1. Premessa generale e metodologica
Il tema del lavoro svolto in ambito sportivo – fatta eccezione dei rapporti di natura professionistica, svolti ai sensi della l. n. 91/1981 dagli atleti, allenatori, preparatori atletici e direttori tecnico sportivi – per anni, ha rappresentato un’area grigia di indifferenza lavoristica, nella quale disposizioni di esclusivo rilievo endoassociativo sportivo hanno consentito di evitare il proliferare di contenziosi qualificatori del rapporto.
In tale ottica, si può parlare di vere e proprie clausole di protezione dello status quo che hanno costituito, nel corso degli anni, pur a fronte di numeri imponenti di lavoratori coinvolti, una vera e propria barriera ostativa al controllo giudiziale dei rapporti di lavoro, con buona pace del principio costituzionale dell’indisponibilità del tipo contrattuale sancito dalla Corte Costituzionale (n. 121/1993, n. 115/1994) .
In via meramente esemplificativa basti segnalare le disposizioni dell’art. 30 dello Statuto FIGC , che subordinano il ricorso all’Autorità Giudiziaria Ordinaria solo a fronte di specifica e preventiva autorizzazione federale, comprovata da “gravi ragioni di opportunità”, pena l’applicazione di sanzioni disciplinari interdittive ed economiche di altrettanto grave rilievo, sancendo un sostanziale divieto di ricorso al Giudice Ordinario .
A ciò si è aggiunto un quadro normativo nazionale che, come si vedrà, partendo dalla l. n. 80/1986 sino ad arrivare alla l. n. 342/2000, nel focalizzare l’attenzione sulla collocazione fiscale del compenso sportivo dilettantistico, si è disinteressato del profilo strettamente contrattuale del rapporto di lavoro dilettantistico in una logica di protezione della cd. utilità sociale della prestazione sportiva in un ambito considerato (a torto) dal legislatore di modesta rilevanza economica .
L’attuale situazione pandemica ha mostrato, tuttavia, l’assoluta inefficienza di una simile impostazione, al punto che con l’art. 96, decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18 e con l’art. 44, del DL 25 maggio 2021, n. 73, il legislatore ha ritenuto necessario sostenere tale platea di cittadini tramite un indennizzo a protezione del reddito da lavorato dilettante per i periodi di impossibilità di svolgimento della prestazione .
I dati raccolti da Sport e Salute S.p.a. sull’erogazione di tali trattamenti indennitari hanno dimostrato che circa duecentomila lavoratori operano, a vario titolo, nello sport dilettantistico, di cui il 42,48% donne e il 57,52% uomini, venendo, pertanto, in rilievo una platea di operatori ingiustificatamente sotto-protetti ed evidentemente di non modesta rilevanza economica e sociale.
Ben diverso è il discorso quando, rispetto a tale quadro regolamentare interno, in relazione all’attività di atlet* e allenat*, vengono in rilievo profili di dimensione internazionale del rapporto.
Simili disposizioni sportive e normative perdono, infatti, rilievo scontrandosi con quanto stabilito dalla Corte di Giustizia EU che, sulla base del lascito della Sentenza Bosman , ha chiarito che l’attività sportiva è disciplinata dal diritto nazionale e comunitario ogni qualvolta sia configurabile una prestazione personale continuativa e onerosa avente una rilevanza anche economica .
Lungi da chi scrive l’idea di voler affrontare con una parvenza di minima completezza il tema della cd. “Bosman legacy” , tuttavia, va segnalato, rinviando per il resto alla letteratura in materia , come, nel caso di rapporti a rilievo economico di dimensione internazionale, i.e. coinvolgenti atlet* e allenat* stranier* e società italiane, le disposizioni protettive nazionali trovino una forma di disapplicazione pratica, che emerge ovviamente solo nella fase patologica del rapporto di lavoro, in relazione alla quale assume fondamentale rilievo il rinvio contenuto negli Statuti delle Federazioni sportive internazionali alla competenza decisionale del Tribunale Arbitrale dello Sport (TAS) di Losanna , quale organo arbitrale internazionale di settore.
Tale rinvio ha avuto il merito di generare, come si vedrà, un effetto positivo di interpretazione unitaria delle regole contrattuali applicabili ai rapporti di lavoro.
Al contrario, infatti, di quanto avviene in ambito nazionale, gli Statuti delle Federazioni Sportive Internazionali, per garantire un’applicazione uniforme delle regole contrattuali del settore sportivo ed evitare fenomeni di dumping nei rapporti di dimensione internazionale, da un lato individuano regole globali e vincolanti valevoli in relazione allo status de* lavorat* e, dall’altro lato, riconoscono la potestas iudicandi (in ultima istanza) del TAS di Losanna.
Simile sistema, in adeguamento alle pronunce e alle intese Eurounitarie con le Federazioni Internazionali , pertanto, in primis, riconosce quale regola generale la sussistenza di un rapporto di lavoro in presenza di un contratto scritto con una società sportiva per il quale viene corrisposto un compenso per la prestazione resa superiore alle spese effettivamente sostenute dall’interessato .
In secondo luogo, per garantire l’applicazione di regole unitarie a livello internazionale, l’impianto normativo, nella sua applicazione pratica, viene integrato dal TAS, attraverso l’applicazione aggiuntiva, ove necessario, delle regole del Diritto del Lavoro svizzero .
In presenza di un rapporto dilettantistico di dimensione internazionale, i.e. coinvolgente un* cittadin* di nazionalità straniera, vengono, pertanto, in rilievo misure protettive internazionali, che non consentono l’inquadramento del rapporto in un’area di indifferenza lavoristica.
Quando, per l’effetto, si analizza il tema del lavoro sportivo in Italia ci troviamo di fronte a un contesto inusuale nell’ambito del quale vige un sistema misto che si fonda su una dicotomia altrettanto inusuale tra:
a) chi opera nell’ambito di una federazione che ha scelto di adottare un set di regole normative rigorose, quali quelle applicate al settore professionistico, ai sensi della l. n. 91/1981, e che, dunque, gode di protezione normativa piena; e
b) chi, pur operando nelle federazioni qualificatesi come professionistiche, svolge la propria attività nelle categorie di campionati che non rientrano nel settore professionistico e chi opera in una federazione sportiva che ha scelto di non qualificarsi professionistica, i quali, pur dovendo godere dell’applicazione delle regole ordinarie del diritto del lavoro, trovano uno sbarramento nelle regole endofederali al riconoscimento del rapporto.
Tale contesto nazionale si complica ulteriormente, come visto, allorquando il rapporto, come sovente accade, vede coinvolti lavorat* stranier*, per i/le quali valgono regole peculiari e che, attraverso l’intervento delle disposizioni internazionali, trovano tutela e protezione normativa piena.
Ciò rende evidente l’esistenza di un sistema di regole lavoristiche frastagliato e non allineato ai principi generali del diritto del lavoro italiano ed Euronitario.
Tale circostanza, a parità di obbligazioni, crea inevitabili forme di discriminazione e disparità di trattamento tra lavorat* professionist* da una parte e dilettanti dall’altra, non strettamente giustificate da una effettiva e non formale difformità dell’attività svolta.
2. Il D. Lgs. n. 36/2021 e il superamento del discrimine tra professionismo e dilettantismo ai fini della qualificazione giuridica del rapporto…
In simile contesto, si inserisce il Decreto Legislativo 28 febbraio 2021 n. 36, attuativo della delega conferita al Governo dall’art. 5 della l. 8 agosto 2019, n. 86, volto proprio a mettere ordine rispetto a tale sistema.
Come specificamente indicato, infatti, nei lavori preparatori della legge delega, lo scopo dell’intervento normativo era appunto individuato nella necessità di “garantire l’osservanza dei princìpi di parità di trattamento e di non discriminazione nel lavoro sportivo, sia nel settore dilettantistico sia nel settore professionistico, e di assicurare la stabilità e la sostenibilità del sistema dello sport”.
Nel rispondere a un’articolata delega , il D. Lgs. n. 36/2021 si caratterizza per il tentativo di strutturazione del lavoro sportivo attraverso il riconoscimento della figura del lavoratore sportivo (art. 25), che viene, da un lato, contrapposta a quella dell’amatore sportivo (art. 29) e, dall’altro lato, declinato su tre direttrici: a) Il lavoratore sportivo autonomo (art. 25); b) Il lavoratore subordinato sportivo (artt. 25 e 26); c) Il lavoratore sportivo in ambito professionistico (art. 27), la cui analisi esula dalla presente trattazione, ma che mantiene le regole previgenti.
Su tali tre direttrici, che rispondono alle sollecitazioni provenienti dalle organizzazioni sindacali di settore , si innesta l’art. 30, che legittima la stipulazione di contratti di apprendistato seppur solo con giovani atleti, ai sensi del D. Lgs. n. 81/2015 .
Strettamente legata a tali istituti è la successiva abolizione del vincolo sportivo, contenuta nell’art. 31, per le/gli atlet*, i.e. il vincolo pluriennale che lega tali lavorat* dilettanti alla società in favore della quale sono tesserat* senza possibilità di risoluzione unilaterale – evidentemente incompatibile con forme di lavoro autonomo o subordinato e a maggior ragione con l’apprendistato – in relazione al quale, tuttavia, si rinvia alla letteratura specialistica per ogni opportuna e approfondita analisi.
Sebbene il Decreto Legislativo n. 36/2021 risponda a questi necessari adeguamenti normativi, la sua applicazione è stata più volte posposta essendone stata contestata la sostenibilità economica .
L’ incessante andirivieni di posticipazioni dell’entrata in vigore delle norme lavoristiche in esame dà il quadro di quanto sia complesso legiferare in un settore in cui la protezione giuslavoristica dei rapporti si scontra con, a volte banali, logiche di compatibilità dei costi con la sostenibilità economica del sistema a protezione di uno status quo normativo, che ha certamente inteso trattare con particolare favore le società sportive dilettantistiche in considerazione dell’importanza anche sociale attribuita all’esercizio fisico quale strumento di benessere e di socializzazione dell’individuo, ma non di certo garantire alle stesse un fine, anche solo indirettamente, lucrativo mediante esenzioni fiscali e contributive sui compensi erogati ai loro collaboratori stabili e professionali.
Tali tensioni si scontrano con la necessità, di più pregnante rilevanza costituzionale, di garantire, anche in un settore peculiare come quello sportivo, ai lavoratori interessati il pieno godimento di diritti costituzionalmente riconosciuti e la necessaria focalizzazione concettuale sulle prestazioni sportive effettivamente svolte anche in ambito dilettantistico.
Sul punto, la riforma, sebbene da più voci tacciata di incompletezza o di scarsa conoscenza delle peculiarità del mondo sportivo, al contrario, ad avviso di chi scrive, si pone nella direzione corretta di tutelare i contrapposti interessi delle parti coinvolte.
Lo si comprende perfettamente dalla mera lettura dei commi 1 e 2 dell’art. 25, d.lgs. 36/2021 e, dunque, già dal campo delle definizioni della figura del lavoratore sportivo.
Al comma 1, il legislatore limita il concetto di lavoratore sportivo alle figure degli atleti, allenatori, istruttori, direttori tecnici, direttori sportivi, preparatori atletici e direttori di gara che, senza alcuna distinzione di genere e indipendentemente dal settore professionistico o dilettantistico, esercitano l’attività sportiva verso un corrispettivo al di fuori delle prestazioni amatoriali di cui all’articolo 29.
Ciò consente il superamento dei limiti soggettivi dell’art. 2 della l. n. 91/1981, che si traducevano anche in limiti di genere in virtù della qualificazione esterna (rectius endoassociativa) della prestazione sportiva come professionistica, legittimamente delimitando il campo di applicazione delle norme protettive a quelle figure che effettivamente ritraggono una propria fonte di reddito personale dall’attività sportiva.
Altrettanto correttamente, pertanto, al comma 2, sempre nella logica di garantire il superamento di ingiustificati vincoli esterni alla qualificazione giuridica dei rapporti, il legislatore non impone una forma contrattuale vincolata rinviando alle classi definitorie generali del diritto del lavoro ordinario e, pertanto, alla ricorrenza dei presupposti, al rapporto di lavoro subordinato o al rapporto di lavoro autonomo, quest’ultimo “anche nella forma di collaborazioni coordinate e continuative ai sensi dell’articolo 409, comma 1, n. 3 del codice di procedura civile, fatta salva l’applicazione dell'articolo 2, comma 1, del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81”.
Dall’altro lato, tale principio viene a trovare una necessaria mitigazione normativa nel riconoscimento della legittimazione allo svolgimento di prestazioni amatoriali di cui all’articolo 29 d.lgs. n. 36/2021, che per l’effetto, continueranno a garantire un’area di cd. indifferenza giuslavoristica a prestazioni che svolgono la loro esclusiva funzione di promozione dello sport, personale, spontanea e gratuita, senza fini di lucro, neanche indiretti, ma esclusivamente di natura amatoriale (rectius di diletto).
Ciò che, dunque, sulla base del rinnovato impianto normativo, andrà verificato caso per caso e in concreto è la reale volontà contrattuale delle parti (dal lato del lavoratore reddituale vs. amatoriale o di puro diletto) e lo schema di svolgimento della prestazione, e non più il mero status giuridico dilettantistico della Società.
Si tratta di una vera e propria rivoluzione normativa che valorizza le prestazioni lavorative effettivamente svolte e la sussistenza di una causa contrattuale di scambio, riconducibile nelle ordinarie obbligazioni sinallagmatiche di fare finalizzate alla ricezione di un corrispettivo economico.
Si tratta, peraltro, di un’impostazione già fatta propria da un rilevante filone giurisprudenziale , che ha chiarito come, a fronte di attività dilettantistica esercitata professionalmente, con inserimento stabile nella struttura organizzativa dell’associazione sportiva prevalga l’esigenza costituzionale di tutela del lavoro, con conseguente prevalenza dell’obbligo contributivo rispetto alla protezione del trattamento di favore fiscale e contributivo della società o associazione dilettantistica.
L’art. 29, comma 3 del d.lgs. 36/2021, infatti, supera tali problematiche qualificatorie stabilendo, senza alcun margine interpretativo, l’incompatibilità delle prestazioni sportive amatoriali: “con qualsiasi forma di rapporto di lavoro subordinato o autonomo e con ogni altro rapporto di lavoro retribuito con l’ente di cui il volontario è socio o associato o tramite il quale svolge la propria attività amatoriale”.
A tale netta demarcazione qualificatoria fanno da contraltare, nell’intento “di assicurare la stabilità e la sostenibilità del sistema dello sport” di cui all’art. 5 della l. 8 agosto 2019, n. 86, le previsioni contenute nell’art. 36, comma 6 e 7, d.lgs. 36/2021.
Il comma 6, infatti, mantiene la qualificazione come redditi diversi, ai sensi dell’articolo 67, comma 1, lettera m), primo periodo, del DPR n. 917/1986, delle indennità di trasferta, dei rimborsi forfetari di spesa, dei premi e dei compensi, questi ultimi quando erogati sotto forma di emolumenti occasionali riconosciuti in relazione ai risultati ottenuti nelle competizioni sportive, erogati entro il limite reddituale dei 10.000,00.
Il comma 7, invece, prevede che: “La soglia di esenzione di cui all’articolo 69, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, si applica anche ai redditi da lavoro sportivo nei settori dilettantistici, quale che sia la tipologia di rapporto ed esclusivamente ai fini fiscali”.
Viene, dunque, estesa l’applicazione alle retribuzioni da lavoro subordinato sportivo e ai compensi da lavoro autonomo della disciplina contenuta nell’art. 69, co. 2, DPR 917/1986 – in precedenza limitata, ex art. 67, co. 1, lett. m), del medesimo DPR, come visto, alle indennità di trasferta, ai rimborsi forfetari di spesa, ai premi e ai compensi erogati nell’esercizio diretto di attività sportive dilettantistiche – secondo cui tali somme: “non concorrono a formare il reddito per un importo non superiore complessivamente nel periodo d’imposta a 10.000 euro”.
3. Segue: … e della sua protezione previdenziale.
Tale estensione è, tuttavia, mitigata, in relazione ai redditi da lavoro sportivo, da due fattori di notevole rilievo: in primis dal fatto che l’art. 36, co. 7, d.lgs. 36/2021, limita l’esenzione “esclusivamente a fini fiscali” e in secondo luogo dal fatto che, in relazione a tali redditi, viene eliminato il riferimento alla qualificazione come redditi diversi, ai sensi dell’art. 67, comma 1, lett. m) D.P.R. n. 217 del 1986.
Tali due elementi rappresentano il vero architrave del nuovo sistema normativo, eliminando ogni criticità in relazione alla effettiva copertura contributiva di lavoratori, autonomi e subordinati, sinora sforniti della benché minima protezione previdenziale.
L’eliminazione della riconducibilità di tali redditi dalla categoria di quelli diversi di cui al citato art. 67 DPR 217/1986, in particolare, che nel passato aveva condotto ad escludere la completa assoggettabilità a contribuzione dei compensi degli sportivi dilettanti, garantisce l’effettiva prevalenza dell’esigenza costituzionale di tutela del lavoro anche nell’ipotesi in cui il soggetto in favore del quale l’attività è resa non persegua fine di lucro.
Simile impostazione legislativa conferma quanto già chiarito dalla giurisprudenza più recente , in relazione all’impianto ante d.lgs. 36/2021, in virtù della quale “non tutti i compensi erogati dalle società sportive dilettantistiche costituiscono “redditi diversi”, bensì unicamente quelli che non costituiscono redditi di capitale ovvero non sono conseguiti nell’esercizio di arti o professioni. In altri termini, ciò che rileva ai fini dell’esonero dall’obbligo contributivo è che l’attività svolta dall’atleta e/o dall’istruttore non abbia carattere professionale, essendo l’intento del legislatore quello di favorire lo svolgimento di attività sportive per mere finalità ludiche e non anche imprenditoriali. Dunque, anche qualora il soggetto in favore del quale l’attività è resa non persegua fine di lucro, se l’atleta o l’istruttore esercitano professionalmente la loro attività, con inserimento stabile nella struttura organizzativa dell’associazione sportiva, prevale l’esigenza costituzionale di tutela del lavoro con conseguente persistenza dell’obbligo contributivo” .
Il venir meno della esenzione contributiva, in relazione ai redditi da lavoro sportivo, si collega strettamente all’estensione al lavoratore sportivo dilettante dell’applicazione della disciplina, anche previdenziale, a tutela della malattia, dell’infortunio, della gravidanza, della maternità e della genitorialità e contro la disoccupazione involontaria, secondo la natura giuridica del rapporto di lavoro, contenuta nell’art. 33, co. 2, d.lgs. 36/2021.
Si tratta, per l’effetto, di una regolamentazione che come specificato dalla dottrina : “avvicina complessivamente la disciplina del lavoro sportivo a quella generale, rendendo il settore più permeabile a quel processo di assottigliamento di confini e differenziazioni tra fattispecie contrattuali, già in atto anche nella giurisprudenza pre-riforma in materia”.
Ciò consentirà il superamento della ingiusta dicotomia qualificatoria e protettiva tra professionismo e dilettantismo sportivo nella prestazione ritenuta, con giusta ragione, dalla giurisprudenza di merito: “priva di ogni rilievo, non comprendendosi per quale via potrebbe mai legittimarsi una discriminazione del dilettante” .
Uno sguardo ad alcuni numeri economici imposti a livello endofederale consente di comprendere le ragioni di simile impostazione. Si consideri, infatti, esemplificativamente come, in relazione ai/alle calciatori/calciatrici tesserati/e per società della Lega Nazionale Dilettanti che disputano il Campionato Nazionale di serie D del Dipartimento Interregionale e i Campionati di Serie A, Serie A2 maschili e Serie A Femminile della Divisione calcio a Cinque, l’art. 94 ter delle Norme Organizzative Interne della FIGC, al comma 6, imponga quale limite degli accordi economici annuali relativi alle prestazioni sportive concernenti la determinazione della indennità di trasferta, i rimborsi forfettari di spese e le voci premiali la somma di € 30.658,00 lorde.
Tali importi, di chiara rilevanza economica, pur qualificati come lordi vengono ricompresi, come già indicato nell’ambito dei cd. redditi diversi ai sensi dell’art. 67, comma 1, lett. m) D.P.R. n. 217 del 1986, con la conseguenza che gli stessi, scontano un’esenzione fiscale quanto a € 10.000,00 e una totale esenzione contributiva.
Comparando tali importi con i minimi retributivi del settore professionistico emerge di tutta evidenza la stortura del sistema. Si consideri, infatti, come il minimo retributivo, ad esempio, della Serie A di calcio professionistico è pari a € 42.477,00 lordi per i calciatori di età superiore a 24 anni, a € 30.796,00 lordi per i calciatori di età tra i 19 e i 23 anni ed € 21.239,00 lordi per quelli tra i 16 e i 19 anni .
Si tratta di cifre assolutamente equiparabili che, a parità di obbligazioni contrattuali, rendono l’attività ben lungi dal poter essere dichiarata come di puro diletto, quanto piuttosto di un’ingiustificata area di lavoro nero istituzionalizzato con ricadute di gravissimo rilievo sotto il profilo della carenza di protezione previdenziale.
4. L’amatore sportivo, profili di criticità
Se sotto il profilo della figura del lavoratore sportivo emergono molte luci, maggiormente problematica è la qualificazione della figura dell’amatore sportivo declinata in antitesi a quella del lavoratore sportivo dall’art. 29, d.lgs. 36/2021.
L’intento del legislatore è lodevole, i.e. quello di mantenere un’area di pura amatorialità, rectius volontarietà, in ambito sportivo.
Tuttavia, tale scelta apre le porte ad alcune criticità che andrebbero meglio specificate a livello normativo.
A livello qualificatorio, il comma 1 dell’art. 29 dà una definizione netta di amatore, individuato come colui che mette: “a disposizione il proprio tempo e le proprie capacità per promuovere lo sport, in modo personale, spontaneo e gratuito, senza fini di lucro, neanche indiretti, ma esclusivamente con finalità amatoriali”, anche di natura atletica, didattica, di formazione e preparazione degli atleti, in favore di società e associazioni sportive dilettantistiche, Federazioni Sportive Nazionali, Discipline Sportive Associate ed Enti di Promozione Sportiva riconosciuti dal CONI.
Si tratta, di tutta evidenza, di figure che non svolgono attività a carattere professionale e continuativo, ma solo su base volontaria, come confermato dal successivo comma 3 il quale chiarisce con nettezza, come indicato supra che: “Le prestazioni sportive amatoriali sono incompatibili con qualsiasi forma di rapporto di lavoro subordinato o autonomo e con ogni altro rapporto di lavoro retribuito con l’ente di cui il volontario è socio o associato o tramite il quale svolge la propria attività amatoriale”.
Tuttavia, tale chiaro quadro definitorio trova una mitigazione nel successivo comma 2, mantenendo aperte criticità tipiche del sistema ante d.lgs. 36/2021.
Se, infatti, da un lato il comma 2 dell’art. 29 chiarisce espressamente che: “Le prestazioni sportive amatoriali di cui al comma 1 non sono retribuite in alcun modo nemmeno dal beneficiario”, in tal modo valorizzando la funzione esclusivamente sociale di tali attività, dall’altro lato mantiene aperti gravi equivoci di fondo attraverso la previsione in virtù della quale: “Per tali prestazioni sportive amatoriali possono essere riconosciuti premi e compensi occasionali in relazione ai risultati ottenuti nelle competizioni sportive, nonché indennità di trasferta e rimborsi spese, anche forfettari, a cui si applica l’articolo 36, comma 7”.
Equivoci aggravati dal successivo periodo del medesimo comma 2, in virtù del quale: “Quando le suddette indennità di trasferta e rimborsi spese superano il limite reddituale di cui all’articolo 69, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, le prestazioni sportive sono considerate di natura professionale, ai sensi dell’articolo 25, comma 1, per l’intero importo”.
Ne discende, di tutta evidenza un sistema frastagliato in cui, sebbene calibrato su base volontaria e di puro diletto e, quindi, di rilevante funzione sociale, tali figure, ben oltre qualsivoglia logica, potranno percepire “premi e compensi occasionali in relazione ai risultati ottenuti nelle competizioni sportive, nonché indennità di trasferta e rimborsi spese, anche forfettari”, che scontano un’esenzione fiscale nella misura massima di € 10.000,00.
Tale criticità è, tuttavia, temperata dalla presunzione, in caso di superamento della soglia massima di € 10.000,00, della natura professionale del reddito prodotto e, quindi, di lavoro autonomo o subordinato sportivo dell’attività svolta dall’amatore.
Il legislatore, ben conscio degli abusi che il riconoscimento di tali elementi economici possono causare, ha previsto una misura che si muove sul piano quantitativo (che si aggiunge, ad avviso di scrive, a quella qualificatorio-causale dell’amatorialità a prescindere dal raggiungimento o meno della soglia economica ) dall’evidente finalità disincentivante e sanzionatoria del ricorso abusivo al rapporto di natura amatoriale, cui poteva mettersi riparo, semplicemente evitando almeno il richiamo ai premi e compensi occasionali in relazione ai risultati ottenuti nelle competizioni sportive e alle indennità di trasferta.
Molto più problematico è il riferimento del comma 2, art. 29, all’art. 36, comma 7 e non al 36, comma 6, che, in relazione al lavoratore sportivo, fa salva la soglia di esenzione di cui all’articolo 69, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917 solo ed esclusivamente “ai fini fiscali” e non anche previdenziali. Per l’effetto, dovrebbe discenderne, quale naturale corollario, che le somme de quibus debbano essere equiparate a redditi da lavoro sportivo con conseguente assoggettamento contributivo pieno.
Una tale interpretazione letterale, per evitare la quale sarebbe forse opportuna una modifica chiarificatrice, porterebbe a ritenere quest’ultima una ulteriore e forse eccessiva misura disincentivante, oltreché di difficile gestione, dato che comporterebbe l’assolvimento dell’obbligo contributivo per rapporti espressamente distinti e non assimilabili a quelli di lavoro.
Sebbene apprezzabile nel suo complesso, l’intervento in materia di attività amatoriali non riesce, probabilmente, a valorizzare la rilevante finalità di solidarietà sociale rinvenibile nell’attività amatoriale.
Su tale profilo, urge, di tutta evidenza, un intervento di risistemazione normativa da parte del legislatore, che tenga conto della funzione sociale dell’amatore sportivo attraverso, ad esempio, l’adozione di una disciplina comune a quella del volontario del terzo settore a maggior ragione in virtù delle previsioni di cui all’art. 6, comma 2, d.lgs. 36/2021 in virtù del quale: “Gli enti sportivi dilettantistici, ricorrendone i presupposti, possono assumere la qualifica di enti del terzo settore, ai sensi dell’articolo 5, comma 1, lettera t), del decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 117, e di impresa sociale, ai sensi dell’articolo 2, comma 1, lettera u), del decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 112. In tal caso, le norme del presente decreto trovano applicazione solo in quanto compatibili” .
5. Le collaborazioni amministrativo-gestionali.
Non c’è dubbio che i principali problemi relativi alla protezione latu sensu lavorista dei prestatori coinvolti in ambito sportivo si siano registrati nel campo dei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa. In particolare, a causa dell’affermarsi, soprattutto tra gli operatori del settore dilettantistico, della giuridicamente infondata ma piuttosto diffusa convinzione circa una sorta di esclusione tout court dell’applicazione delle regole lavoristiche (finanche quelle di matrice qualificatoria).
Ciò è avvenuto soprattutto in ragione del sovrapporsi di disposizioni di facilitazione e/o esclusione fiscale e previdenziale all’assenza di una disciplina specifica per il fenomeno in ambito sportivo.
Se la questione relativa alle collaborazioni sportive dilettantistiche risulta assorbita dal nuovo impianto di regole di cui si è dato conto (v. supra, par. 2 e 3), nel d.lgs. n. 36 del 2021 una apposita regolamentazione è riservata alle collaborazioni di carattere amministrativo-gestionale, ora ricondotte esplicitamente nell’alveo delle collaborazioni di cui all’articolo 409, comma 1, n. 3, c.p.c., con previsione espressa del diritto all'assicurazione previdenziale e assistenziale, con iscrizione alla Gestione Separata INPS e tutela INAIL.
A mitigare tale impianto contribuiscono, poi, non solo la previsione di una aliquota contributiva ridotta (10% se il lavoratore è iscritto a un’altra gestione previdenziale, in caso contrario, per il 2021, del 20%, destinata ad aumentare negli anni successivi) ma anche quella della qualificazione come redditi diversi sia a fini fiscali che previdenziali, per le collaborazioni di carattere non professionale , entro il limite dei diecimila euro di compensi, indennità di trasferta e rimborsi spese. Superato tale limite quantitativo scatta una vera e propria presunzione di professionalità con sottoposizione dell’intero importo al normale regime fiscale e previdenziale.
Da ultimo, è solo il caso di segnalare come di non scarso rilievo sistematico, anche al fine di attribuire strumenti utili a prevenire fenomeni di abuso e di precarietà strutturale nel settore, sia la previsione dell’art. 42, d.lgs. n. 36 del 2021, che ha abrogato la lettera d) dell’articolo 2, comma 2, D.Lgs. 81/2015, che escludeva proprio le collaborazioni amministrativo gestionali dall’applicazione della disciplina delle collaborazioni etero organizzate .