TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

Premessa
Trascorso oltre un anno dall’entrata in vigore della prima disciplina emergenziale, introduttiva del divieto di licenziamento per ragioni economiche (D.L. 17.3.2020, n. 18), via via confermato da tutti i provvedimenti successivi (D.L. 34-104-137-178/2020 e 41/2021) , il dibattito in ordine alla natura della natura del c.d. blocco dei licenziamenti si è andato a focalizzare sulle fattispecie che sono ricomprese nella fattispecie del G.M.O., rispetto alle quali la limitazione trova applicazione.
Il tenore letterale delle disposizioni in materia (dalla capofila, costituita dall’art. 46, D.L. 18/2020, all’ultima in ordine temporale, ed attualmente vigente, l’art. 8, comma 9, II° parte del D.L. 41/2021), infatti, richiama espressamente la nozione di giustificato motivo oggettivo, contenuta e prevista dall’art. 3, L. n. 604/1966.
In ragione dell’apparente ambito circoscritto, indotto dall’interpretazione letterale della norma in questione, hanno ingenerato un significativo dibattito due sentenze che hanno ritenuto applicabile il blocco dei licenziamenti, sia al recesso dal rapporto di lavoro dirigenziale , sia alla risoluzione del rapporto di lavoro disposta nei confronti del lavoratore divenuto inabile, questione, quest’ultima, oggetto del presente commento.
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La sentenza del Tribunale di Ravenna
Con la sentenza del 7.1.2021, il Tribunale di Ravenna ha ritenuto che in simile nozione e, quindi, nel divieto di licenziamento, debba rientrare anche l’ipotesi della sopravvenuta inidoneità allo svolgimento della mansione, in tutti i casi in cui, evidentemente, il lavoratore non possa essere adibito a mansioni equivalenti od inferiori compatibili con la nuova condizione fisica, impeditiva dello svolgimento delle attività dedotte nel contratto di assunzione.
La motivazione fondante il decisum può essere scissa in due argomentazioni di fondo: con la prima, il Giudice adìto ha qualificato la tipologia di recesso in esame in quella rientrante nel G.M.O.; con la seconda, invece, è andato a ricomprendere la medesima nel c.d. blocco dei licenziamenti, richiamando un complessivo dovere di protezione, derivante dalla condizione epidemiologica che, ancor più manifestamente, deve trovare applicazione nei confronti dei soggetti affetti da permanente inidoneità alla mansione di assunzione.
Nel dettaglio, i passi della sentenza sono così riassumibili:
- il licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta integra, per giurisprudenza e dottrina consolidate, un motivo oggettivo di licenziamento (categoria frammentaria che comprende tutto ciò che non è disciplinare) (pag. 3 della pronuncia);
- per tale licenziamento debbono valere le stesse ragioni di tutela economica e sociale che stanno alla base di tutte le altre ipotesi di licenziamento per G.M.O. che la normativa emergenziale ha inteso espressamente impedire (pag. 5 della pronuncia);
- anche per il licenziamento per inidoneità permanente alla mansione specifica la valutazione circa le sorti del rapporto di lavoro del soggetto interessato deve essere posticipata all’esito del superamento della crisi, al momento, cioè, in cui potrà esservi una attuale e concreta scelta, da parte del datore di lavoro, in punto di organizzazione e riorganizzazione aziendale e, quindi, in punto di “ripescaggio” del lavoratore.
In sostanza, il filo conduttore della sentenza pare essere quello della incidenza sulle scelte organizzative determinate dalla sopravvenuta inidoneità, da cui discende la valutazione della possibile e utile ricollocazione del lavoratore (c.d. repechage), valutazione che può essere ampiamente definita e determinata nel momento in cui può considerarsi pienamente riattivata la funzionalità aziendale (e, quindi, superato il periodo emergenziale) .
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La tutela del lavoratore divenuto inidoneo nell’ordinamento nazionale e sovranazionale.
La definizione della sopravvenuta inidoneità come presupposto legittimante il licenziamento per motivo economico, di stampo organizzativo, pare potersi desumere sia dalla complessiva normativa di settore, diretta alla tutela del lavoratore inabile o divenuto inidoneo, sia (come da espresso richiamo contenuto nella pronuncia in commento) dalla giurisprudenza formatasi in argomento.
La fattispecie del licenziamento per sopraggiunta inidoneità trova il suo presupposto e la sua fonte nella L. 68/1999:
- il datore di lavoro non può chiedere al disabile una prestazione non compatibile con le sue minorazioni” (art. 10, co. 2, I. n. 68 del 1999);
- nel caso di aggravamento delle condizioni di salute del soggetto assunto come invalido ai fini del collocamento obbligatorio, tale da porre problemi di compatibilità con la prosecuzione dell’attività lavorativa, “il disabile ha diritto alla sospensione non retribuita del rapporto di lavoro fino a che l’incompatibilità persista” e “il rapporto di lavoro può essere risolto nel caso in cui, anche attuando i possibili adattamenti dell’organizzazione del lavoro, la predetta commissione (ndr. La commissione integrata di cui all’art. 4 della I. n. 104 del 1992) accerti la definitiva impossibilità di reinserire il disabile all’interno dell’azienda” (art. 10, co. 3, I. n. 68 del 1999);
- l’infortunio o la malattia non costituiscono giustificato motivo di licenziamento nel caso in cui i lavoratori che siano divenuti inabili allo svolgimento delle proprie mansioni possano essere adibiti a mansioni equivalenti ovvero, in mancanza, a mansioni inferiori” (art. 4, co. 4, I. n. 68 del 1999).
Sulla medesima linea si colloca l’art. 42 del d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, in materia di tutela della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro, il quale, rimarcando il principio del c.d. repechage, prevede che il datore di lavoro, “ove le misure indicate dal medico competente prevedano una inidoneità alla mansione specifica, “adibisce il lavoratore, ove possibile, a mansioni equivalenti o, in difetto, a mansioni inferiori”.
Il contesto oggettivo del licenziamento, seppure per condizione ascrivibile al lavoratore, è ulteriormente confermato dal disposto del comma 7 dell’art. 18 della L. n 300 del 1970, come modificato dalla I. 28 giugno 2012 n. 92, il quale sancisce il diritto alla reintegrazione nel posto, nella forma attenuata contenuta nel comma 4 della disposizione, nella ipotesi di “difetto di giustificazione del licenziamento intimato, anche ai sensi degli articoli 4, comma 4, e 10, comma 3, della I. n. 68 del 1999, per motivo oggettivo consistente nell’inidoneità fisica o psichica del lavoratore” (si noti che il licenziamento intimato “per difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore” è assoggettato alla massima tutela dall’art. 2, d.lgs. 4 marzo 2015 n. 23, il quale, però, è confezionato in assenza del riferimento alla natura oggettiva della risoluzione).
Il lavoratore affetto da disabilità non deve essere destinatario di alcuna forma di discriminazione. Egli ha un espresso diritto al lavoro ed allo svolgimento di un’attività lavorativa compatibile con le sue condizioni di salute, come si desume dalla “Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità”, adottata il 13 dicembre 2006, ratificata e resa esecutiva dall’Italia con I. n. 18 del 2019, approvata a nome della Comunità europea con la decisione 2010/48/CE del Consiglio del 26 novembre 2009 (artt. 2 e 27).
Ed è proprio dall’art. 2 della Convenzione appena menzionata a determinare l’ambito ed il limite della ricollocazione (del repechage) che deve essere garantita al lavoratore non idoneo, o non più idoneo, allo svolgimento delle proprie mansioni, rispetto alla quale il datore deve verificare e porre in essere un accomodamento ragionevole, idoneo a consentire il corretto impiego del dipendente.
Una simile previsione è contemplata dall’art. 3, c. 3 bis, d.lgs. n. 216/2003, introdotto dal comma 4-ter dell’art. 9, decreto legge 28 giugno 2013, n. 76, nel testo integrato dalla legge di conversione 9 agosto 2013, n. 99, ai sensi del quale: “Al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della legge 3 marzo 2009, n. 18, nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori. I datori di lavoro pubblici devono provvedere all’attuazione del presente comma senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica e con le risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente”.
Dalle considerazioni che precedono è possibile desumere, da un lato, che la fattispecie in esame trova una espressa regolamentazione nella speciale disciplina di settore, potenzialmente estranea a quella di cui all’art. 3, L. n. 604/1966, dall’altro, che il licenziamento de quo, per poter essere irrogato, presuppone la preventiva valutazione della incollocabilità del lavoratore in mansioni anche diverse da quelle di inquadramento e, quindi, un giudizio di ambito organizzativo, successivo alla preventiva attuazione degli “accomodamenti ragionevoli” potenzialmente idonei a consentire il proficuo impego del lavoratore.
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La sopravvenuta inidoneità e il repechage condizionato agli accomodamenti ragionevoli
Da quanto detto emerge che la connotazione organizzativa e funzionale caratterizza indubbiamente la risoluzione del rapporto in esame, in termini, se si vuole, addirittura più pregnanti rispetto al GMO, se non fosse perché il quel caso il repechage non è vincolato all’obbligo di facere posto in capo al datore di lavoro di rendere compatibile la struttura funzionale alle esigenze del lavoratore (Cass. n. 34132 del 19.12.2019).
Infatti, nel caso della sopravvenuta inidoneità del lavoratore il repechage e, quindi, la ricollocazione del lavoratore dovrà essere valutata una volta che il datore di lavoro avrà verificato l’opportunità di apportare “le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo adottati, ove ve ne sia necessita in casi particolari, per garantire alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali” (Cass. 6497 del 9.3.2021).
Qualora ciò non sia possibile, si potrà procedere al licenziamento.
Pertanto, il repechage, e la corretta valutazione inerente alla possibile ricollocazione del lavoratore, conseguente alla sopravvenuta inidoneità divengono elementi costitutivi della legittimità del recesso (si richiama, in tema di GMO, Cass. 34133 del 19.12.2019).
Ciò ha portato la giurisprudenza a qualificare il recesso in discussione nella fattispecie del G.M.O. di licenziamento.
Esemplare, sul punto, Cass. n. 12373 (del 9.5.2019), secondo cui il principio generale, in tema di sopravvenuta inidoneità del lavoratore allo svolgimento delle mansioni assegnate, è quello del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, con diritto al termine e all’indennità di preavviso, ove il lavoratore possa essere astrattamente impiegato in mansioni diverse (sul punto, Cass. n. 18020 del 21.7.2017; così anche in materia di pubblico impiego contrattualizzato: Cass. n. 19774 del 4.10.2016).
Una simile struttura rende oggettivamente arduo sostenere che il licenziamento del lavoratore divenuto inidoneo allo svolgimento delle mansioni di assunzione non sia compreso nel c.d. blocco dei licenziamenti voluto dalla disciplina emergenziale.
Se una simile impostazione appare assorbire qualsiasi ulteriore disamina circa l’inquadramento della problematica, secondo il Tribunale di Ravenna una corretta e compiuta valutazione della possibile ricollocazione del lavoratore non può prescindere dall’esistenza di una condizione di ordinaria gestione dell’attività datoriale, la quale, attualmente, si trova compressa dalla condizione di crisi, impeditiva di una coerente valutazione delle scelte connesse con la potenziale utilizzazione della forza lavoro.
La conclusione appena delineata non trova applicazione nell’ipotesi in cui la prestazione sia divenuta totalmente e definitivamente impossibile, senza possibilità di svolgere mansioni alternative.
In tal caso, infatti, come più volte rimarcato dalla posizione assunta dalla Suprema Corte, dovrà ravvisarsi una giusta causa di risoluzione del rapporto, ex art. 2119 c.c., la cui prosecuzione diviene impossibile, pure provvisoriamente, in termini tale da rendere inapplicabile anche la fruizione, pure eventuale, del periodo di preavviso (Cass. n. 12373 del 9.5.2019).
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Fattispecie affini e la contaminazione della valutazione organizzativa su ipotesi di risoluzione diverse da quelle qualificate ai sensi dell’art. 3, L. n. 604/1966.
La pronuncia in commento merita attenzione in quanto, se da un lato, risulta vero che la sopravvenuta inidoneità è qualificata come GMO dalla giurisprudenza della Suprema Corte, dall’altra, seppure non ve ne sarebbe stata l’esigenza, attribuisce valenza dirimente alla natura organizzativa della scelta datoriale, ritenendola attualmente preclusa in ragione della condizione emergenziale.
Una simile considerazione, però, qualora ritenuta il presupposto fondante la sostanziale sovrapposizione tra fattispecie non direttamente comprese nell’art. 3, L. n. 604/1966, ma indirettamente assoggettate al medesimo regime della definizione del recesso, finisce per poter ingenerare una contaminazione di fattispecie nelle quali la valenza organizzativa della scelta datoriale finisce per essere dirimente.
Vi è una pluralità di fattispecie affini a quella esaminata dal Tribunale di Ravenna e nelle quali la ragione tecnica, organizzativa e produttiva, presupposto dell’eventuale risoluzione del rapporto di lavoro, dipende da una condizione (di natura non disciplinare) relativa al prestatore di lavoro rispetto alla quale è rimessa al datore di lavoro la valutazione circa l’utilità della persistenza del vincolo contrattuale e dell’eventuale prestazione lavorativa.
A) La carcerazione preventiva.
Nel momento in cui si dovesse ritenere dirimente, al fine di far rientrare una risoluzione del rapporto d lavoro, per motivo non disciplinare, nella fattispecie di cui all’art. 3, L. n. 604/1966, l’attualità e la concretezza della scelta datoriale, in ordine alla riorganizzazione aziendale ed al connesso proficuo utilizzo del lavoratore, una simile fattispecie non può che destare dubbi interpretativi ed applicativi.
La stessa, infatti, rischia di dover essere affrontata sulla scorta delle medesime conclusioni cui è pervenuto il Tribunale di Ravenna anche perchè, nuovamente, da un punto di vista strettamente formalistico, l’ipotesi in esame è stata affrontata dalla giurisprudenza con il richiamo al GMO di licenziamento.
In tal senso si è espressa Cass. n. 6714 (del 10.3.2021), secondo cui, in ipotesi di assenza dal lavoro per carcerazione preventiva, la persistenza o meno di un interesse rilevante a ricevere le ulteriori prestazioni deve essere parametrata alla stregua di criteri oggettivi, riconducibili a quelli fissati nell’ultima parte dell’art. 3 della legge n. 604 del 1966, e cioè con riferimento alle oggettive esigenze dell’impresa, da svolgere, però, con una valutazione ex ante, e non già ex post, in cui si tenga conto delle dimensioni dell’impresa, del tipo di organizzazione tecnico-produttiva, della natura ed importanza delle mansioni del dipendente, del già maturato periodo di sua assenza, della ragionevole prevedibilità di ulteriore durata dell’assenza, della possibilità (o meno) di affidare temporaneamente ad altri le mansioni senza necessità di nuove assunzioni e, più in generale, di ogni altra circostanza rilevante ai fini della determinazione della tollerabilità dell’assenza (Cass n. 19135 del 17.7.2016).
Ora, un simile assunto, nelle more dell’attuale condizione emergenziale, e della ratio sottesa al c.d. blocco dei licenziamenti, non può non essere interpretato, come del resto ha fatto il Tribunale di Ravenna, rispetto al caso della sopravvenuta inidoneità, considerando l’eventuale esistenza di una parziale attività di impresa, se non addirittura sospesa e, pertanto, l’inesistenza della concreta ed attuale esigenza imprenditoriale di predisporre una scelta diretta ad una diversa funzionalizzazione aziendale.
Vieppiù, in considerazione del fatto che rispetto all’ipotesi in esame è stata invocata l’applicazione dell’art. 1464 c.c., rispetto al quale, sempre la giurisprudenza di legittimità ha affermato che il dato normativo è chiaro nell’attribuire al datore di lavoro anche la facoltà di risolvere il rapporto di lavoro, facoltà consentita solo quando, sulla base di tutte le circostanze del caso concreto, non si possa prevedere (dunque necessariamente a livello di prognosi) la ripresa dell’attualità del rapporto senza significativi pregiudizi per l’organizzazione del datore di lavoro in relazione alla prevedibile durata dell’assenza (Cass. n. 1591 del 28.1.2004 ).
B) La perdita di un requisito soggettivo presupposto del corretto svolgimento della mansione.
Simile fattispecie si pone in termini affini alla precedente, costituendo una ipotesi di impossibilità relativa della prestazione che richiede, ex art. 1464 cod.civ., la manifestazione da parte del datore di lavoro di interesse alla prosecuzione del rapporto di lavoro da configurarsi quale licenziamento per giustificato motivo oggettivo, richiedente il preventivo esperimento del procedimento di conciliazione ai sensi dell’art. 7 della legge n. 604 del 1966 come novellato dall’art. 1, comma 40, della legge n. 92 del 2012.
In questo senso si è espressa Cass. n. 29104 (dell’11.11.2019), secondo cui, la sopravvenuta mancanza dei titoli abilitanti le mansioni non determina l’automatica risoluzione per la sopravvenuta impossibilità della prestazione, essendo necessario un atto di espressione di volontà da parte del datore di lavoro che configura, dunque, nell’ambito della disciplina speciale del diritto del lavoro, un licenziamento (ossia una fattispecie estintiva del rapporto di lavoro dipendente dalla volontà del datore di lavoro) per giustificato motivo oggettivo.
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C) Superamento del periodo di comporto
Come è noto, salvo il caso del recesso in tronco, sempre ammesso, il licenziamento del lavoratore in malattia, durante il periodo di comporto, od in ragione del suo superamento può integrare tre diverse ipotesi:
- il licenziamento è intimato per superamento del massimo periodo di conservazione del posto di lavoro che, però, non risulta avere ecceduto la durata massima prevista dal contratto collettivo. In questa ipotesi il licenziamento è qualificato come nullo, giusta la prospettazione fornita da Cass. SS.UU. n. 12568 del 12.5.2018.
- il licenziamento è intimato per giustificato motivo soggettivo od oggettivo durante la vigenza del periodo di comporto. L’efficacia del licenziamento viene sospeso fino alla cessazione del comporto o della malattia (Cass. n. 1777 del 28.1.2014);
- il licenziamento viene legittimamente irrogato alla scadenza del periodo di comporto, in applicazione del disposto di cui all’art. 2110, c. 2, c.c..
E’ questa l’ipotesi nella quale occorre chiedersi, ragionando sui presupposti evidenziati dal Tribunale di Ravenna, se sia invocabile, una riconducibilità della fattispecie alla ratio riorganizzativa e funzionale sottesa all’art. 3, L. n. 604/1966.
La risposta pare essere negativa.
Innanzitutto, è indubitabile che la fattispecie di cui si discute tragga il proprio presupposto da una disposizione normativa diversa dall’art. 3, L. n. 604/1966, come del resto confermato dalla sedimentata ed incontrastata giurisprudenza formatasi sul punto, secondo cui: “Il licenziamento per superamento del periodo di comporto costituisce una fattispecie autonoma di recesso, vale a dire una situazione di per sé idonea a consentirlo, diversa da quelle riconducibili ai concetti di giusta causa o giustificato motivo di cui all’art. 2119 cod. civ. ed agli artt. 1 e 3 della legge nr. 604 del 1966” (Cass. n. 19661 del 22.7.2019).
Ad avviso della giurisprudenza di legittimità, ancora, nell’art. 2110, comma 2, cod. civ. è possibile rinvenire un’astratta predeterminazione (legislativo-contrattuale) del punto di equilibrio fra l’interesse del lavoratore a disporre d’un congruo periodo di assenze per ristabilirsi a seguito di malattia od infortunio e quello del datore di lavoro di non doversi fare carico a tempo indefinito delle conseguenze che tali assenze cagionano all’organizzazione aziendale.
Pertanto, come affermato sempre da Cass. n. 19661/2019, l’intimazione del recesso in discussione prescinde completamente dalla valutazione degli effetti della prolungata assenza sulla corretta funzionalità aziendale, dal momento che “per dare luogo al licenziamento (non) si richiede un’accertata incompatibilità fra tali prolungate assenze e l’assetto organizzativo o tecnico-produttivo dell’impresa, ben potendosi intimare il licenziamento per superamento del periodo di comporto pur ove, in concreto, il rientro del lavoratore possa avvenire senza ripercussioni negative sugli equilibri aziendali”.
A ciò si aggiunga che, nella fattispecie in esame, a differenza di quella della sopravvenuta inidoneità, oggetto della sentenza in commento e, più in generale, a differenza del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, non si prevede un obbligo di preventiva verifica circa la ricollocabilità del lavoratore nel contesto organizzativo datoriale, bensì solamente una facoltà rimessa alla libera valutazione imprenditoriale.
In questa direzione si è espressa Cass. n. 17243 del 17.8.2016, ai sensi della quale in tema di licenziamento per superamento del periodo di comporto per malattia del lavoratore, fermo restando il potere datoriale di recedere non appena terminato il periodo suddetto e, quindi, anche prima del rientro del prestatore, nondimeno il datore di lavoro ha altresì la facoltà di attendere tale rientro per sperimentare in concreto se residuino o meno margini di riutilizzo del dipendente all’interno dell’assetto organizzativo, se del caso mutato, dell’azienda.

 

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