Testo integrale con note e bibliografia
1. L’essere del lavoro nell’emergenza
Va da subito chiarito come l’aggettivo “sospeso” apposto nel titolo al termine “lavoro”non sia qui assunto nella sua accezione giuridica, nel senso cioè del temporaneo venir meno dell’operatività del vincolo obbligatorio nell’ambito di una relazione negoziale, ma in uno dei suoi significati ordinari espressivo del trovarsi il termine cui l’aggettivo attiene in uno stato di incertezza, ad indicare in questo caso del lavoro una definizione complessiva, una connotazione ontologica che vale a qualificarlo nell’attuale contesto dell’emergenza epidemiologica.
In effetti, così concepita quell’aggettivazione è in grado di ben rappresentare quella condizione transizionale in cui, a causa del perdurare della pandemia, versa il lavoro e che variamente si modula in termini di precarietà tra l’esserci ancora ed il non esserci più, di trasformazione dei modelli organizzativi, di miglioramento qualitativo quanto a competenze e corrispondenti livelli retributivi, di rilevanza bidirezionale della problematica della sicurezza, tale da coinvolgere, stante la trasposizione a livello di singolo individuo del fenomeno del degrado ambientale, oltre il lavoro, la stessa impresa esposta al rischio di un fattore esogeno, di costante tensione con concorrenti condizioni esistenziali, di omologazione socio-economica tra le diverse tipologie di rapporti di lavoro.
2. La precarietà
La precarietà è certamente la connotazione più evidente dal momento che la sostanziale conservazione dell’occupazione in un contesto economico profondamente segnato dal lockdown imposto alla gran parte delle attività produttive e dalla conseguente caduta del prodotto interno lordo è stata dovuta alla concessione tendenzialmente generalizzata e via via semplificata nella procedura d’accesso dei trattamenti di integrazione salariale qualificati dalla specifica causale Covid-19 e al blocco generalizzato, indifferenziato ed inderogabile dei licenziamenti collettivi e per giustificato motivo oggettivo, motivati quindi da ragioni economiche.
Sennonché il blocco, originariamente, ai sensi dell’art. 46 del d.l.17 marzo 2020, n. 18, convertito nella legge 24 aprile 2020, n. 27, fissato, come detto, in termini assoluti per un periodo protrattosi fino al 17 agosto 2020, in coincidenza con l’avvio, durante questa estate, della c.d. “fase 2” dell’emergenza, in cui l’attenuarsi della virulenza del contagio induceva a legittimare il ripristino delle libertà imprenditoriali di organizzazione dell’azienda e di ottimale dimensionamento degli organici, con l’art. 14 del d.l. 14 agosto 2020, n. 104 (c.d. “decreto agosto”), ora convertito nella legge 13 ottobre 2020, n. 126, se pur prorogato fino al 31 dicembre 2020 è stato reso flessibile.
E’ quanto si desume dalla formulazione della nuova disposizione che, nel sancire a carico dei datori di lavoro la preclusione all’avvio delle procedure di cui agli artt. 4, 5 e 24 della legge 23 luglio 1991 ed alla definizione delle procedure già sospese in quanto avviate successivamente alla data del 23 febbraio 2020 come anche alla facoltà di recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo, subordina l’operatività della medesima nei confronti degli indicati destinatari alla condizione, così testualmente definita nel secondo comma del citato art. 14, che gli stessi “non abbiano integralmente fruito dei trattamenti di integrazione salariale riconducibili all’emergenza epidemiologica da Covid-19 di cui all’art. 1 ovvero dell’esonero dal versamento dei contributi previdenziali di cui all’art. 3 del presente decreto”.
A ciò si accompagna, a conferma della flessibilizzazione dell’originario divieto, la previsione espressa di eccezioni al medesimo, concernenti i licenziamenti motivati dalla cessazione definitiva dell’attività dell’impresa, conseguenti alla messa in liquidazione della società senza continuazione, anche parziale, dell’attività, nei casi in cui nel corso della liquidazione non si configuri la cessione di un complesso di beni od attività che possano un
trasferimento d’azienda o di un ramo di essa ai sensi dell’art. 2112 c.c., le risoluzioni dei rapporti di lavoro che siano incentivate da accordi collettivi aziendali, stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale alle quali i lavoratori aderiscano ed i licenziamenti intimati in caso di fallimento, quando non sia previsto l’esercizio provvisorio dell’impresa, ovvero ne sia disposta la cessazione.
Fondati sono i dubbi circa l’opportunità di una tale misura di compromesso quando la prospettiva del rilancio dell’economia cui si ispirava l’azione governativa suggeriva semmai la verifica della capacità di effettiva permanenza sul mercato di un cospicuo numero di aziende provate dalla forzata sosta delle attività di produzione e commercializzazione, se non di interi settori destinati, a motivo del progressivo mutamento dei comportamenti sociali, ad un significativo ridimensionamento, verifica palesemente impedita dagli esiti di fittizia stabilizzazione della situazione occupazionale che la misura stessa induce.
Peraltro, maggiori perplessità suscita l’oscura formulazione del predetto art. 14, così da rendere non agevole la definizione dell’ambito di operatività del riformulato divieto di licenziamento.
Stando alla formulazione della richiamata disposizione che, come detto, risulta tale per cui il licenziamento per ragioni economiche resta precluso ai datori di lavoro che non abbiano integralmente fruito dei trattamenti di integrazione salariale riconducibili all’emergenza epidemiologica da Covid-19 ovvero dell’esonero dal versamento dei contributi previdenziali contemplati nel medesimo “decreto agosto”, il divieto sembra essere condizionato dall’accesso del soggetto datore alle misure di alleggerimento del costo del lavoro rese disponibili dalla più recente legislazione dell’emergenza, date appunto, da un lato, dalla concessione della cassa integrazione ordinaria, dell’assegno ordinario e della cassa integrazione in deroga di cui agli artt. 19 e 22-quinquies d.l. 17 marzo 2020, n. 18, convertito nella legge 24 aprile 2020, n. 27, per una durata massima di nove settimane, incrementate di ulteriori nove settimane, che potranno essere riconosciute esclusivamente ai datori di lavoro cui sia stato già interamente autorizzato il precedente periodo di nove settimane, decorso il periodo autorizzato (con aggravio o meno di un contributo addizionale in relazione alla riduzione del fatturato subita nel primo semestre 2020 rispetto a quello del corrispondente semestre del 2019) da fruirsi nel periodo compreso tra il 13 luglio 2020 ed il 31 dicembre 2020, con assorbimento dei periodi di integrazione precedentemente richiesti ed autorizzati, dall’altro, dall’ammissione al beneficio dell’esonero dal versamento dei contributi prevista in favore dei datori di lavoro privati, non operanti nel settore agricolo,
che non abbiano richiesto di beneficiare dei trattamenti di integrazione salariale ora previsti, ma abbiano già fruito nei mesi di maggio e giugno 2020 di quei trattamenti, nei limiti del doppio delle ore di integrazione salariale già fruite nei predetti mesi.
La formulazione è certamente anodina tanto da aver dato adito in dottrina a due contrapposte interpretazioni che ruotano attorno alla lettura del verbo fruire distintamente assunto in termini astratti o all’opposto in termini concreti, in modo tale da risultare, nel primo senso idoneo a comprendere tutti i datori di lavoro potenzialmente considerati destinatari delle misure pubbliche di sostegno e, nel secondo senso, soltanto quanti di essi si determinino a richiedere effettivamente l’intervento in loro favore di quelle misure, così che alla prospettazione di un divieto generalizzato si oppone quella di un divieto selettivo, subordinato alla condizione del godimento del beneficio del sostegno pubblico alla propria impresa.
Quest’ultima appare, ad avviso di chi scrive, la lettura da accogliere della norma, alla stregua, non tanto della sua formulazione letterale, dovendosi riconoscere come effettivamente neutro l’utilizzo del verbo “fruire”, quanto della sua riconducibilità ad una “ratio” identificabile con un obiettivo di progressivo riassetto del sistema produttivo, in coerenza con le rinnovate condizioni del mercato, su cui, del resto, è inevitabile debbano tararsi i programmi di investimento pubblico e la conseguente azione di riallocazione delle risorse umane, che ben può trovare supporto nei tradizionali strumenti del welfare lavoristico ora implementati dal finanziamento dell’Unione europea.
Ratio questa che vale a fondare l’ammissibilità di una scelta rimessa alla volontà mera del soggetto datore (la tesi contraria prospettata in dottrina intesa ad escludere la connotazione “meramente potestativa” della scelta configurata, viceversa, come alternativa da risolversi in base alle insindacabili decisioni imprenditoriali che possono essere indirizzate verso la sospensione dei lavoratori oppure la modifica strutturale dell’organizzazione produttiva con la conseguente soppressione dei posti dei lavoratori addetti, non tiene conto che descritta in questi termini la scelta non è altro che frutto della pura volontà del datore, a meno di non sostenere la rilevanza di condizioni che dal punto di vista oggettivo impongano l’orientarsi verso l’uno o l’altro degli indicati provvedimenti) e ad escludere che ulteriori limiti o, al contrario, agibilità possano desumersi in relazione al contenuto intrinseco delle distinte nozioni di integrazione salariale e di licenziamento economico.
In sostanza, il divieto è da leggersi nel senso che esso diventa operativo soltanto nei confronti di quei datori che decidano di beneficiare effettivamente delle integrazioni o dell’esonero contributivo e dal momento in cui inizino a beneficiarne, perdurando per tutto
il periodo in cui quei benefici risultino in astratto fruibili, dovendosi intendere l’avverbio “integralmente” in termini tali per cui, una volta che i datori di lavoro abbiano avuto accesso ai predetti benefici, il diviene opera a loro carico per tutto il periodo di durata del beneficio in cui permane la possibilità di avervi accesso e, così, per le nove ovvero, ove si verifichino le condizioni previste, per le diciotto settimane successive alla richiesta.
Né una tale interpretazione può trovare smentita in relazione alla previsione di cui al comma 3 dell’art. 14 citato, che individua quale eccezione al divieto l’intimazione di licenziamenti motivati dalla cessazione definitiva dell’attività dell’impresa, conseguenti alla liquidazione della stessa senza continuazione, anche parziale dell’attività, non potendosi convenire sul rilievo per cui, accedendo alla lettura selettiva del divieto, la previsione di quell’eccezione non avrebbe avuto senso, risultando la volontà di accedere ai benefici di legge in palese contrasto con quella di cessare l’attività e porre in liquidazione l’impresa, non rilevandosi, a ben vedere, alcuna contraddizione ben potendo la previsione dell’eccezione in questione riferirsi al caso comunemente contemplato nel regime delle integrazioni salariali del sopravvenire della scelta liquidatoria alla richiesta di ammissione a quei benefici in ipotesi di inidoneità del loro intervento ad evitare la cessazione dell’attività.
3. Nuovi moduli organizzativi
Quanto alle trasformazioni organizzative il riferimento è evidentemente all’istituto del lavoro agile, individuato nel periodo di rigoroso lockdown, in quanto atto a consentire l’esecuzione della prestazione lavorativa da remoto, come la sola modalità idonea a garantire la prosecuzione delle attività lavorative e per questo, alleggerito di ogni condizione e vincolo consensuale pur previsto dalla disciplina originaria dell’istituto di cui agli artt. 18 e seguenti della l. n. 81/2017, ammesso nel settore privato ed imposto nel settore pubblico, secondo una opzione puntualmente prorogata, ma ridimensionato nella sua portata innovativa, circoscritto come è stato nel perimetro di una prestazione lavorativa svolta dal proprio domicilio, insomma “da casa”, in cui il lavoratore era necessariamente confinato, identica nei contenuti e nella sua operatività a quella svolta nel luogo di lavoro ma resa più gravosa dalla flessibilità degli orari e dalla permeabilità dei tempi di vita “altri”.
Una tale contingenza delinea nell’immediato futuro una prospettiva di stabilizzazione di tale modulo organizzativo ma è indubbio come nel contempo si imponga la valorizzazione
di quelle opportunità che, nella sua versione originaria, configurata come diretta a determinare la rottura dell’unità di tempo, di luogo e di azione che ha connotato il modello social-tipico di lavoro subordinato, l’istituto offre di emancipazione del lavoro dipendente dallo schema tradizionale della relazione autorità/soggezione, in termini di estensione degli ambiti di autonomia del prestatore, di corrispondente incremento dei livelli di responsabilità, di implementazione dei poteri di intervento sulle varianze organizzative, di incentivazione dell’apporto originale allo sviluppo dei processi produttivi.
Di contro emerge la necessità di superare le criticità fatte registrare dall’originaria disciplina, che, in particolare, investono il profilo del diritto alla disconnessione dagli strumenti tecnologici, rimesso parimenti alla contrattazione individuale secondo una opzione che suscita notevoli perplessità sul piano dell’effettività del generale diritto del prestatore alla delimitazione dell’impegno lavorativo che involge la garanzia della salute del medesimo, perplessità indotte dalla considerazione dell’accentuarsi, in ragione dell’esigenza di mantenere il lavoro e comunque la propria posizione all’interno dell’azienda,della tendenza a comportamenti autoprescrittivi e ad una maggiore intensità delle prestazioni.
4. Verso la necessaria riqualificazione
Per parte sua, il miglioramento della qualità del lavoro è sollecitato dall’esigenza di conseguire adeguati livelli di competitività nel rinnovato contesto dell’economia digitale.
Problematica questa che andrebbe affrontata nell’ottica promozionale del lavoro su un versante più ampio di quello, pur sicuramente rilevante, anche sotto il profilo dell’esigenza di arrestare il costante decremento del valore di mercato del lavoro, della riqualificazione del capitale umano e dell’approdo a rinnovate e più elevate competenze, versante che investe il tema della redistribuzione del profitto d’impresa che, da tempo, vede trasferita la sede della sua maturazione dai luoghi che tradizionalmente hanno costituito il teatro dell’economia reale della produzione ai mercati finanziari, così da sottrarsi alle dinamiche consolidate del conflitto tra capitale e lavoro ed, anzi, a condizionarle, in ragione della capacità di incidere da posizioni monopolistiche sul prezzo anche della merce/lavoro.
Tale problematica è risultata viceversa disattesa per privilegiare in via esclusiva la prospettiva francamente riduttiva e di assoluta retroguardia dell’emancipazione dei c.d. working poors dalla loro condizione di sfruttamento e di sottoprotezione, culminata, se non
addirittura esauritasi, nell’estensione ai “riders” dello statuto protettivo proprio del lavoro subordinato.
Sotto questo profilo va apprezzata l’iniziativa legislativa, assunta con la previsione di cui all’art. 4 del “decreto agosto” volta all’estensione del periodo di efficacia ed all’implementazione della copertura finanziaria del “Fondo Nuove Competenze” che l’art. 88 del d.l. 19 maggio 2020, n. 34, convertito nella legge 17 luglio 2020, n. 77, aveva istituito presso l’Agenzia Nazionale delle Politiche Attive del Lavoro, destinato a fronteggiare gli oneri relativi alle ore di formazione , comprensivi dei relativi contributi previdenziali e assistenziali, dedicate ai percorsi formativi alle quali, ai fini di consentire la graduale ripresa dell’attività dopo l’emergenza epidemiologica, per il solo anno 2020, la norma prescrive possa essere finalizzata quota parte dell’orario di lavoro nel quadro di specifiche intese di rimodulazione dell’orario medesimo per mutate esigenze organizzative e produttive dell’impresa cui addivengano i contratti collettivi sottoscritti a livello aziendale o territoriale da associazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, ovvero dalle loro rappresentanze sindacali operative in azienda ai sensi della normativa e degli accordi interconfederali vigenti.
5. La sicurezza degli ambienti di lavoro
La novità sicuramente significativa che emerge quanto a questo tema è certamente data dal divenire l’impresa soggetto passivo del danno ambientale, suscettibile anch’essa di essere investita e pregiudicata nella sua stessa funzionalità dalla pervasività di un contagio a diffusione capillare, per cui ogni singolo individuo può porsi come veicolo del degrado ambientale.
Condizione questa del passaggio dell’impresa da soggetto generatore a vittima del rischio ambientale che induce la necessità di un ripensamento degli schemi giuridici di attribuzione della responsabilità, emblematicamente evocata dall’atteggiamento di decisa opposizione emerso in ambito confindustriale allorché la qualificazione giuridica come infortunio sul lavoro del contagio registrato in azienda, sancita dall’art 42, comma 2, del d.l. n. 18/2020, convertito nella legge n 27/2020. e definita dall’INAIL, con la nota n. 3675 del 13 marzo 2020 ma soprattutto con la successiva circolare del 3 aprile, in termini tali per cui la riconducibilità all’occasione di lavoro, presupposto fondante la responsabilità del datore per il danno all’integrità fisica del lavoratore conseguente all’evento, quando non presunta,
come espressamente si prevedeva per alcune categorie di dipendenti (quali gli operatori sanitari, i lavoratori a costante contatto con il pubblico e l’utenza, i lavoratori che operano in front-office, alla cassa, gli addetti alle vendite/banconisti nonché il personale del settore sanità operante negli ospedali con mansioni tecniche, di supporto, di pulizia, di addetti al trasporto infermi) sembra essere correlata al dato della rilevazione sul luogo di lavoro del contagio aprioristicamente o, al più, sulla base della tipica causalità probabilistica delle “malattie multifattoriali”, ha posto il problema della valenza in particolare sul piano penale della posizione del soggetto datore.
Sotto questo profilo non appare risolutiva la scelta legislativa operata con l’art. 29 bis, inserito nella l. 5 giugno 2020 n. 40 di conversione del d.l. 8 aprile 2020 n. 23, secondo cui “ai fini della tutela contro il rischio del contagio da Covid-19 i datori di lavoro pubblici e privati adempiono all’obbligo di cui all’art. 2087 del codice civile mediante l’applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del Covid-19, sottoscritto il 24 aprile 2020, tra il Governo e le parti sociali … e negli altri protocolli e linee guida di cui all’articolo 1, comma 14, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33, nonché mediante l’adozione ed il mantenimento delle misure ivi previste” dovendo ritenersi sulla base di tale previsione che se la medesima vale ad ancorare l’attribuzione di responsabilità per l’infortunio alla commissione di un illecito da parte del datore, prescinde dalla verifica dell’efficienza causale circa il determinarsi dell’evento dannoso della violazione della specifica misura di prevenzione e, pertanto, dalla riconducibilità dell’evento stesso alla condotta datoriale, presupposto dell’attribuzione di responsabilità.
6. La permeabilità alle condizioni esistenziali altre
All’emergenza epidemiologica va altresì ricondotto il risalto assunto dal peculiare aspetto dell’interferenza tra la sfera professionale e la sfera personale del lavoratore tale da sollecitare una più attenta considerazione del tema sensibile della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro che investe in termini più pregnanti, ove riguardato in una prospettiva eccedente la mera dimensione individuale, la problematica del lavoro femminile.
E’ evidente che lo scaricarsi in ambito familiare delle esigenze di cura conseguenti al confinamento in casa cui induce il diffondersi del contagio, in un contesto sociale ancora segnato dalla distribuzione asimmetrica dei ruoli familiari tra i generi, finisce per incidere in senso pregiudizievole, in termini che spesso si spingono fino all’abbandono, sulla
condizione lavorativa della donna accentuando la permeabilità di quella condizione da parte di esigenze esistenziali alternative.
Sotto questo profilo la normativa intervenuta a fronteggiare l’emergenza ha fatto registrare una progressiva presa di coscienza delle potenzialità discriminatorie quanto alla posizione della donna sul mercato del lavoro sottese all’assetto delle relazioni familiari e sociali nel nostro Paese.
Vanno in proposito richiamate le misure di sostegno alle famiglie adottate senza distinguere tra i genitori, tanto più che si trattava di ipotesi di riconoscimento alternativo, e dunque in funzione di riequilibrio tra i generi.
Si muove dalla previsione di cui all’art. 23 del d.l. n. 18/2020, che, in conseguenza dei provvedimenti di sospensione dei servizi educativi per l’infanzia e delle attività didattiche nelle scuole di ogni ordine e grado, sanciva, per i genitori con figli di età non superiore ai dodici anni o senza limiti di età ove si trattasse di figli con disabilità in situazione di gravità accertata, il diritto a fruire per un periodo continuativo o frazionato non superiore a quindici giorni di uno specifico congedo con riconoscimento di una indennità pari al 50 per cento della retribuzione e coperti da contribuzione figurativa o, in alternativa, la corresponsione di un bonus per l’acquisto di servizi di baby-sitting nel limite massimo complessivo di 600 euro, benefici poi riformulati dall’art. 72 del d.l. 34/2020 con estensione del congedo a trenta giorni e riproporziona mento del bonus a 1200 euro ed integrati dal riconoscimento del diritto per ciascun genitore del diritto di astenersi dal lavoro per tutto il periodo di sospensione dei servizi educativi per l’infanzia e delle attività didattiche nelle scuole di ogni ordine e grado, senza corresponsione di indennità e riconoscimento di contribuzione figurativa, con divieto di licenziamento e diritto alla conservazione del posto.
Si passa poi al disposto dell’art. 39 del medesimo d.l. n. 18/2020 che stabiliva per i lavoratori dipendenti che avessero nel proprio nucleo familiare una persona con disabilità in situazione di gravità accertata il diritto a svolgere la prestazione in modalità agile ove questa fosse compatibile, diritto ora esteso dall’art. 21 ter inserito nella legge di conversione del d.l. n. 104/2020 al 21 giugno del 2021 ribadita la compatibilità e con l’imposizione al datore dell’osservanza degli obblighi informativi di cui alla disciplina ordinaria dell’istituto, nonchè alle disposizioni di cui all’art. 104 del d.l. n. 34/2020 volto ad introdurre servizi di assistenza a supporto dei soggetti impegnati nella cura dei disabili e 105 dello stesso decreto mirato all’adozione di interventi di potenziamento dei centri estivi diurni, dei servizi socio educativi territoriali e dei centri con funzione educativa e ricreativa
destinati alle attività dei minori di età compresa tra zero e sedici anni e di progetti volti a contrastare la povertà educativa e ad incrementare le opportunità culturali ed educative dei minori e, da ultimo all’art 21 bis del d.l. n. 104/2020 che prevede il diritto all’impiego in modalità di lavoro agile o il congedo straordinario per i genitori durante il periodo di quarantena obbligatoria del figlio convivente per contati scolastici.
Ma ancor più rilevante nell’ottica di un ripensamento della posizione della donna nel mercato del lavoro e in generale nella società è, da un lato, l’unificazione delle sparse misure di sostegno alle famiglie nell’assegno unico per i figli di prossima introduzione e, dall’altro, l’istituzione, con l’art. 22 del d.l. n. 104/2020, del Fondo significativamente intitolato alla “formazione personale delle casalinghe e dei casalinghi” ma nel testo espressamente dedicato in via prioritaria alle donne, espressivo di un indirizzo legislativo volto a superare una concezione della donna condizionata dal suo ruolo familiare ed a stimolare, da parte delle stesse, opzioni esistenziali alternative e comunque forme di elevazione culturale da spendere nei percorsi di vita prescelti.
7. Il lavoro “sans phrase”
Da ultimo va evidenziata la tendenza alla omogeneizzazione dei regimi di tutela tra le varie tipologie di rapporto di lavoro che nell’attuale emergenza si manifesta in ragione della generalizzazione della domanda di sostegno del reddito conseguente al raffreddamento dell’economia che ha coinvolto tutte le categorie di produttori.
Ovviamente il fenomeno emerge sul terreno del welfare, avendo l’intervento pubblico di natura eminentemente assistenziale riguardato lavoratori estranei all’ambito tradizionale della tutela previdenziale tanto nell’area della subordinazione quanto nell’area dell’autonomia ed oltre fino a raggiungere i c.d. “invisibili”.
Rilevano da questo punto di vista il reddito di emergenza ed il reddito di ultima istanza ora rimodulati, il primo anche nell’importo che ha raggiunto i 1.000,00 euro, rispettivamente con gli artt. 23 e 13 del d.l. n. 104/2020.
Il primo, previsto dall’art. 82 del d.l. n. 34/2020, è riconosciuto, in favore di quei nuclei familiari che, in possesso cumulativamente, al momento della domanda, della residenza in Italia verificata con riferimento al componente richiedente, di un reddito familiare in ragione della composizione del nucleo stesso e della presenza in esso di un soggetto in condizioni di disabilità grave o non autosufficienza, tra i 400,00 e gli 840,00 euro, di un patrimonio mobiliare familiare che per le medesime ragioni sopra indicate può oscillare tra
i 10.000,00 ed i 25.000,00 euro, ed un valore dell’ISEE inferiore a 15.000,00, versino in condizioni di necessità economica in conseguenza dell’emergenza epidemiologica da COVID-19, quale reddito straordinario erogato dall’INPS in due quote dell’ammontare anch’esso compreso, sulla base degli stessi criteri richiamati per la determinazione del reddito familiare, tra i 400,00 e gli 840,00 euro, nell’ipotesi in cui i nuclei familiari medesimi non fruiscano di altra fonte di reddito per la presenza in essi di componenti che siano titolari di pensione diretta o indiretta, ad eccezione dell’assegno di invalidità, di un rapporto di lavoro dipendente implicante una retribuzione superiore all’ammontare della singola quota o percettori di reddito di cittadinanza o di misure aventi finalità analoghe ovvero, destinatari di qualcuna delle forme di sostegno al reddito già previste per la medesima causale.
Si tratta in sostanza della misura di sostegno mirata agli invisibili, ovvero a coloro che, per non risultare fruitori di un reddito derivante da un lavoro che non sia assolutamente precario o addirittura sommerso, non sono destinatari di alcuna delle misure di garanzia del reddito attivate dalla Stato in relazione all’emergenza epidemiologica.
Il secondo, già istituito dall’art. 44 del citato d.l. n. 18/2020 convertito nella l. n. 27/2020, in base alla novella che della predetta norma introduce nel “decreto rilancio” l’art. 78, viene ad essere rifinanziato al fine di consentire, in una con il già previsto riconoscimento della misura di sostegno al reddito destinata ai lavoratori dipendenti o autonomi che in conseguenza dell’emergenza epidemiologica da COVID-19 avessero cessato, ridotto o sospeso la loro attività o il loro rapporto di lavoro, quale misura residuale a fronte della ricorrenza dell’indicata causale, la corresponsione anche per i mesi di aprile e maggio 2020 della medesima indennità, sempre nei limiti dell’importo di spesa all’uopo aggiornato e secondo criteri di priorità e modalità di attribuzione, anche attinenti alla determinazione delle quote di spettanza, definiti con uno o più decreti del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, da adottare entro il termine esteso a sessanta giorni dalla data di emanazione del medesimo decreto rilancio per i professionisti iscritti agli enti di diritto privato di previdenza obbligatoria, espressamente sancendo l’incompatibilità della stessa con la titolarità di un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato o di una pensione.
E’ qui evidente l’intento del legislatore di estendere, sia pur in via eccezionale, la garanzia del reddito oltre l’area del lavoro subordinato, nei limiti, da valutarsi in sede amministrativa, tenuto conto delle risorse finanziarie disponibili, della comparabilità sul
piano reddituale della condizione di crisi che il lavoratore autonomo, rispetto a quello subordinato, attraversa, nel diverso ambito di mercato in cui opera.
Una impostazione questa che, per quanto necessitata in una prospettiva di contrasto al disagio sociale indotto dalla grave crisi economica, sembra avallare l’opzione di politica del diritto già precedentemente invalsa intesa all’estensione delle tutele tipiche del lavoro subordinato nella prospettiva di una assimilazione al ribasso di ogni forma di lavoro sul terreno indifferenziato della dipendenza economica.
Si tratta, tuttavia, di una opzione che va superata nella convinzione che, in coerenza con il disegno costituzionale, la garanzia della libertà e dignità del cittadino risieda nella promozione e nel sostegno di ogni peculiare forma ed applicazione del lavoro affinché assicuri una esistenza libera e dignitosa.