1. Perché hai scelto di fare il giudice del lavoro?
All’inizio non è stata una mia scelta, perché, dopo un peregrinare in alcuni uffici del sud, trasferito agli inizi del 1966 alla Pretura di Napoli venni assegnato – con un certo mio rincrescimento – alla sezione lavoro. Chiesi un parere ad un autorevole magistrato, con il quale collaboravo per una rivista, il quale mi confidò che a quella sezione venivano assegnati i giudici meno valorosi e stimati. Devo dire in quella occasione la tradizione venne smentita perché, essendosi svuotata per trasferimento dei giudici della sezione lavoro il dirigente, nel timore di proteste da parte dei sindacati, aveva deciso di destinarvi magistrati che gli sembravano abbastanza validi, con la promessa che, dopo un primo periodo, avrebbe provveduto a destinarli ad incarichi più prestigiosi.
Ebbi la fortuna di condividere questa esperienza con colleghi di particolare bravura (tra gli altri Sergio Mattone ed Alessandro Criscuolo), con i quali avvertimmo l’esigenza di approfondire la materia (all’epoca poco valorizzata anche nelle università…) e rendere più apprezzata la nostra attività. Per questa ragione volli conoscere Domenico Napoletano (uno dei pochi che all’epoca aveva scelto di operare in un questo settore e fondatore del Centro Studi a lui intestato) e progressivamente capimmo a quale delicata funzione eravamo addetti. C’è da dire che il contenzioso, che per i limiti di valore veniva trattato presso le preture (a Napoli molte controversie riguardavano lavoratori domestici o manovali dell’edilizia) non destava particolare interesse, ma questo ci fece capire che, anche dietro cause di poco rilievo economico, vi erano persone, alle quali andava riconosciuta piena dignità e garanzia di diritti fondamentali.
Grazie anche alla guida di Domenico Napoletano, cominciammo ad avere frequenti riunioni tra colleghi della sezione per affrontate tematiche alquanto trascurate, fino a quando nel luglio 1966 si ebbe una svolta con la legge 604: improvvisamente, quel ruolo del pretore del lavoro ritenuto di scarsa importanza venne enormemente valorizzato ed ebbe la definitiva consacrazione con la riforma del processo nel 1973.
Divennero sempre più frequenti incontri con giudici dei vari uffici (con incontri anche con magistrati della Cassazione, fino ad allora visti come componenti di una casta separata da resto del mondo), avvocati, docenti universitari, sindacalisti, con dibattiti nei quali, in un dialogo vivace e franco, ognuno poteva liberamente esprimere le proprie opinioni.
Ed allora, quell’assegnazione ad una funzione vista da tanti come di minore rilievo (il dirigente della Pretura intanto mi chiese scusa per avermi sacrificato ad un ufficio di “serie inferiore”) , divenne per me occasione per comprendere sempre di più l’importanza di una funzione, prima quasi imposta, ma poi veramente scelta per tanta parte della mia vita professionale.
Concludo con una nota personale.
La mia lunga e prevalente militanza nelle sezioni lavoro di vario livello è stata considerata dal CSM come nota negativa della mia attività di giudice per negarmi l’assegnazione ad un superiora grado della Cassazione quando allo scadere degli otto anni di presidenza, sono stato restituito alle funzioni di consigliere (che ho svolto negli ultimi due anni di servizio): le delibere del CSM sono state annullate dal Consiglio di Stato a distanza di qualche tempo quando cioè avevo però superato l’età del pensionamento. Ma sono lieto perché ben due primi presidenti sono giuslavoristi di grande valore e di lunga militanza ed io ho avuto il piacere di averli avuti come componenti di collegi da me presieduti.
2,. C’è (o c’è ancora) una specificità del diritto del lavoro rispetto al diritto civile?
Alla stagione di grande attenzione al diritto del lavoro, ha fatto seguito, anche per effetto delle ricorrenti crisi economiche, una certa omologazione alle regole civilistiche ed una sensibile attenuazione delle tutele del lavoratore. Resta però sempre il riferimento ai valori costituzionali, che pone a fondamento della Repubblica il lavoro e la dignità del lavoratore. Sono pienamente convinto che i principi del diritto civile, se non derogati dalla nostra materia, vanno tenuti in conto ed oserei dire che in certe circostanze addirittura vengono prospettate delle soluzioni meno garantiste di quelle previste in un normale rapporto contrattuale. Penso, ad esempio, ad alcune soluzioni in tema di licenziamento per motivi economici ed, in prospettiva con l’entrata in vigore del c.d. codice della crisi, alla tutela del lavoratore in caso di mala gestio colpevole del datore di lavoro
4. Le modifiche normative che hanno riguardato la disciplina sostanziale hanno mutato gli equilibri tra le parti nel processo?
Terrei ben distinte le norme sostanziali da quelle processuali.
Se è vero che si è avuta una progressiva attenuazione dei diritti del lavoratore, le regole del rito sono rimaste le stesse, per cui non penso che questo abbia modificato l’equilibrio tra le parti nel processo, anche se, più in generale, la minore attenzione a questo tipo di controversie, ha comportato anche una minore cura sulle necessità degli uffici giudiziari. Ho vissuto in prima persona un periodo della mia presidenza in Cassazione un’improvvisa e sensibile decurtazione di magistrati e di personale amministrativo della sezione per la costituzione di un diverso ufficio, frutto di una minore considerazione della funzione di una sezione lavoro.
5. Quando, quanto spesso e su quali presupposti eserciti il potere d’ufficio? Quando invece ritieni che al giudice sia precluso integrare ufficiosamente il materiale istruttorio di causa?
In occasione della riforma del 1973 ero in servizio presso il tribunale e solo per un breve periodo sono stato assegnato allo stralcio delle cause pendenti.
Mi sono avvalso molto dell’interrogatorio delle parti, il che mi ha permesso di limitare all’essenziale l’attività istruttoria e solo raramente ho avvertito la necessità di avvalermi dei poteri di ufficio. Fino a quando ho svolto funzioni di primo grado la conoscenza dei termini della controversia mi ha dato la possibilità di giungere rapidamente alla decisione o di agevolare le transazioni, per cui sono del parere che lo studio preventivo degli atti di parti contribuisca più di ogni altra cosa ad una sollecita definizione della controversia.
In appello normalmente i giochi erano fatti e quindi solo in qualche occasione ho avuto la necessità di avvalermi del potere in questione.
6.. Come si è configurato, e come attualmente si configura, nel processo del lavoro, il rapporto fra giustizia formale e giustizia sostanziale?
Il potere di allegazione dei fatti resta nella disponibilità delle parti e questo impedisce che il giudice possa sostituirsi alle stesse. C’è la possibilità però che, per gravi motivi, il giudice autorizzo la modifica dei fatti (ma non la deduzione di fatti nuovi), tenendo conto di quanto, in linea generale, ha affermato Cass.sez.un. 15 giugno 2015, n. 12310.
Devo però rilevare che, soprattutto per il giudizio di legittimità, si è avuta una netta accelerazione del ricorso alle formalità con un incremento delle decisioni di inammissibilità: se è giusto che vengano rispettare delle regole, mi pare che ci sia una tendenza ad un’ interpretazione rigorosa delle norme introdotte negli ultimi anni, che, di fatto, si traduce nella negazione di una decisione sull’oggetto del contendere (nonostante che, anche in situazioni del genere la Corte potrebbe avvalersi dell’art. 384 c.p.c. ed enunciare il principio di diritto ch, benché non vincolante per le parti in causa, potrebbe essere utile per le controversie ancora pendenti). A quel che mi vien detto, spesso gli avvocati non sanno come districarsi tra il protocollo d’intesa con il Consiglio Nazionale Forense (che auspica un ricorso contenuto in poche pagine) e la prassi di richiedere una minuziosa trascrizione nel ricorso di elementi desumibili agevolmente, ad esempio, dalla sentenza impugnata. E’ il caso di ricordare che l’interpretazione della Cassazione a proposito del modo come formulare il quesito di diritto previsto dall’art. 366bis c.p.c. ha comportato la rapida soppressione della norma, che in realtà costringeva il ricorrente a chiarire quale fosse la regola iuris da applicare e rendeva più agevole il compito del giudicante.
7. Quanto è importante, nelle scelte cui il giudice è tenuto nel governo del processo, la necessità di assicurare la celerità delle decisioni?
Una sentenza definitiva, che giunga a distanza di anni, può essere una beffa per chi ha ragione. Questo vale ancor più per un lavoratore, che tragga dalla propria attività i mezzi di sussistenza, se il suo diritto viene riconosciuto a distanza di anni.
A tutto questo il legislatore dl 1973 aveva cercato di portare rimedio, ma l’allungamento dei tempi, che ormai tocca anche il contenzioso del lavoro, in qualche modo non ha risolto il problema.
L’art. 21 della legge 53 prevedeva che ogni anno i presidenti delle corti di appello dovevano inviare una relazione sull’andamento del contenzioso del lavoro, sulle pendenze e le sopravvenienze, all’evidente scopo di permettere di modulare l’organico per rispettare i termini previsti dalla legge stessa. Di questa specifica disposizione si è persa ogni traccia, nonostante che, ad una fase idilliaca iniziale, si siano riversate sulle sezioni lavoro migliaia di cause, inizialmente sottratte alla competenza del giudice ordinario (ricordo, in particolare, il contenzioso conseguente alla dichiarazione di incostituzionalità di alcune norme, alla privatizzazione delle Ferrovie dello Stato, oltre a quello più recente del pubblico impiego). Si aggiunga a questo il susseguirsi di leggi, che hanno modificato un quadro normativo a lungo stabile, la proliferazione delle fonti normative (nazionali e sovranazionali) che hanno reso sempre più complicato trovare la soluzione delle nuove questioni, per constatare come tutto questo incida necessariamente sui tempi della giustizia.
In uno scenario del genere pensare che, in ogni caso, sia possibile che il giudizio possa definirsi in un’unica udienza è diventa spesso una pura utopia e questo spiega come quella tensione ideale e quell’entusiasmo, che hanno animato i giudici del lavoro subito dopo la legge 533, siano venuti meno, anche perché è venuta meno quella gratificazione, che derivava dal fatto di poter decidere in tempi brevi una controversia.
8. Quanto pensi che rilevi nell’economia della decisione quella relativa alle spese e come eserciti la discrezionalità rimessa al giudice dall’art. 92 c.p.c. risultante dall’intervento della Corte costituzionale?
Non vi è dubbio che l’attuale formulazione del’art. 92 c.p.c., pur dopo l’intervento della Corte Costituzionale, è un grosso deterrente per la parte debole del processo dare inizio ad un giudizio, anche perché – per quanto mi consta – della compensazione delle spese il giudice fa uso piuttosto parsimonioso.
Certamente in passato il lavoratore soccombente era sistematicamente esonerato dal pagamento delle spese e, quindi, la - di fatto - gratuità del giudizio grazie anche all’assistenza legale dei sindacati, incoraggiava a proporre domande, pur se di scarso fondamento. Direi però, proprio per la difficoltà insita nell’alluvionale susseguirsi di leggi “ad incastro” e nel coordinamento tra le diverse fonti normative dovrebbe rendere il giudice più disponibile a ricorrere alla compensazione quando la questione sia di non agevole soluzione.
9. Qual è il rapporto che ritieni debba esistere fra il valore della libertà della giurisprudenza e quello della tendenziale univocità e prevedibilità delle decisioni?
Sono profondamente convinto che la certezza del diritto sia un valore fondamentale, che va perseguito, perché è necessario che ognuno sia messo in grado di conoscere le regole della convivenza civile alle quali poter adeguare i propri comportamenti. Spesso si dice che la incertezza sia di ostacolo di non poco conto per la stessa iniziativa economica e si rifletta negativamente anche sulle possibilità di occupazione.
Ma questo valore è compromesso, da un lato, dal proliferare delle leggi e delle fonti normativa e, dall’altro, dai tempi della giustizia, non essendo ammissibile che una questione controversa venga definita a distanza di anni.
D’altra parte, se il giudice è soggetto soltanto alle legge, ne consegue che gli devono essere riconosciute la libertà e l’autonomia nell’esercizio del suo compito istituzionale: questo vale, in particolare, quando alcuni principi – che sembrano consolidati – non appaiono più condivisibili con l’evoluzione della legislazione e con la valorizzazione dei principi costituzionali.
Gli interventi legislativi degli ultimi anni permettono però di trovare il giusto equilibrio tra i due principi, che possono essere in conflitto.
L’art. 374 c.p.c., l’art. 420bis c.p.c. (e per il pubblico impiego l’art. art. 64 del d. lgs. n. 165 del 2001) sono norme che offrono al giudice di prospettare una diversa affermazione di principio, dopo che la questione sia stata sottoposta e decisa dalla Cassazione, a condizione che egli si faccia carico di un’adeguata motivazione per mettere in discussione un principio affermato in sede di legittimità. E questi mutamenti della giurisprudenza non mancano esempi: ho avuto a che fare con un principio in tema di processo, consolidato da oltre mezzo secolo, che la Cassazione, sollecitata da alcune decisioni di merito adeguatamente motivate, ha poi completamente ribaltato.
Sotto questo profilo mi pare apprezzabile la previsione contenuta nella legge 206 del 2021 (delega per la riforma del processo civile), la dove prevede che, ricorrendo alcuni presupposti, il giudice del merito possa rimettere alla Corte di Cassazione la risoluzione dei un quesito di diritto.
Aggiungo una nota derivante dalla mia esperienza.
Cercai di creare un raccordo con gli uffici di merito affinché venissero segnalate alla Cassazione le questioni di maggiore impatto qualitativo e quantitativo dibattute in quegli uffici per consentire alla Corte una più sollecita affermazione di principio: orbene, quando questo sistema di informazione ha funzionato, è stato possibile eliminare rapidamente sul nascere diverse centinaia di processi pendenti.