TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA
1. Il contesto di riferimento
La promessa di un potenziamento, e quindi di una trasformazione, sia dell’uomo sia della
società, che le tecnologie convergenti del gruppo NBIC (Nanotecnologie; Biotecnologie; Information Technologies; Cognitive Sciences) oggi fanno dà conto della straordinaria attenzione che la tecnoscienza va ricevendo in una pluralità di ambiti, da quello culturale a quello scientifico, da quello economico a quello politico. Il fine perseguito non è solamente il potenziamento della mente, e neppure solamente l’aumento della capacità diagnostica e terapeutica nei confronti di tutta una gamma di patologie, e neppure ancora il miglioramento dei modi di controllo e manipolazione delle informazioni. Ciò verso cui si vuole tendere è l’artificializzazione dell’uomo e, al tempo stesso, l’antropomorfizzazione della macchina. E’ a Julien Huxley (1887-1975) che si deve l’invenzione della parola transumanesimo, per descrivere un mondo futuro in cui, al posto delle opposizioni tra gli esseri, avremo una continua ibridazione dell’umano. Come movimento globale, il transumanesimo si è sviluppato nella Silicon Valley, in seguito ai massicci interventi di Google, Microsoft, Apple il cui scopo dichiarato è costruire un “uomo aumentato” nelle sue capacità. E’ su questo che è oggi urgente sollevare il velo del silenzio, aprendo un dibattito di natura filosofica. La questione, infatti, tocca il livello antropologico. Due le concezioni di uomo che si vanno confrontando: quella dell’uomo-persona e quella dell’uomo-macchina. Quest’ultima sta guadagnando terreno sulla prima. Il che spiega, tra l’altro, perché l’ideale dell’uomo-macchina stia determinando oggi una vera e propria emergenza educativa: la formazione/istruzione ha preso il posto dell’educazione. L’uomo-macchina infatti “chiede” istruzione; non gli serve l’educazione. (C.B. Frey, La trappola della tecnologia. Capitale, Lavoro e Tecnologia nell’era dell’automazione, Milano, F. Angeli, 2020).
Un interessante precedente storico vale a farci comprendere la portata della posta in gioco. Nel Libro V della Ricchezza delle Nazioni (1776) Adam Smith (1723-1790) scrive: “L’uomo che passa tutta la sua vita nel compiere poche semplici operazioni, i cui effetti sono forse gli stessi o quasi, non ha alcuna occasione di esercitare la sua intelligenza o la sua inventiva nel trovare espedienti, che possano superare difficoltà che non incontra mai”. E’ per questo che Smith auspica l’intervento deciso dello Stato per imporre un sistema di istruzione obbligatorio per tutti come mezzo per contrastare l’appiattimento delle facoltà dei lavoratori indotto da quel processo. Con l’avvento della prima Rivoluzione Industriale, però, si afferma un altro modo di concepire e quindi di servirsi della divisione del lavoro. Il noto economista David Ricardo (1772-1823) e soprattutto l’ingegnere Charles Babbage (1791-1871), cattedratico di matematica a Cambridge e fondatore della London Statistical Society, ne sono gli artefici. La loro idea è che, poiché gli individui sono diversi quanto a capacità e doti personali, ciascuno è portatore di uno specifico vantaggio comparato nell’attività lavorativa. Allora, la divisione del lavoro, e la specializzazione spinta che ne consegue, diventano gli strumenti pratici per consentire alla società di trarre il massimo vantaggio dall’esistenza di abilità diverse tra gli individui. Come si comprende, mentre per Smith la divisione del lavoro è la “causa” delle differenze di capacità personali, per Ricardo e Babbage è vero il contrario: sono queste differenze a rendere conveniente la divisione del lavoro. (Abbacinato dalle idee di W. Leibnitz, (1646-1716) che già nella seconda metà del XVII secolo si era speso per inventare la macchina calcolatrice, Babbage, agli inizi del XIX secolo, riteneva che col tempo si sarebbe arrivati ad una ragione calcolante sovraumana. (Cfr. il suo On the Economy of Machines and Manufactures, 1832).
E’ agevole cogliere le implicazioni di ordine “pedagogico” che discendono da questa inversione del nesso causale: laddove il “lavoratore alla Smith” deve investire in educazione continua per non perdere le proprie abilità (e ultimamente la propria identità), e quindi laddove la divisione del lavoro viene vista come occasione per favorire e incentivare l’acquisizione di nuove conoscenze con lo studio e la cultura, il “lavoratore alla Babbage” non possiede alcun motivo del genere, dal momento che la divisione del lavoro serve proprio a minimizzare la necessità dell’apprendimento da parte del lavoratore prima che questi entri nel processo produttivo: anzi, più spinto il processo di divisione del lavoro, più ristretto è il contenuto di conoscenza di ciascuna mansione e quindi meno si deve apprendere prima di iniziare. Si ha così che mentre i lavoratori alla Smith “crescono” insieme al loro lavoro, quelli alla Babbage soggiacciono ad una minaccia terribile, quella di poter essere sostituiti in qualsiasi momento essendo connotati da un elevato grado di sostituibilità.
Meno di un secolo dopo, Friedrick Taylor (1856-1915), ingegnere e imprenditore americano, darà alle stampe il suo opus magnum, The principles of scientific management (1911), del cui successo editoriale e soprattutto dei grandi risultati, in termini di aumenti incredibili di produttività, che la sua vasta applicazione ha consentito di realizzare nel corso dei decenni successivi, sono piene le biblioteche. (Un piccolo curiosum. Lenin, abbacinato dalle novità introdotte, in quel testo, lo fece tradurre in russo, imponendo di fatto l’applicazione del nuovo modello organizzativo alle imprese e alle fabbriche della Russia post-rivoluzione. Come noto, la cosa non passò inosservata, suscitando critiche feroci, tra cui quella autorevole di Antonio Gramsci). Idea centrale del taylorismo è di rendere il lavoratore un fattore produttivo, in grado di adattarsi alle caratteristiche del ciclo produttivo, nella forma della catena di montaggio. Si legge nei Principles: “Uno dei primi requisiti per il lavoratore responsabile al lavoro d’altoforno è che sia così stupido da essere assimilato più ad un bovino che a qualsiasi altra cosa”. (p.54) Come scriverà poi Henry Ford (1863-1947), uno dei primi industriali di successo ad applicare il nuovo modello organizzativo: “Dobbiamo riconoscere la fondamentale diseguaglianza nelle doti delle menti umane. Per certi tipi di cervelli, il pensare è proprio una pena… Imparare un solo atto manuale e di cui anche l’uomo più stupido potrebbe appropriarsi in due giorni”. (Ford, 1922).
Una prima (in terra d’America) timida presa di distanza dal taylorismo è quella di Elton Mayo (1880-1949), sociologo di Harvard, curatore di una ricerca empirica svolta tra 1927 e 1932 e centrata sullo studio delle relazioni umane nei luoghi di lavoro. Questa ricerca segna la nascita dello “Human Relations Movement”: motivazioni, rapporti interpersonali, condizioni sociali sono elementi essenziali da prendere in considerazione quando si progetta l’organizzazione del lavoro, dal momento che la produttività dipende in massima parte dalla motivazione verso il lavoro. La linea di pensiero delle “Human Relations”, subito criticata negli USA, troverà invece, nel secondo dopoguerra, positiva accoglienza in Giappone, dove il CEO di Toyota Taichi Ohno (1912-1990) dichiarerà: “Le persone non vanno in Toyota per lavorare, ma per pensare”. La filosofia della Tyota, detta Kaizen, si fonda sulla multifunzionalità e sulla partecipazione di tipo cooperativo dei lavoratori. In verità, il modello Kaizen era stato anticipato, negli anni Sessanta, dall’industriale giapponese K. Matsushita (1894-1989), fondatore della Panasonic. Celebre è rimasta la sua dichiarazione: “Per voi [tayloristi], l’essenza del buon management è far uscire le idee dalla testa dei capi e metterle nelle mani dei lavoratori. Noi siamo oltre il modello taylorista…. Noi intendiamo la gestione come l’arte di saper mobilitare il potenziale intellettivo di tutti i collaboratori di un’impresa ed unificarlo”. (F. Laloux, Reinventare le organizzazioni, Milano, Guerini, 2016).
Bisogna però arrivare al nuovo secolo per registrare una proposta radicalmente alternativa al taylorismo. Nel 2007, Brian Robertson, della Harvard Business School, pubblica il volume Holocracy che riprende precedenti esperienze di successo, fra cui quella celebre di Olivetti. (B. Robertson, Olocrazia, Milano, Guerini, 2019). L’idea centrale del “High Performance Work System” che viene illustrata nel libro è quella di delegare ai lavoratori un qualche potere decisionale che consenta loro di agire sulla base della loro informazione privata e del loro ingegno. In buona sostanza, si tratta di passare dall’approccio tecnocratico, tipico del taylorismo, a quello antropocentrico che va oltre il concetto di gestione delle risorse umane a favore di quello di valorizzazione delle persone. E’ in tale contesto, che inizia a prendere forma lo smart-working (si badi, non l’home working o telelavoro) come nuovo modello organizzativo. (L’evento pandemico ha fatto da cassa di risonanza di tale espressione, diventa ormai popolare). L’olocrazia è il più avanzato dei sistemi di auto-organizzazione focalizzato sul lavoro da svolgere piuttosto che sulle persone che lo svolgono e dove il controllo è di tipo orizzontale anziché verticale. (L. Solari, M. Lupi, “Intelligenza umana e artificiale”, Sviluppo e Organizzazione, Luglio, 2019).
Sorge spontanea la domanda: che fare per scongiurare il rischio che l’High Performance Work System” – di cui lo smart working è componente essenziale – possa condurre ad una forma di neo-taylorismo, altrettanto alienante del taylorismo? Infatti, è certamente vero che il trasferimento del lavoro fuori del suo luogo di svolgimento costituisce una forma di liberazione, ma del pari vero è che il lavoratore viene sganciato dalla filiera che produce un certo risultato e viene isolato dal suo contesto sociale. Una duplice condizione va allora soddisfatta. Primo, che esso non diventi l’occasione per nuove tensioni di classe fra chi può e chi non può accedere allo smart-working. Secondo, che la modalità lavorativa smart non accentui l’individualizzazione del rapporto del lavoratore con l’entità che gli dà la ”commessa”. In buona sostanza, occorre rifiutare che quanto decidiamo di definire come smart sia di per sé cosa buona e occorre essere avvertiti dei limiti del cyberlavoro, il più inquietante dei quali è la digitalizzazione dell’io. Già l’individualismo di singolarità – che da qualche tempo ormai è andato sostituendo il precedente individualismo di appartenenza – sta aumentando l’isolamento/solitudine dei singoli. L’organizzazione del lavoro non può accentuare tale pericolosa tendenza. (L. Pesenti, G. Scansani, Smart Working Reloaded, Milano, Vita e Pensiero, 2022). Come soddisfare una tale duplice condizione?
2. Il lavoro come bisogno umano fondamentale.
Un modo efficace per dare risposta all’interrogativo sopra posto è quello di prendere atto che il lavoro, prima ancora che un diritto umano, è un bisogno insopprimibile della persona. È il bisogno – come già Aristotele aveva chiarito – che ogni individuo avverte di trasformare la realtà di cui è parte e quindi di edificare se stesso. (L’eudaimonia aristotelica – cioè la fioritura umana - è legata a filo doppio al lavoro come opera). Riconoscere che quello del lavoro è un bisogno fondamentale è affermazione assai più forte che dire che esso è un diritto. E ciò per l’ovvia ragione che, come la storia insegna, i diritti possono essere sospesi o addirittura negati; i bisogni, se fondamentali, no. Sappiamo anche che non sempre i bisogni possono essere espressi nella forma di diritti politici o sociali. Bisogni come quelli di fraternità, dignità, senso di appartenenza non possono essere rivendicati come diritti. È dunque il bisogno di lavorare a dare fondamento, non solo giuridico ma anche etico, al diritto al lavoro, che diversamente risulterebbe un diritto infondato e pertanto passibile di essere calpestato. (G. Mari, “Diritto alla libertà del lavoro”, Iride, 36, Ago. 2002).
Per cogliere appieno il significato del lavoro come bisogno umano fondamentale ci si può riferire alla riflessione classica, da Aristotele a Tommaso d’Aquino (1225-1274), sull’agire umano. Due le forme di attività umana che tale pensiero distingue: l’azione transitiva e l’azione immanente. Mentre la prima connota un agire che produce qualcosa al di fuori di chi agisce, la seconda fa riferimento ad un agire che ha il suo termine ultimo nel soggetto stesso che agisce. In altro modo, il primo cambia la realtà in cui l’agente vive; il secondo cambia anche l’agente stesso. Ora, poiché nell’uomo non esiste un’attività talmente transitiva da non essere anche sempre immanente, ne deriva che la persona ha la priorità nei confronti del suo agire e quindi del suo lavoro. La conseguenza che discende dall’accoglimento del principio-persona è bene resa dall’affermazione degli Scolastici secondo cui “operari sequitur esse”: è la persona a decidere circa il suo operare; quanto a dire che l’autogenerazione è frutto dell’auto-determinazione della persona. Quando l’agire non è più sperimentato da chi lo compie come propria auto-determinazione e quindi propria auto-realizzazione, esso cessa di essere umano. Quando il lavoro non è più espressivo della persona, perché non comprende più il senso di ciò che sta facendo, il lavoro diventa schiavitù. L’agire diventa sempre più transitivo e la persona può essere sostituita con una macchina quando ciò risultasse più vantaggioso. Ma in ogni opera umana non si può separare ciò che essa significa da ciò che essa produce. (A. Bekman, L’arte di cambiare. Pratiche di leadership orizzontale, Milano, Guerini, 2017).
Notevole la conseguenza che discende dall’accettazione di tale prospettiva di discorso. Essa chiama in causa il fatto che il lavoro umano possiede due interconnesse dimensioni: acquisitiva, l’una ed espressiva, l’altra. La prima indica che per mezzo del lavoro, la persona acquisisce il potere d’acquisto con cui provvedere alle proprie necessità. A tale dimensione corrisponde il concetto di lavoro giusto. (R. Muirhead, Just work, Boston, Harvard University Press, 2004). Già la Rerum Novarum di papa Leone XIII (1891) aveva reclamato con forza la “giusta mercede all’operaio”. La seconda dimensione esprime il fatto che attraverso il lavoro, la persona realizza il proprio potenziale di vita, sviluppando i propri talenti. A tale dimensione corrisponde il concetto di lavoro decente, che è tale se favorisce o consente la fioritura umana. Si legge al n.125 della Laudato Sì: “Qualsiasi forma di lavoro presuppone un’idea sulla relazione che l’essere umano può o deve stabilire con l’altro da sé”. (E’ interessante notare che nel giugno 2022, l’ILO ha organizzato, per la prima volta dalla sua nascita (1919), il proprio Congresso Mondiale sul tema: “The decent work and the Social Economy”). Occorre dunque vigilare perché lavoro giusto e lavoro decente non vengano mai disgiunti se si vuole tenere fede al principio secondo cui il lavoro umano non è una merce, dal momento che non esiste lavoro separabile dalla persona che lavora. (Ecco perché è errato parlare di “mercato” del lavoro). Un’ulteriore sottolineatura. Il lavoro non è un fattore della produzione che deve adattarsi alle esigenze del sistema produttivo per accrescere la “total factor productivity”. Al contrario, è il processo produttivo che va modellato per consentire alle persone la loro fioritura. Già al n.67, la Gaudium et Spes (1964) indicava che: “Occorre dunque che tutto il processo produttivo si adegui alle esigenze della persona e alle sue forme di vita” – e non viceversa.
Il lavoro giusto e decente è sia quello che assicura una remunerazione equa a chi lo ha svolto, sia quello che permette al lavoratore di essere ascoltato, rispettato, riconosciuto. C’è una dimensione morale nel lavoro che non può essere compensata dal denaro. In quanto attività trasformativa, il lavoro interviene sia sulla persona sia sulla società, sia sul soggetto sia sul suo oggetto. Sono questi due esiti congiunti a definire la cifra morale del lavoro. Ne deriva che il processo attraverso il quale vengono prodotti oggetti a valenza morale, non è qualcosa di assiologicamente neutrale, come purtroppo si continua a credere. In altro modo, il luogo di lavoro non è semplicemente il luogo in cui certi input vengono trasformati in certi output, ma è anche il luogo in cui si forma e si trasforma il carattere del lavoratore, come già Alfred Marshall (1842-1924), il grande economista di Cambridge, fu tra i primi a riconoscere alla fine del XIX secolo. Come scrisse il suo contemporaneo John Ruskin (1819-1900), “la massima ricompensa del lavoro non è quella che ci permette di guadagnare, ma quella che ci permette di diventare”. (G. Mari, “Il lavoro dopo la fine del lavoro”, Iride, 2008).
La portata della grande sfida che ci sta di fronte è allora come realizzare le condizioni per muovere passi verso la libertà del lavoro, intesa come possibilità concreta di consentire alla persona che lavora di conservare in armonia le due dimensioni di cui si è sopra detto. Le nostre democrazie liberali mentre sono riuscite, più o meno bene, a realizzare le condizioni per la libertà nel lavoro – e ciò grazie anche alle lotte del movimento operario e al ruolo del sindacato – paiono impotenti quando devono muovere passi verso la libertà del lavoro. Perché pare così difficile, oggi, andare in questa direzione? È forse la non conoscenza dei termini della questione oppure la non disponibilità degli strumenti di intervento a impedire la ricerca di soluzioni? Non lo credo proprio. Ritengo piuttosto che il fattore principale vada rintracciato in una organizzazione sociale incapace di articolarsi nel modo più adatto a valorizzare le risorse umane disponibili. È un fatto che le nuove tecnologie liberano tempo sociale dal processo produttivo, un tempo che l’attuale assetto istituzionale trasforma in disoccupazione oppure in forme varie di precarietà. L’aumento, a livello di sistema, della disponibilità di tempo – un tempo utilizzabile per una pluralità di usi diversi – continua ad essere utilizzato per la produzione di cose o servizi di cui potremmo tranquillamente fare a meno e che invece siamo “costretti” a consumare, mentre non riusciamo a consumare o ad avere accesso ad altri bene perché non vi è chi li produce. Il risultato è che troppi sforzi ideativi vengono indirizzati su progetti tesi a creare modeste occasioni effimere o transitorie di lavoro, anziché adoperarsi per riprogettare la vita di una società post-industriale fortunatamente capace di lasciare alle nuove macchine le mansioni ripetitive e dunque capace di utilizzare il tempo così liberato per iniziative che dilatino gli spazi di libertà dei cittadini.
Il punto che merita attenzione è che occorre distinguere tra impiego, cioè posto di lavoro, e attività lavorativa. In ciascuna fase storica dello sviluppo delle economie di mercato è la società stessa, con le sue istituzioni, a fissare i confini tra la sfera degli impieghi (il lavoro salariato) e la sfera delle attività lavorative. Ebbene, tale confine è, oggi, sostanzialmente il medesimo di quello in essere durante la lunga fase della società fordista. E' questa la vera rigidità che occorre superare se si vuole avere ragione del problema in questione. Pensare di dare un lavoro a tutti sotto forma di impiego sarebbe pura utopia (o peggio, pericolosa menzogna). Infatti, è bensì vero che politiche di riduzione del costo del lavoro, unitamente a politiche di sostegno alla domanda aggregata potrebbero accrescere, in alcuni settori, la produzione più rapidamente dell'aumento della produttività e contribuire così alla riduzione della disoccupazione. Ma a quale prezzo? Quello di dare vita a eticamente inaccettabili e politicamente pericolosi trade-offs: per redistribuire lavoro a tutti si finirebbe con l'accettare come qualcosa di naturale la categoria dei working poors, oppure come qualcosa di inevitabile il modello neo-consumista il cui fine nascosto è quello di farci dimenticare il nostro malessere interiore. Accade così che la società post-industriale registri, al tempo stesso, un problema di insufficienza di posti di lavoro, cioè di disoccupazione, e un problema di eccesso di domanda di attività lavorative, domanda che non trova soddisfazione. (J. Eckhart, The profit paradox, Princeton, Princeton University Press, 2021).
3. La via d’uscita del Terzo Settore.
Quel che va fatto, allora, è di favorire, con politiche intelligenti e coraggiose, il trasferimento del lavoro "liberato" dal settore capitalistico dell'economia al settore sociale della stessa. ll quale è connotato dal fatto che la categoria di beni che esso produce, e per i quali possiede un ineguagliabile vantaggio comparato, comprende beni comuni (ossia commons, come difesa del territorio, ambiente, conoscenza), beni relazionali (servizi alla persona, beni della care economy), beni meritori, industrie culturali creative della cosiddetta economia arancione. Si pensi a soggetti come quelli che appartengono al variegato mondo della cooperazione, delle imprese sociali, delle società benefit, degli enti di Terzo Settore - soggetti questi che finora sono stati di fatto impediti (soprattutto a livello normativo), di sprigionare tutto il loro potenziale di sviluppo. Il prodotto dell’economia sociale è connotato da una duplice caratteristica. La prima è che la categoria di bene che il settore sociale dell’economia produce comprende tutti quegli oggetti che possono essere fruite in modo ottimale soltanto assieme da coloro i quali ne sono, ad un tempo, produttori e consumatori.
La seconda caratteristica è che in tale settore le attività svolte tendono ad essere organizzate rispettando il principio democratico. Come hanno scritto L. Gallino et Al., “Per una valutazione analitica della qualità del lavoro”, Quaderni di sociologia, 1976, 3, tre sono i requisiti per una organizzazione democratica del lavoro. Primo, presenza di strutture formative tendenti a massimizzare il numero di persone che partecipano con competenza ai processi decisionali. Secondo, un’organizzazione aperta e poco gerarchizzata, come suggerito oggi dal modello olocratico secondo il quale le azioni di coinvolgimento dei lavoratori non si limitano a far sapere e a far conoscere, ma si spingono fino a far sentire le persone importanti per quel che fanno. (Si tenga presente che in ciascun essere umano alberga il bisogno di autorialità). Terzo, un soggetto non può conseguire una gratificazione per sé infliggendo una privazione ad altri. In sostanza, si tratta di muovere passi decisi, sicuramente fattibili, verso l'attuazione pratica della biodiversità delle forme di impresa - un principio che la più recente e accreditata teoria economica ha indicato come condizione sine qua non per incamminarsi su sentieri di sviluppo umano integrale. Per vivere bene, c’è bisogno di creare valore diverso da quello materiale – che resta comunque necessario, tenendo sempre a mente che mentre la crescita è un progetto accumulativo, lo sviluppo è un progetto trasformazionale. (L. Bruni, S. Zamagni, Economia Civile, Bologna, Mulino, 2016).
Un richiamo in chiave storica può servire a porre meglio a fuoco il punto sollevato. Sappiamo che a partire dalla Rivoluzione Commerciale dell’XI secolo, si afferma gradualmente l’idea del lavoro artigianale, che realizza l’unità tra attività e conoscenza, tra processo produttivo e mestiere – termine quest’ultimo che rinvia a maestria. Con l’avvento della rivoluzione industriale prima e del fordismo-taylorismo poi, avanza l’idea della mansione (insieme di attività parcellizzate), non più del mestiere, e con essa la centralità della libertà dal lavoro, come emancipazione dal “regno della necessità”. E oggi, che siamo entrati nella società post-fordista, che idea abbiamo del lavoro? C’è chi propone l’idea della competenza declinata in termini di figura professionale, ma non ci si rende conto delle implicazioni pericolose che ne possono derivare. Una fra tutte: la confusione di pensiero tra meritocrazia e principio di meritorietà, come se i due termini fossero tra loro equivalenti.
La civiltà occidentale poggia su una idea forte, l’idea della “vita buona”, da cui il diritto-dovere per ciascuno di progettare la propria vita in vista di una pubblica felicità. Ma da dove partire per conseguire un tale obiettivo se non dal lavoro inteso quale luogo di una buona esistenza? La fioritura umana non va cercata dopo il lavoro, come accadeva ieri, perché l’essere umano incontra la sua umanità mentre lavora. Di qui l’urgenza di iniziare ad elaborare un concetto di lavoro che per un verso vada oltre l’ipertrofia lavorativa tipica dei tempi nostri (il lavoro che riempie un vuoto antropologico crescente) e per l’altro verso valga a declinare l’idea di libertà del lavoro (la libertà di scegliere quelle attività che sono in grado di arricchire la mente e il cuore di coloro che sono impegnati nel processo lavorativo). Il che significa passare dall’idea del lavoro come attività cioè come pura prestazione produttiva a quella del lavoro come opera. (Per una esplorazione teorica di come ciò possa realizzarsi rinvio a P. Aghion, A. Deaton et Al. “Creative Destruction and Subjective Well-Being”, NBER, March 2014).
Da tempo la scienza economica ha smesso di interrogarsi sulla natura del lavoro per occuparsi solo delle sue funzioni e dei modi del suo efficiente utilizzo. E’ per questo che la cultura economica esalta e deprime, al tempo stesso, il lavoro. Per un verso, essa fa entrare il lavoro ovunque, facendolo diventare “la nuova misura di tutte le cose”; crea un nuovo tipo di uomo – l’homo laborans, nelle parole di K. Marx e di H. Arendt. Riprendendo il concetto di “prodotto sprecato” del grande economista di Cambridge, Alfred Marshall, che aveva scritto: “Nella storia del mondo vi è un prodotto sciupato, tanto più importante di tutti gli altri, che ha diritto di essere chiamato il Prodotto Sprecato: le migliori capacità lavorative di gran parte delle classi lavoratrici” (1889), Hannah Arendt nel suo L’origine del totalitarismo (1951) scrive: “Il male radicale risiede nella volontà perversa di rendere gli uomini superflui. E’ come se le tendenze politiche, sociali ed economiche di questa epoca congiurino segretamente per maneggiare gli uomini come cose supeflue”. Per l’altro verso, nessuna cultura come l’attuale usa e strumentalizza il lavoro per un tèlos sempre più “esterno” all’attività lavorativa stessa: non lo valorizza in sé ma lo pone al servizio del profitto. Eppure, Emanuel Mounier da tempo ci ha insegnato che “lavorare è fare un uomo al tempo stesso che una cosa”. In definitiva, missione storica del Terzo Settore è quella di operare in modo che gli aumenti di produttività consentiti dall’avanzamento tecnologico vengano utilizzati per migliorare il grado di decenza del lavoro, e non per accrescere il tasso di consumatività degli individui, come oggi sta avvenendo
4. Prospettive
Una nota finale sul tema della mancanza di lavoro. Sappiamo, che l’estromissione dall’attività lavorativa per lunghi periodi di tempo non solamente è causa di una perdita di produzione e di reddito, ma costituisce un vero e proprio razionamento della libertà. Il disoccupato di lungo termine patisce una sofferenza che nulla ha a che vedere con il minor potere d’acquisto, ma con la perdita della stima di sé e soprattutto con l’autonomia personale. Ecco perché non è lecito porre sullo stesso piano la disponibilità di un reddito da lavoro e l’acquisizione di un reddito da trasferimenti, sia pure di eguale ammontare: è la dignità della persona a fare la differenza. Non solo, ma la fuoriuscita dal lavoro tende a generare gravi perdite di abilità cognitive nella persona, dato che, se è vero che “facendo si impara”, ancor più vero è che “si disimpara non facendo”. In un’epoca come l’attuale, caratterizzata dal fenomeno della quarta rivoluzione industriale, la relazione tra capacità tecnologiche e attività lavorative è biunivoca: nel processo di lavoro non solo si applicano le conoscenze già acquisite, ma si materializza la possibilità di creare ulteriori capacità tecnologiche. Ecco perché tenere a lungo fuori dell’attività lavorativa una persona significa negarle la sua fecondità. Poiché è attraverso il lavoro che l’essere umano impara a conoscere se stesso e a realizzare il proprio piano di vita, la buona società in cui vivere è allora quella che non umilia i suoi componenti, distribuendo loro assegni o provvidenze varie e, negando al tempo stesso l’accesso all’attività lavorativa.
La letteratura sulle politiche occupazionali è ormai schiera: si va dalle proposte volte a migliorare la qualità dei posti di lavoro, con interventi sul lato della domanda di lavoro, a proposte che incidono sul lato dell’offerta di lavoro allo scopo di ridurre lo “skills gap” intervenendo sul divario fra le competenze maturate a scuola e quelle richieste dal sistema produttivo. Senza questo divario la disoccupazione giovanile si ridurrebbe dal 28% al 16%. E ancora, vi sono coloro che propongono di favorire l’occupazione rispetto all’assistenza (make work pay) e coloro che invece suggeriscono di facilitare la transizione dalla disoccupazione assistita all’occupabilità (welfare to work) mediante l’aumento della flessibilità della prestazione, da non confondersi con la flessibilità dell’occupazione. Vi sono, infine, quelli che insistono sulle metacompetenze che incentivano a mantenere flessibilità di pensiero e ad arricchire le abilità relazionali. E così via.
Questi e tanti altri contributi contengono tutti grumi di verità e suggerimenti preziosi per l’azione. Tuttavia, non pare emergere da questa vasta letteratura la consapevolezza che quella del lavoro è questione che, in quanto ha a che vedere con la libertà sostanziale dell’uomo, non può essere affrontata restando entro l’orizzonte del solo mercato del lavoro. (F. Totaro, a cura di, Il lavoro come questione di senso, Macerata, Ed. Università di Macerata, 2009). Quel che occorre mettere in discussione è l’intero modello di ordine sociale, vale a dire l’assetto istituzionale della società, per verificare se non è per caso a tale livello che è urgente intervenire. Invero, pur non costituendo un fenomeno nuovo nella storia delle economie di mercato, l’insufficienza di lavoro ha assunto oggi forme e caratteri affatto nuovi che fanno pensare a cause di naturale strutturale, cioè non congiunturale, (connesse all’attuale passaggio d’epoca), quello dalla società fordista alla società post-fordista. Non si può continuare con un modello di ordine sociale basato sulla diade Stato Mercato. Occorre muovere passi decisi verso un modello tripolare Stato-Mercato-Comunità.
Mi piace terminare sottolineando come il conseguimento dell’obiettivo or ora indicato dipende, in ultima istanza, dall’assetto istituzionale, cioè dalle regole che una società di uomini liberi decide di darsi. Non c’entra la scarsità delle risorse, come troppo spesso si tende a credere o a far credere. Bisogna avere l’onestà intellettuale di ammettere che è dal modello di ordine sociale che si vuole forgiare che discende la possibilità o meno di realizzare la libertà del lavoro. Il capitalismo è uno, ma le varietà di capitalismo sono tante. E le varietà dipendono dalle matrici culturali che finiscono per prevalere nelle diverse epoche storiche. Non c’è dunque nulla di irreversibile nel capitalismo. La creazione di valore è tornata oggi – come già era accaduto all’epoca dell’Umanesimo civile del XV secolo – ad aver bisogno di persone, di relazioni tra le stesse, di significati. Nella stagione attuale, si produce valore autentico solo se si genera senso, in luoghi – prima di tutto luoghi di lavoro – che non separando dissennatamente dimensione soggettiva e dimensione oggettiva del lavoro, costruiscono occasioni concrete di libertà, la quale - mai lo si dimentichi - non può essere prodotta, né può essere scambiata al modo delle merci.
Il presente testo uscirà nel volume "Idee di lavoro e di ozio nella nostra civiltà”, in preparazione presso la Firenze University Press, a cura di G. Mari e A. Fermani, F. Ammannati, S. Brogi, F. Seghezzi, A.Tonarelli