle attività lavorative. Né si potrebbe pensare di porre “tariffe”, come per le libere profes-sioni intellettuali, perché le attività degli “occasionali” sono talmente varie e numerose da non permettere qualunque schema. Comunque che le “tariffe” non determinano la sufficienza esistenziale.
Questo mondo degli “occasionali” è anche sconosciuto, perché molto e troppo spes-so irregolare, soprattutto per gli aspetti fiscali e previdenziali. È impossibile guardare l’ignoto, ma vanno rifiutate le proposte di presunzioni spesso o quasi sempre sbagliate.
5. Il superamento delle distinzioni con l’emergenza Covid
La legislazione dell’emergenza Covid 2019/2021 ha avuto riflessi che possono sem-brare stabili. Innanzitutto per lo smart working, possibile solo per il lavoro che non ri-chieda un contatto diretto con macchine e attrezzature non trasportabili a casa. In so-stanza, sembrerebbe un ritorno alla distinzione fra operaio e impiegato, quest’ultimo che può lavorare da casa ed il primo invece costretto ad andare in “fabbrica”.
L’osservazione resta incerta soprattutto per le ambiguità dello smart working, nono-stante gli slanci iniziali: va anche ricordato che le disillusioni sono derivate non solo e non tanto dai datori di lavoro, quanto soprattutto dai lavoratori che lavorando a casa si ritrovano isolati non solo nei luoghi, ma anche nei rapporti umani.
Un insegnamento o meglio suggerimento importante potrebbe derivare, dalla legisla-zione Covid, per il fatto che si sono previsti aiuti economici a “tutti”, dipendenti e non, anche se con strumenti ancora differenziati e che ripropongono vecchi o nuovi schemi. In via eccezionale, è stato comunque superato l’ostacolo concettuale, per cui solo i di-pendenti meritano aiuti per difficoltà derivanti da mancanza di lavoro oppure, in termi-ni più sommari, che solo i dipendenti sarebbero veri lavoratori: invece, come per lo sciopero, anche gli imprenditori possono lavorare senza limitarsi a sfruttare interessi finanziari.
Non sarebbe la prima volta che una legislazione d’emergenza determina importanti modifiche di sistema, destinate a restare. Non si può dire però che la legislazione Covid abbia fatto superare le varie distinzioni, per considerare solo il lavoratore che lavora, per corpo ed anima.
Si narra che, per la disobbedienza del peccato universale, Dio diede due punizioni, condannando la donna alle sofferenze del parto e l’uomo a fatica e sudore per avere i mezzi per sopravvivere: nella profonda allegoria, le condanne sono in verità due bene-dizioni, senza distinguere fra uomo e donna, della vera immortalità con i figli e dell’intelligenza con il lavoro.
6. Homo sapiens, oeconomicus, faber
Si può astrarre, con poche parole enfatiche, l’uomo che partecipa alla società (homo sa-piens) da quello, ormai isolato in un’effimera ricchezza di carta, che tenta solo di sfrut-tare le società produttrici di ogni cosa (homo oeconomicus). Resta l’uomo che lavora (homo faber) e così vive coscientemente, ma vive in una società, in cui le monete pur simboli-che costituiscono l’unico strumento per sopravvivere, per continuare nonostante le diffi-coltà [supra- «sopra-» e vivĕre «vivere»].
La società dà all’homo faber la garanzia di sopravvivere in situazioni di bisogno (artt. 35-39 Cost.) imponendo minimi esistenziali, con il contratto ma anche prima o senza un contratto. Con il Covid l’homo faber può aver avuto paura della “solitudine”, chiuso in casa o peggio senza attività per la pandemia, ma in fondo proprio l’emergenza ha provato la resistenza del sistema, forse la sua valorizzazione, superando i limiti non so-lo delle inderogabilità ma anche degli aiuti, superando il presupposto della “debolezza”. L’emergenza Covid ha fatto riflettere che l’homo faber non è debole ed ha solidarietà senza chiederla.
Il minimo esistenziale si realizza solo con la moneta, con giusti compensi e sussidi sempre monetari, perché le leggi non creano nuove occasioni di lavoro e possono so-lamente ostacolarle. Se si lavora si ha diritto ad una retribuzione e se non si riesce a la-vorare si ha diritto a sussidi, sempre in moneta, e si lasci da parte la vecchia illusione che lo Stato aiuterebbe a trovare nuove occasioni di lavoro. Meglio, non si proclamino tentativi di sostituire i compensi o i sussidi monetari con servizi per l’impiego.
7. I lavori “poveri”
Per i dipendenti ci sono i contratti collettivi, per i professionisti le tariffe legali. Po-trebbe sembrare che per gli “occasionali” ci sia solo il libero mercato, ma non è vero: in un modo o nell’altro si potrebbe arrivare a qualche equiparazione, ma il problema è, come visto, che gli “occasionali” sono troppo spesso “invisibili”.
Quelli degli occasionali potrebbero sembrare lavori “poveri”, ma anche questo non è vero. Non è “povero” il lavoro con cui si guadagni poco perché non si lavora a tempo pieno, perché un lavoro a tempo parziale con rispetto dei minimi orari e di tutte le re-gole è giusto e sarebbe solo ridicolo pensare d’aver diritto ad una retribuzione piena anche lavorando per tempo limitato. L’unico lavoro “povero” è quello irregolare ( ), senza considerare l’entità incerta del compenso, sempre effimero.
L’art. 4 della Costituzione non prevede un diritto per tutti al posto di lavoro stabile e con retribuzione a tempo pieno, non c’è “inadempimento costituzionale” come talvolta si sente ripetere con parole invecchiate e stantie. Il minimo esistenziale ex artt. 36 e 38 Cost. si raggiunge con un misto fra contratto e previdenza, lasciando alla previdenza di integrare il compenso da contratto come si fa ora mediante il regime di cumulabilità della NASpI nei limiti della “no tax area”. In fondo, è un fenomeno simile a quello del trattamento familiare ex art. 36 Cost., che si raggiungere con la mutualizzazione attra-verso gli assegni familiari (ora “assegno unico”) e non certo imponendo ai datori di la-voro di dare retribuzioni più alte a chi ha famiglie numerose.
C’è chi guadagna poco perché non trova un lavoro con livelli contrattuali migliori o perché è riuscito a trovare un lavoro solo di 5 o 10 ore alla settimana; c’è chi non ha la sicurezza del futuro perché ha trovato solo lavori a termine. Non esiste però un diritto a lavori stabili, con livelli contrattuali alti ed a tempo pieno. Non si può criminalizzare il lavoro tempo parziale, che è dignitoso e basta.
8. Le tariffe
Chi lavora in modo continuativo ha il trattamento dei dipendenti: superando problemi di qualificazione (o meglio di nomi), l’art. 2 del D.Lgs. n. 81/2015 (con la L. n. 128/2019) ha riconosciuto alle collaborazioni eterorganizzate lo stesso trattamento dei dipendenti ( ).
Hanno le “tariffe” le professioni intellettuali, come gli avvocati e gli ingegneri; una volta le tariffe erano inderogabili (con l’unica eccezione dei medici), ora invece si pos-sono stabilire compensi diversi ed anche minori con accordo delle parti.
Tuttavia non cambia molto, perché da sempre le “tariffe” servono solo per garantire la giusta concorrenza e cioè per evitare che i professionisti giochino al ribasso per ac-quisire i clienti a danno della qualità. Ora non è più così, ma non è questo il problema, perché comunque un singolo compenso nulla garantisce al singolo professionista.
9. Il problema degli “invisibili”
Dopo l’eliminazione senza rimpianti ( ) dei lavori autonomi “impossibili” (“co.co.pro”, partire Iva, associazioni in partecipazione) ( ) e quasi-totale dei voucher ( ), e dopo l’applicazione della disciplina del lavoro subordinato al lavoro continuativo eterorganizzato, sembrava che per il lavoro autonomo non fosse rimasto spazio (tranne ovviamente il caso a parte delle professioni intellettuali).
“Sembrava”, ma è anche vero. Ormai, oltre la subordinazione c’è poco o nulla: vuol dire allora che c’è l’irregolare ed “invisibile”. Lo spazio occupato prima con i contratti di lavoro autonomo, ai limiti e spesso oltre la regolarità, ora è vuoto. Almeno prima c’erano contratti pur illegittimi, magari in forma scritta, che lasciavano tracce: ora inve-ce oltre la subordinazione non ci sono nemmeno tracce, per cui parlare di diritti sem-bra una burla.
Il vero problema della tutela dei diritti è il lavoro irregolare, come sempre ma, forse, ora accentuato. È molto difficile considerare quel che non si vede, perché irregolare, per basarsi su elementi deduttivi/induttivi di dubbio significato. È incongruo dedurre che, se c’è vuoto, vuol dire che ci sarebbe l’irregolare. Ma, oltre ogni giusta critica, il fenomeno degli “occasionali” senza regole esiste.
10. Si possono eliminare i contratti in quanto utilizzabili per frodi?
La domanda è imbarazzante per ingenuità, dato che le frodi sono possibili sempre e non c’è contratto che possa essere considerato esente. Sembra il vecchio esempino del-la vendita per simulare una donazione o viceversa una donazione per simulare una vendita a seconda della convenienza fiscale.
In apparenza, sembrerebbe che l’eliminazione dei “co.co.pro.”, “partite iva” e “asso-ciazioni in partecipazione” sia dovuta proprio al fatto che questi contratti si prestavano facilmente a simulazioni e frodi. Idem per i voucher. In verità, l’eliminazione dei primi contratti è stata una specie di correzione di errore materiale, perché le norme discipli-nanti erano talmente ambigue e contraddittorie, da causare contratti sempre illegittimi: per questo andavano indicati come “contratti impossibili” ( ), in modo simile al “reato impossibile” del rapinatore che usa un’arma giocattolo per evitare il rischio di incrimi-nazione di rapina a mano armata.
Diverso invece il caso dei voucher, disciplinati con normativa corretta con garanzie pie-ne di legittimità. Tuttavia la “colpa” dei voucher sarebbe consistita nel fatto che si sareb-bero usati uno o pochi voucher, da mostrare all’eventuale ispettore per coprire orari di lavoro molto più lunghi. I voucher sarebbero stati cioè strumenti per facili frodi.
Oltre questa ipotetica o asserita facilità alle frodi, ci sono stati in un passato recente più casi di contratti giudicati in modo negativo ed anzi addirittura demonizzati, come espressione del “male” ( ). Oltre i “co.co.co.” e “co.co.pro.”, si pensi al lavoro interi-nale, per cui in certi momenti ci sarebbero stati atti addirittura di violenza fisica; poi le “partite iva”, le “associazioni in partecipazione” ma soprattutto i “voucher” per cui fu chiesto un referendum abrogativo. Per evitarlo, si adottò il metodo drastico di abrogare totalmente la legge e ciò nonostante molti chiesero che il referendum si facesse lo stes-so, anche se per abrogare una legge già abrogata.
Ritornando alla domanda retorica con cui è iniziato il paragrafo, le possibilità di frode non costituiscono motivo per eliminare i contratti. Si pensi ad esempio al caso del lavo-ro a tempo parziale, molto simile ai voucher, con cui si assume per poche ore o pochi giorni ma in effetti si fa lavorare a tempo pieno e si utilizza il testo contrattuale da mo-strare agli eventuali ispettori dicendo che il tempo lavorato era quello del contratto a tempo parziale (la frode è stata resa più semplice con la flessibilità del part time).
Per la verità la sensazione è che, quando si protesta perché il lavoro sarebbe povero, si protesta contro un lavoro a tempo parziale, mentre la povertà non è della somma to-tale guadagnata ma di quanto guadagnato secondo giusta proporzione.
11. Conclusioni: il reddito di cittadinanza
Ora però, dopo l’applicazione della disciplina del lavoro subordinato al lavoro auto-nomo eterorganizzato, il lavoro “autonomo” non esiste più: ma è un’affermazione vo-lutamente sbagliata, mentre la vera sensazione è che il lavoro “autonomo” esista come prima ma è “invisibile” perché irregolare e proprio perché invisibile non si sa esiste più o meno di prima.
Il problema degli autonomi “occasionali” è non di un compenso equo, ma della loro regolarità. Si può presumere che l’irregolarità serva per dare compensi bassi e contro ogni diritto, oltre che ovviamente per frodare fisco e previdenza, ma non si può sapere proprio perché gli irregolari sono “invisibili” e bisogna diffidare da asseriti studi pre-suntivi che troppo spesso sono in verità parole vuote.
Si credeva che, quando per il lavoro autonomo i contributi previdenziali sarebbero di-ventati come quelli del lavoro subordinato ( ), non ci sarebbe stata più differenza tra subordinazione ed autonomia: era evidentemente un’esagerazione, considerando però giustamente che con le frodi i maggiori risparmi venivano dall’evitare di pagare i con-tributi previdenziali. Ormai da qualche anno i contributi dei dipendenti e degli autono-mi sono più o meno uguali e di fatto dovrebbe esserci un separamento dei tipi: la di-stinzione però è rimasta sotto altro punto di vista e cioè tra irregolari e regolari, in cui gli “occasionali” potrebbero essere tanto numerosi da costituire uno storico “esercito di riserva” per ogni tipo di evasione.
La conclusione è dunque che la vera distinzione sia non fra subordinazione ed auto-nomia, ma fra regolari e irregolari. È un problema di vigilanza e non di contratti, nella consapevolezza che l’irregolare è un fenomeno vario e contraddittorio, con cui non si sa mai bene quali siano le frodi e chi ci speculi.
Il Reddito di Cittadinanza dà una soluzione minima, per garantire un trattamento esi-stenziale, con le sue compatibilità e cumulabilità, che vanno rispettate.