È innanzitutto d’obbligo una domanda sulla tua formazione culturale, sugli studi universitari, sulle prime esperienze in materia giuridica e sulle frequentazioni accademiche. In particolare non posso fare a meno di chiederti perché hai deciso di occuparti del Diritto del lavoro e chi consideri i tuoi maestri (scegli gli aspetti che ti piace ricordare).
Mi sono laureato in Giurisprudenza nel 1957 presso l’Università di Palermo. La scelta della Facoltà non era stata determinata da una tradizione di famiglia ma dalla mia intenzione di approfondire le materie giuridiche come specchio dei rapporti sociali e della loro evoluzione. Allo scopo di approfondire il contenuto delle materie di esame, al di là dei manuali universitari consigliati ho fatto ricorso ad alcune letture. In particolare ho approfondito da subito il diritto civile attraverso le Istituzioni di Diritto Privato De Ruggero-Maroi e soprattutto il Negozio giuridico di Emilio Betti opera che è rimasta per me indimenticabile, insieme poi alla Teoria generale delle obbligazioni dello stesso autore; sul versante del diritto pubblico penso alle Istituzioni di Costantino Mortati e ancora sul versante storico alla Storia del diritto italiano di Pietro Bonfante.
In questo lavoro di autodidatta – allora la facoltà palermitana vedeva pochissime lezioni essendo i professori con alcune eccezioni, molto spesso assenti – ho incontrato il diritto del lavoro che mi attrasse subito per il suo particolare interesse politico e sociale in armonia con le mie idee politiche fin da allora di sinistra moderata (o come si direbbe ora riformista). Inoltre era una parte dell’ordinamento vistosamente lacunosa in quel primo periodo, come si diceva, post-corporativo. Per questo ho studiato con attenzione Il Diritto del Lavoro di Luisa Riva Sanseverino, l’unico manuale che mi sembrò allora ricco di informazioni sulla legislazione vigente.
Eri uno studente bravo?
Devo riconoscere che la mia carriera di studente fu soddisfacente. Conseguii una votazione di 30 o 30 e lode in tutte le materie e alla fine decisi di laurearmi in diritto del lavoro con il titolare della materia, professor Vincenzo Sinagra. Fu lui che mi indicò il tema della tesi I licenziamenti nella disciplina interconfederale del settore dell’industria e mi indicò quale lettura di riferimento il saggio di Gino Giugni che portava lo stesso titolo, pubblicato se non ricordo male uno o due anni prima della discussione della mia tesi, conclusasi con la votazione di 110 e lode. Penso che sia stato un caso o se si vuole una coincidenza premonitrice della mia successiva amicizia e collaborazione scientifica con lo stesso Giugni.
Com’è che da Palermo sei approdato a Roma?
Gli anni della laurea coincisero con un periodo complicato della mia vita personale e familiare. La mia famiglia in quegli anni si trasferiva da Palermo a Napoli e in quella occasione io preferii spostarmi a Roma e sono molto grato a mio padre per avere favorito e sostenuto anche economicamente il mio trasferimento. A Roma ho cercato lavoro non solo per mantenermi ma anche per approfondire gli studi di diritto del lavoro dai quali continuavo ad essere attratto. Per questa ragione riuscii ad avvicinarmi agli uffici sindacali dell’IRI e della Finmeccanica. Preferii l’IRI dove fui assunto all’inizio del 1961: lì incontrai Gino Giugni il quale era il super consulente addetto al settore studi della Direzione Problemi del Lavoro e che cercava un collaboratore, dovendo, in prospettiva, lasciare il suo impiego a tempo pieno per dedicarsi all’insegnamento.
In quel periodo, però, anche tu incominciasti a frequentare la Sapienza.
Incominciai a frequentare la Scuola di Specializzazione in Diritto del Lavoro, dove conobbi Giuseppe Suppjei e Mattia Persiani che erano tra i docenti; tra gli altri professori ricordo in particolare le bellissime lezioni sulla teoria del diritto sindacale di W. Cesarini Sforza. Seguì, nel 1963, la mia nomina ad assistente volontario presso la facoltà di Economia e Commercio, dove l’insegnamento era tenuto per incarico da Lionello Levi-Sandri grande specialista di previdenza sociale ma quasi subito dopo nominato Commissario Europeo, e dove l’anno successivo al mio ingresso arrivò come titolare della cattedra Ubaldo Prosperetti.
Come furono i tuoi rapporti con lui?
Prosperetti fu subito molto disponibile ed amichevole nei miei confronti. In tutti gli anni successivi, fino alla prematura scomparsa nel 1976, lui ha costantemente seguito la mia carriera universitaria e posso considerarlo, per questo, il mio primo maestro. Devo a lui l’apertura agli orizzonti del diritto pubblico e ai suoi sviluppi anche verso la disciplina lavoristica.
Negli stessi anni avevo cominciato a scrivere i miei primi articoli e note a sentenza e la prima rivista importante che mi si aprì fu la Rivista Giuridica del Lavoro, espressione della CGIL, e diretta da Aurelio Becca. Ma al di là di questi eventi particolari devo dire che il mio periodo formativo fu influenzato soprattutto dal lavoro all’IRI e dalla guida non solo professionale e lavorativa di Giugni, diventato subito maestro e amico fraterno. Gino era già un intellettuale di spiccata rilevanza nel mondo delle scienze sociali, oltre che un giurista importante al quale devo molti insegnamenti di metodo. Uno su tutti: che la ricerca giuridica non deve essere esclusivamente dogmatica ma deve comprendere l’analisi dei fenomeni sociali.
Chi altro ha influito sulla tua formazione?
Oltre a Giugni, non posso dimenticare la mia esperienza all’IRI con gli insegnamenti di Giuseppe Glisenti, in quel periodo Direttore per i problemi del lavoro, cattolico di sinistra, (era stato se non erro, Direttore della rivista Cronache Sociali, fondata da Giuseppe Dossetti). A lui devo essere riconoscente per avermi messo in contatto dall’interno con il mondo aziendale e delle relazioni sindacali. Non va dimenticato che gli anni tra il 1961 e il 1966 sono stati decisivi per la trasformazione della società italiana e per l’evoluzione delle relazioni industriali. In questo periodo si afferma progressivamente il sistema della contrattazione collettiva articolata. Io stesso, sia pure nella posizione di semplice consulente, ho partecipato a questi avvenimenti e ne ho tratto spunto anche per alcuni studi dottrinali (ad esempio il contributo sulla cassa integrazione agli operai dell’industria).
Hai attinto da molte fonti, ma alla fine hai governato tu la tua rotta.
Sì, in questo senso posso definirmi un autodidatta; oltre che un eclettico come studioso. E ritenermi fortunato per avere beneficiato di una pluralità di maestri accademici e non accademici. Frutto della collaborazione con l’ISPE (istituto per la programmazione economica); cito qui il mio saggio Linee di tendenza della contrattazione sindacale 1967/1971.
La tua collocazione accademica è intimamente legata alla scuola barese e al tuo sodalizio con Gino Giugni. Puoi dirci com’è nato questo rapporto, come si è consolidato e più in generale come è andata formandosi la mitica scuola barese?
Come ho detto, il mio sodalizio con Gino Giugni è anteriore alla stessa formazione di quella che tu definisci la “mitica scuola barese”. Questa è nata dalla chiamata di Giugni all’Università di Bari, mi pare dal 1962-63, e dalla successiva vittoria al concorso a cattedra presso la Facoltà di Giurisprudenza barese. La mia partecipazione alla brillante attività scientifica svolta da Giugni è una conseguenza della sua presenza in quella facoltà. Infatti nel 1965 io avevo conseguito la libera docenza in diritto del lavoro (Presidente della Commissione era Francesco Santoro Passarelli) e fu Giugni, da poco titolare della cattedra barese, a volermi come professore incaricato presso il Corso di Laurea in Scienze Politiche. Ricordo che fu decisivo l’apporto di Gustavo Minervini al quale Gino volle sottoporre i miei scritti. Con Minervini si è poi consolidato un legame di gratitudine ed amicizia sino ed oltre la mia chiamata a Giurisprudenza nella Sapienza romana.
Immagino che l’attenzione dei lettori sia attratta principalmente dalla frequentazione di Gino Giugni, ma penso sia altrettanto importante che tu ci racconti dei rapporti con i tuoi amici e colleghi tra cui in particolare Giovanni Garofalo di cui personalmente conservo un ricordo dolcissimo.
Ricordo che presi servizio a Bari il 1° novembre 1966 e nello stesso anno 1966-67 conobbi gli allievi di Giugni, a cominciare da Gaetano Veneto e poi Bruno Veneziani e Maria Luisa De Cristofaro, mentre Gianni Garofalo e Franco Liso si erano laureati, se non ricordo male, nell’anno precedente.
Erano tutti studiosi capaci di impegno scientifico e didattico. Negli anni successivi la scuola barese si arricchiva di altri nomi con i quali anche io ho avuto rapporti scientifici e personali assai forti. Ricordo in particolare Umberto Carabelli, Lauralba Bellardi e Roberta Bortone. Tutti sono stati compartecipi di un lavoro di ricerca non soltanto individuale: penso all’ambizioso progetto di ricerca sulle fonti extralegislative del diritto del lavoro nella cui preparazione e ideazione sono stato personalmente coinvolto e che ha qualificato soprattutto nel metodo gli apporti scientifici della scuola barese. Il metodo era quello empirico: il rapporto di lavoro e le relazioni sindacali si riguardavano nella concretezza del loro essere e qualche volta non solo sui libri ma direttamente. Ricordo in particolare il viaggio di tutta la scuola allo stabilimento Olivetti di Ivrea, allora governata dal mitico Adriano, accompagnando i nostri studenti a conoscere le catene di montaggio (sotto la guida di Luciano Gallino) o ancora l’esperienza e i dibattiti seguiti alla visita allo stabilimento Fiat di Mirafiori.
A tuo avviso la scuola barese, che ha sempre dato l’idea di un gruppo solido fortemente aggregato, anche sul piano della ricerca, conserva ancora una precisa identità organizzativa e scientifica pur nelle traversie non esaltanti dell’Università italiana ove i vari gruppi accademici sembrano più interessati ad occupare postazioni che a sviluppare una seria ricerca di qualità?
Gino Giugni era uno straordinario catalizzatore di ingegni e relazioni scientifiche delle quali ho anche io, in misura diversa, fruito: penso alla scuola bolognese e specialmente a Federico Mancini e a Umberto Romagnoli entrambi amici carissimi.
Negli stessi anni vennero alla luce i contributi della scuola barese di maggior rilievo di Liso, Veneziani, Gianni Garofalo e poi nel tempo Carabelli. Riprova di una fecondità che si protrae fino ad oggi con autori ben noti (tra quelli a me più vicini mi piace citare, Domenico Garofalo e Maurizio Ricci).
Ma al di là dei singoli temi trattati dai diversi autori è indubbio che la scuola barese si caratterizza da un lato per la sua collocazione politica “a sinistra” e dall’altro per la sua frequente attenzione al diritto comparato dove ha dominato lo stesso Giugni e poi è emersa la personalità scientifica di Silvana Sciarra.
Immagino che sia maturata nel clima barese l’idea di un Manuale di Diritto del lavoro, che poi si è integrato sinergicamente con il “Diritto sindacale” di Giugni, al punto da costituire un’abbinata vincente di grande successo sul piano didattico e scientifico, che resiste tuttora nonostante la proliferazione di manuali personalistici spesso improvvisati e frettolosi. Quale è secondo te il motivo del successo sincronico dei due manuali, benché così diversi nel metodo e nell’impostazione?
Per quanto mi riguarda è certo che nel clima barese ho avuto modo di maturare non poche idee e tra queste il progetto di un innovativo manuale di diritto del lavoro iniziato brillantemente con il Diritto sindacale di Gino Giugni, del 1964, continuato con il mio Diritto del lavoro, del 1966, dedicato al rapporto individuale e al mercato del lavoro. Due libri che – come tu stesso suggerisci – sono stati concepiti come due parti di una stessa opera. Certo si tratta di due opere diverse nell’impostazione ma meno di quanto può sembrare; andrebbe tenuto conto, infatti, del comune approccio realistico pur nel riconoscimento della prevalenza della fonte legislativa nel diritto “individuale” del lavoro; una caratteristica che è rimasta ed anzi accentuata nei due ultimi decenni che hanno visto recedere l’accorpamento tra legge e contratto collettivo avvenuto per effetto dello Statuto dei lavoratori.
Per quanto più direttamente mi incuriosisce, come hai vissuto l’esperienza accademica napoletana nella Facoltà di Giurisprudenza della Federico II, se non sbaglio dal 1974 al 1981, dove sei arrivato in un clima di diffidenza, perché sembrava dovesse essere chiamato Luciano Spagnuolo Vigorita, che rimase molto irritato per questa mancata designazione, tant’è che dopo qualche tempo sarebbe emigrato nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Milano. Eppure ti sei fatto subito apprezzare per disponibilità umana e impegno accademico; anche, e non è poco, da parte degli studenti, stabilendo rapporti di amicizia rimasti granitici nel tempo: penso in particolare al rapporto speciale con Mario Rusciano. Rapporti che poi hanno favorito una costante solidarietà accademica, rivelatasi molto producente per entrambe le scuole nelle periodiche tornate concorsuali.
Sulla mia esperienza accademica napoletana dal 1974 al 1981 non posso che confermare quanto tu dici: vi arrivai in un clima se non proprio di diffidenza sicuramente di sorpresa. Questo anche se ho avuto l’avallo di maestri autorevoli, come Renato Scognamiglio e l’unanimità di voto della facoltà. È anche vero però che tra gli specialisti di diritto del lavoro mi sono trovato subito in un ambiente eterogeneo, ma in buona parte disponibile alla solidarietà accademica. Disponibilità che per la verità ho ricambiato anche con fruttuosi risultati concorsuali nel 1975 e nel 1980. Per me è rimasto soprattutto speciale il rapporto di amicizia con Mario Rusciano, Francesco Santoni, Raffele De Luca Tamajo e, se mi permetti, nei tuoi confronti. Osservo infine che la “emigrazione” di Spagnuolo Vigorita a Milano è successiva alla sua chiamata nella facoltà napoletana; chiamata che io stesso avevo appoggiato senza riserve.
La tua attività scientifica ha spaziato sulle principali tematiche del Diritto del lavoro con interventi illuminanti nelle aree più magmatiche della materia, lasciando emergere così un grande ecclettismo tematico mai disgiunto da un forte rigore metodologico. Costituisce ancora un modello di riferimento la tua monografia su Collocamento e autonomia privata, dove si ritrova un’esemplare ricostruzione dell’attività pubblica di intermediazione nella fase antecedente a quella di costituzione del rapporto di lavoro. È un testo che se da una parte rivela una grande conoscenza della dogmatica civilistica, lascia trasparire altresì una naturale inclinazione ad approfondire gli istituti del diritto amministrativo, che sarà poi una costante di alcuni significativi scritti di diritto amministrativo del lavoro, se così si può dire. Com’è nata la scelta di quel tema e/o chi lo aveva suggerito?
Venendo alla mia attività scientifica è vero che essa si è indirizzata a una pluralità di temi e che ho cercato di osservare costantemente il rigore sistematico il più possibile omogeneo. Quanto ai contenuti è vero però anche che ho riservato una attenzione particolare al mercato del lavoro e alle sue connessioni con le vicende del rapporto. Mi sono così interessato – primo o quasi – all’istituto della cassa integrazione guadagni, nel 1965, e poi al collocamento, istituto trattato in precedenza soltanto (o quasi) dai corporativisti. Con la monografia Collocamento ed autonomia privata, del 1970, il mio proposito era di indagare – ancora una volta nella realtà effettuale – il collegamento tra l’attività pubblica di intermediazione tra offerta e domanda di lavoro e il rapporto di individuale di avviamento al posto di lavoro e in sostanza la libertà di scelta del datore nelle assunzioni.
È vero che su questo ultimo punto la trattazione fu da subito sopravanzata dall’intervento del legislatore nello stesso 1970 con gli articoli 33 e 34 dello Statuto dei Lavoratori, che sopprimevano, salvo casi eccezionali, quella facoltà di scelta (facoltà o libertà che poi, era solo nella prassi visto che la legge imponeva la richiesta numerica). Di qui la parziale inattualità del mio libro. Ma direi che questa è acqua passata tenuto conto della ormai consolidata abrogazione del regime di monopolio statale del collocamento. Quanto alla scelta del tema non ho avuto alcun suggeritore. Si trattava di un tema caldo nella pratica sindacale ed aziendale. La mia idea è stata quella di intervenire in un’area nevralgica del diritto del lavoro perché, come è sempre più evidente, il tema dell’accesso all’occupazione non è meno importante di quello – dominante invece da molti decenni – del licenziamento e dei rimedi avverso lo stesso. Ricordo in argomento, un decennio dopo, il libro di Ichino, Il collocamento impossibile, che avrebbe indicato la direzione di una riforma radicale dell’istituto.
A questo proposito, poiché hai studiato analiticamente a più riprese l’istituto del collocamento nel quadro delle riforme delle politiche attive del lavoro, cosa pensi della drastica abrogazione dell’istituto intervenuta anche per effetto della “europeizzazione” della legislazione italiana? Si può pensare che la demolizione del sistema di collocamento pubblico, che pure aveva una rilevante valenza giuridico-istituzionale, abbia rappresentato il primo segnale di qualche consistenza della eterogenesi funzionale del diritto del lavoro con il passaggio da una stagione di garantismo rigido e unidirezionale, a una fase riflessiva di valenza compromissoria contraddistinta da una forte instabilità legislativa (testi normativi continuamente montati e rimontati) che sottende la volontà di contemperare interessi poliedrici spesso antagonistici? In altri termini, è corretto pensare che l’abolizione di un sistema pubblico di controllo dei flussi occupazionali, che peraltro era stato irrigidito dallo Statuto dei lavoratori, costituisca il segno più vistoso della svolta della legislazione del lavoro che iniziava così a imboccare la stagione della flessibilità – preceduta non per caso da quella dell’emergenza – e accentuava la connotazione della legislazione del lavoro come diritto di mediazione tra esigenze della produzione e quelle del lavoro?
Sono, non certo da ora, favorevole all’abrogazione del monopolio pubblico nella gestione dell’incontro tra offerta e domanda di lavoro, nell’ambito di quella che tu definisci “europeizzazione” del nostro diritto del lavoro. Ma non direi che questo sia il tratto saliente dell’evoluzione o meglio del passaggio dal cosiddetto garantismo rigido al garantismo flessibile. Certo – ma questo è tuttora in discussione – sarebbe stato necessario un disegno delle politiche attive tale da accompagnare l’attività delle agenzie di somministrazione con una organica disciplina degli ammortizzatori sociali. Si è invece preferito, dalla legge Biagi in poi, promuovere la proliferazione di una pluralità di modelli contrattuali di lavoro temporaneo e parziale che da sola non basta ad assicurare una vera flessibilità dell’occupazione. Se dunque la tendenza alla flessibilità delle garanzie dell’occupazione mi sembra irreversibile, resta tuttavia da trovare il giusto equilibrio tra flessibilità delle tutele del lavoratore ed esigenze della organizzazione aziendale. È il problema, tuttora irrisolto, della disciplina dei licenziamenti economici. Mi lasciano perplesso invece i tentativi di delineare un modello generale di diritto del lavoro globalizzato.
Tra le tue pubblicazioni non potevano evidentemente mancare quelle sul contratto di lavoro subordinato, tema sul quale si registrano molteplici interventi almeno in parte, e nei tratti più significativi, rifluiti nei periodici aggiornamenti del manuale. Ricordo che nel 2006 è stata pubblicata una raccolta di saggi sulla subordinazione e il lavoro flessibile, tematiche in seguito continuamente monitorate negli anni successivi. Ho sempre pensato che la tua ricostruzione del contratto di lavoro subordinato fosse una di quelle più lineari, che riusciva a integrare la nozione codicistica della subordinazione tecnico-funzionale, come assoggettamento volontario ai poteri gerarchici di impresa, con la subordinazione intesa come status di sotto-protezione sociale che costituisce il movente dominante dell’intervento protettivo.
Com’è naturale, alla base del mio tentativo di delineare un manuale didattico-scientifico sul rapporto di lavoro subordinato non poteva non esserci la riflessione sulla nozione fondamentale della subordinazione. Le successive edizioni dell’opera sono segnate quasi sempre da modifiche su questo tema: modifiche dovute sia ad aggiornamenti giurisprudenziali e legislativi (quest’ultimi evidentemente presenti nelle leggi del nuovo millennio) sia ad approfondimenti e persino mutamenti di pensiero. Questi ultimi sono stati certamente sollecitati dal dibattito sulla subordinazione che si è avuto nella dottrina a partire dagli anni ’80 e che sembra essere focalizzato fino a questi ultimi mesi, sulla figura dei c.d. riders.
Nella tua ricostruzione un peso qualificante assume l’“obbligo di collaborazione” del prestatore di lavoro “alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore”. È questo un requisito che viene spesso negletto dall’elaborazione giurisprudenziale (e anche da quella dottrinale), e che invece nella tua ricostruzione consente di risalire all’essenza della subordinazione, vale a dire a un requisito che precede e contraddistingue le modalità di assoggettamento ai poteri di gestione dell’impresa. Ritieni che questa costruzione sia ancora attuale alla luce delle profonde trasformazioni del sistema produttivo e di nuove forme di organizzazione della produzione? In altri termini, la fattispecie codicistica è ancora in grado di regolare i processi di utilizzazione della manodopera nell’ambito di società complesse e fluide, come quelle attuali, soggette a continui processi di trasformazione e di riorganizzazione?
La mia posizione su questo punto si è evoluta ma senza, credo, abbandonare la visione di base. La subordinazione resta effetto essenziale del contratto di lavoro come obbligazione del prestatore al potere direttivo e gerarchico dell’imprenditore. Ma questa nozione, corrispondente alla fattispecie codicistica, è distinta dalla situazione o status di sottoprotezione sociale che è la “ratio” delle tutele inderogabili e ancor più dei diritti sociali del lavoratore non solo come contraente debole ma anche come cittadino. Sono due nozioni da tenere distinte contrariamente a quanto avviene nella giurisprudenza e in molta parte della dottrina che tendono a sovrapporre la seconda sulla prima. Questa che precede è una sintesi assertiva che, chiaramente, deve essere argomentata come ho cercato di fare in una pluralità di scritti che si sono succeduti anche negli ultimi anni della mia attività scientifica raccolti e completati nel mio Il nuovo diritto del lavoro (2005). Ritengo in conclusione che questa bivalenza della subordinazione come obbligazione e nello stesso tempo situazione o posizione del lavoratore possa essere inoltre utile per la comprensione del rapporto tra diritto del lavoro e stato sociale.
Che pensi della tendenza espansiva della legislazione del lavoro, particolarmente accentuata negli ultimi tempi che, da una parte, investe le nuove modalità lavorative favorite da innovative tecnologie informatiche e digitali, da un’altra parte sembra volere travolgere la distinzione dicotomica tra lavoro subordinato e lavoro autonomo spostando sempre più avanti la linea di protezione? Questo processo può suggerire un totale ripensamento della categoria o fattispecie che dir si voglia quale effetto inevitabile derivante dalla dilatazione della portata soggettiva della stessa e, in qualche modo di riflesso, anche della minore intensità delle forme di tutela?
Quanto ho appena detto può valere anche per ciò che attiene alla c.d. tendenza espansiva del diritto del lavoro oltre l’area del lavoro subordinato. È una tendenza questa risalente nel tempo ma che presenta oggi aspetti di novità importanti. Mi pare di poter dire che la dicotomia autonomia-subordinazione pur restando valida per quanto attiene alla ripartizione del rischio della possibilità o impossibilità della prestazione all’interno del contratto di lavoro non può essere considerata altrettanto valida come linea di demarcazione tra garantismo e liberismo nella estensione e nella ripartizione delle tutele del lavoratore. Del resto il tema è antico; si va dalle co.co.co. di quasi un secolo fa alle contemporanee piattaforme digitali. Mi sembra quindi che il compito attuale del diritto del lavoro sia – ma è un discorso, il mio, ancora rozzo e provvisorio – di ricomprendere in sé forme ed istituti di tutela anche del lavoro autonomo. Ciò che ha evidenti riflessi sulla nozione stessa della inderogabilità delle norme lavoristiche.
Nella tua ampia produzione scientifica tra i temi trattati un posto non secondario hanno gli studi sull’impiego pubblico. Se ben ricordo te ne sei occupato particolarmente nel periodo napoletano seguendo le prime fasi del processo di privatizzazione/contrattualizzazione, per poi ritornare sul tema nelle successive e periodiche riforme. Sarebbe auspicabile una ri-pubblicizzazione dell’intera materia visto che l’equilibrio tra potere politico di indirizzo e quello manageriale di gestione si è rivelato di confusa realizzazione e ha dato risultati poco apprezzabili? Potrebbero le nuove tecnologie informatiche dare una scossa alle modalità organizzative del lavoro pubblico, segnatamente attraverso forme più dinamiche di organizzazione, come ad esempio il lavoro agile o lo smart working, che potrebbero indurre a rimeditare la funzione della dirigenza pubblica, che appare sempre più arroccata nella difesa dei suoi privilegi, ed anche quella del sindacato che sembra assuefatto a comportamenti ritualistici in parte anacronistici (penso ad esempio allo sciopero indetto per il 9 dicembre in piena pandemia senza alcuna consapevolezza della condizione privilegiata in cui si trovano in questa congiuntura i dipendenti pubblici)
Il mio interesse per l’impiego pubblico – hai ragione – è antico. Per la verità il mio primo libro destinato agli studenti ma non solo, risale al periodo barese (anche se il volume Il pubblico impiego è edito nel 1975 quando ero già trasferito a Napoli). Successivamente la mia attenzione si è sviluppata attraverso diversi saggi soprattutto per quanto attiene alla contrattazione collettiva.
Ti sei occupato attivamente anche della legislazione sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali che hai poi potuto seguire nella fase applicativa avendo fatto parte della Commissione di garanzia.
La mia presenza nella Commissione di garanzia dal 1990 al 1996 è stata originata dalla partecipazione insieme ad altri giuristi e sindacalisti alla preparazione del nuovo testo di legge emanato poi nel 1990. Ma devo ricordare anche il mio precedente contributo monografico Considerazioni sulla giurisprudenza in tema di sciopero, del 1970, nel quale si evidenziava l’essenza e la natura esclusivamente giurisprudenziale delle limitazioni al diritto o potere collettivo attribuito dalla norma costituzionale anche per ciò che concerne i servizi pubblici. Infatti la legge del 1990 ha cercato di trascrivere e armonizzare le sentenze della Corte Costituzionale in materia.
Che ne pensi nel complesso dell’esperienza che hai compiuto nella Commissione di Garanzia? Questo organo ha dato almeno in parte i risultati auspicati, oppure, come pensano in molti, ha solo favorito un ampio rivendicazionismo di marca corporativa senza riuscire ad incidere sui nodi storici dell’amministrazione in Italia?
La legge n. 146 del 1990 è stata certamente una grande innovazione perché ha rotto il tabù della intangibilità del diritto di sciopero da parte del legislatore e ha sicuramente contribuito alla mitigazione delle modalità dello sciopero nei servizi pubblici. Più articolato deve essere invece il giudizio sugli effetti e le lacune della L. n. 146 e della successiva L. n. 83 del 2000. È vero infatti che in alcuni settori sensibili, penso come è ovvio ai trasporti, ha avuto un effetto moltiplicatore del ricorso allo sciopero di una pluralità indefinita di organizzazioni sindacali e quindi di una frammentazione all’estremo della rappresentanza sindacale. A mio giudizio le leggi del 1990 e del 2000 sono state delle incompiute perché l’apparato decisionale e sanzionatorio ivi previsto, è limitato alle modalità procedurali dell’astensione al lavoro e non tocca mai le cause del conflitto sottostanti. In mancanza di ciò la Commissione rimane un organo a mio avviso insufficiente, debilitato.
È auspicabile dunque che il problema sia affrontato nel quadro di una revisione legislativa quanto meno per l’intero settore dei pubblici servizi della materia dell’attività sindacale in particolare giungendo ad una delimitazione del sindacato e dei suoi poteri di rappresentanza e di rivendicazione. Ma è chiaro che simili obiettivi non sono di facile raggiungimento.
In varie occasioni ti sei interessato anche della previdenza o sicurezza sociale con interventi che hanno lasciato il segno, in particolare in materia di integrazioni salariali e delle varie forme di previdenza integrativa e/o complementare. A suo tempo mi ha colpito la polemica con Mattia Persiani in occasione della ristampa della monografia su Il sistema giuridico della previdenza sociale, avvenuta nel 2010 (dopo cinquant’anni), preceduta da un ampio saggio introduttivo dell’Autore su cui si appuntano le tue osservazioni critiche non prive di una certa ironia. Il tono è apparentemente elogiativo ma in realtà non riesce a nascondere un atteggiamento decisamente caustico. La critica principale è radicale e integralmente demolitiva, e cioè quella di inattualità o scarsa lungimiranza del lavoro monografico, perché si riferisce a una realtà molto diversa da quella che si sarebbe registrata cinquant’anni dopo, vale a dire a una realtà in cui la legislazione previdenziale non si era ancora dovuta confrontare con un catastrofico debito pubblico e con l’allargamento della platea dei soggetti coinvolti, nonché con l’introduzione di nuove e più intense forme di protezione previdenziale di carattere tendenzialmente universalistico, come quelle che hanno riguardato la protezione dei redditi nelle cicliche congiunture produttive ovvero, sotto altro profilo, le nuove forme di previdenza privata, destinate a compensare la regressione dello Stato sociale. V’è anche una velata accusa di settarismo per avere l’illustre Autore individuato soltanto due scuole previdenzialistiche, quella maceratese, in qualche modo svalutata, e quella romana, invece esaltata, così ignorando importanti contributi scientifici di Autori “semi-previdenzialistici”, specie se appartenenti alle nuove generazioni. Puoi dirci quale è la matrice reale di questo dissenso, che farebbe pensare a rapporti non propriamente idilliaci all’interno della Facoltà di Giurisprudenza di Roma?
Come tu ricordi ho avuto anche alcune occasioni di toccare la materia della previdenza e/o sicurezza sociale. Tra l’altro ho contribuito al III volume del Trattato di diritto del lavoro di Giuliano Mazzoni e Luisa Riva Sanseverino con la trattazione dei Forme speciali di previdenza. Tuttavia tu ricordi soltanto la recensione della monografia Il sistema giuridico della previdenza sociale di Mattia Persiani, in occasione della ristampa nel 2010. In quella mia recensione non c’è stato un intento polemico per quanto attiene al merito della monografia, che resta un’opera classica. Per il resto l’obiettivo della recensione era una messa a punto e una sottolineatura della distanza tra l’opera originaria dell’autore (1960) e la successiva polemica riconsiderazione della posteriore letteratura in materia. Questo senza la dovuta presa d’atto della radicale trasformazione del sistema previdenziale ormai basato sul rapporto del finanziamento pubblico e non su quello parafiscale tra contribuzione e prestazioni come era nel pensiero originario dell’Autore.
Quanto ai miei rapporti accademici personali con l’amico e collega Persiani, posso dire soltanto che i rapporti accademici sono per loro natura suscettibili di variazioni: non c’è mai nulla di definitivo, né nelle concordanze né nei contrasti.
Tra le materie esaminate non poteva mancare il diritto sindacale, in ordine al quale ti sei trovato in una posizione per così dire privilegiata, in quanto, pur partendo da solide basi civilistiche, ti sei dovuto confrontare con le tesi innovative della scuola barese, il che ti ha consentito di formulare delle ricostruzioni tuttora di grande originalità. Sul piano quantitativo la tua produzione è sconfinata spaziando su tutte le aree tematiche più significative del diritto sindacale: ruolo e rappresentatività del sindacato, contrattazione aziendale, e, più in generale, quella in deroga o di prossimità, varie forme di lotta sindacale, modelli di concertazione (tema quest’ultimo su cui hai fornito un contributo imprescindibile per chiunque si voglia occupare di quella problematica). Tuttavia a me sembra che la parte più rilevante di questa ampia produzione scientifica sia quella dedicata al ricorrente dibattito sulla natura giuridica del contratto collettivo, se cioè debba essere considerato un atto di autonomia negoziale o una fonte normativa, sia pure con caratteristiche del tutto peculiari. Ti schieri decisamente a favore di questa seconda opinione, dopo avere ricostruito le origini del dibattito e dopo avere criticato le tesi privatistiche tradizionali, per condividere infine le tesi definite neo-privatistiche, espresse principalmente da Luigi Mengoni, imperniate su una ricostruzione analitica e sistematica del materiale di diritto positivo, a partire dalla norma fondamentale che in qualche modo delega le organizzazioni sindacali a disciplinare i rapporti di lavoro. La ricostruzione, in linea con le premesse teoriche contenute nell’opera di Gino Giugni, accentua gli elementi di integrazione tra l’ordinamento statale e quello intersindacale, che si esprimono principalmente, quale anello di congiunzione, nell’attività giurisprudenziale. Tenuto conto che quell’assetto, anche concettuale, ha subìto scosse sismiche per effetto della vicenda Fiat, risalente all’inizio del 2010, e che i sindacati stanno vanamente cercando di ricostituire un assetto in qualche modo alternativo, senza tuttavia riuscire a incidere sulla realtà sociale, ritieni che la ricostruzione di Giugni sia ancora attuale difronte alla pervasiva presenza della legislazione del lavoro e alla marginalizzazione del sindacato, che sembra seguire un trend ormai inarrestabile? E ancora, poiché non è immaginabile un sistema giuridico evoluto senza un’organizzazione degli interessi del mondo del lavoro, è possibile ipotizzare un sistema in cui il ruolo del sindacato risulti completamente trasfigurato, più proiettato verso compiti istituzionali e invischiato nelle varie dinamiche amministrative e di gestione dei rapporti di lavoro, ancorché garantito da un solido sostengo pubblico? A questo punto una legge sindacale, pur minimalista, sarebbe inevitabile.
Tu hai la bontà di ricordare i miei numerosi e distribuiti nel tempo interventi in materia di diritto sindacale. Sono stato il primo, credo, tra i giuslavoristi a occuparmi del sindacato di polizia (1976) e dei limiti alla libertà sindacale. Nei miei contributi più recenti ho concentrato il mio interesse sulla natura stessa del contratto collettivo e la sua efficacia quale fonte del diritto. Da questo punto di vista, a mio parere, il diritto sindacale è il fondamento e quindi la fonte storica e naturale dell’intero diritto del lavoro, che deve al sindacalismo organizzato le sue origini. Pertanto tra contrattazione e legislazione vi è stato un costante rapporto di recezione che le caratterizza l’una e l’altra quali fonte materiale e formale del diritto del lavoro.
Anche nella legislazione talvolta affannosa dagli anni 2000 ad oggi, si manifesta questa interrelazione tra fonte collettiva e fonte legislativa. L’attuale incessante ricorso della legge ai contratti collettivi non è altro che la conseguenza della troppo lunga afasia o almeno inerzia del sindacato che ritraendosi dai suoi compiti essenziali di tutela si riduce a mero suggeritore dei pubblici poteri.
Da un punto di vista dogmatico e cioè nella considerazione sistematica dell’ordinamento giuridico del lavoro, questo ordinamento si deve qualificare come ordinamento intersindacale e resta non già estraneo ma originario rispetto all’ordinamento statuale. Originario vuol dire – e qui mi ricollego all’insegnamento di Gino Giugni, ma anche alla rivisitazione che ne fu proposta dal più brillante dei suoi allievi, Gaetano Vardaro – non estraneo ma collocato in una relazione di integrazione secondo i casi di inclusione oppure di esclusione rispetto all’ordinamento dello Stato (come si può evincere per esempio dall’articolo 2 della Costituzione).
Mi sembra quindi che il modello elaborato da Giugni sia ancora valido sul piano conoscitivo e se si vuole della teoria generale. È questo a mio avviso il significato effettivo della garanzia costituzionale (articolo 39) della organizzazione sindacale come soggetto di libertà.
Dunque le vicende tra sindacato e impresa dal 2010 (accordo Fiat) a oggi – che tu ricordi – non mettono in causa il modello pluralistico originario del rapporto sindacati-Stato. Piuttosto segnalano, come accennavo prima, la marginalizzazione del ruolo del sindacato in una società sempre più bisognosa che tale ruolo sia sostenuto – ma, si badi, non sostituito – dallo Stato.
Una legge sindacale sotto questo profilo sarebbe necessaria e auspicabile quanto meno per sciogliere gli attuali nodi della rappresentatività. E questo anche allo scopo di mettere fine al “dumping contrattuale” e quindi assicurare a tutti i lavoratori un salario minimo di sussistenza.