Testo integrale con note e bibliografia
1. Un giuslavorista tra i più grandi.
Uno dei primissimi ricordi di Umberto Romagnoli è stato scritto, immediatamente dopo la sua scomparsa, da Manuel Carlos Palomeque López, noto ed autorevole catedrático di Diritto del lavoro nell’Università di Salamanca e direttore della rivista Trabajo e Derecho. Qui si legge che Romagnoli, dall’Università di Bologna, ha esercitato una straordinaria influenza intellettuale, fino ai confini del pensiero internazionale; che egli appartiene dunque al ristretto gruppo dei grandi, dei più grandi giuslavoristi, dei pochi privilegiati insomma cui può essere attribuita una considerazione così superlativa.
Il giudizio, certo influenzato anche dal dolore e dall’emozione del momento, fa immediatamente comprendere quanto rilevante sia stato il ruolo svolto da Romagnoli sulla formazione del contemporaneo Diritto del lavoro. Come inoltre ciò gli sia riconosciuto nella stessa sede internazionale, a partire dai giuristi dei Paesi di lingua e cultura ispanica.
2. La formazione giovanile: una scelta di metodo.
Umberto Romagnoli nasce nel 1935 a Bologna e si laurea nel 1958 in Giurisprudenza, con una tesi di Diritto processuale civile sulla “Successione a titolo particolare nel processo”.
Durante gli studi viene in effetti affascinato, come si dice in una approfondita intervista rilasciata allo storico del diritto Giovanni Cazzetta, soprattutto da due materie, allora entrambe insegnate da Tito Carnacini, gius-processualista allievo di Enrico Redenti, che poi sarà anche Rettore dell’Università di Bologna: il Diritto del lavoro ed il Diritto processuale civile.
Pur molto diverse. Quest’ultimo infatti «era una delle capitali più rinomate del mondo del diritto», dove «formalismo, concettualismo e dogmatismo» erano «ipervalorizzati»; mentre «epistemologia, paradigmi cognitivi e metodo» erano «rigorosamente ancorati allo ius conditum». Il Diritto del lavoro invece, per vicinanza e modalità di formazione, costituiva solo «una piccola provincia del sapere giuridico» .
Tito Carnacini dirigeva la Rivista trimestrale di diritto e procedura civile; nella cui sede a Bologna si riunivano pressoché tutte le sere i giovani componenti della redazione: tra di essi, quando anche Romagnoli comincia a frequentarla, Federico Mancini, che aveva appena pubblicato “La responsabilità contrattuale del prestatore di lavoro”, e Giorgio Ghezzi, qualche anno più giovane, pure già ben avviato agli studi di Diritto del lavoro. Proprio Mancini fa d’altra parte conoscere a Romagnoli «un suo grandissimo amico che ammirava al limite dell’invidia»: Gino Giugni. In particolare dall’incontro con Giugni – dirà sempre Romagnoli - «sprigionò la scintilla» che risultò decisiva.
Ecco dunque che si deve a tre uomini la scelta di Romagnoli di transitare dallo studio del Diritto processuale civile, dove pure aveva già ottenuto un premio per la migliore tesi di laurea, al Diritto del lavoro: si tratta appunto di Tito Carnacini, Federico Mancini e Gino Giugni. Questi, assieme al quasi coetaneo Giorgio Ghezzi, sono in effetti in origine e restano in seguito riferimenti fondamentali per la formazione scientifica e probabilmente anche per la stessa vicenda esistenziale e personale di Umberto Romagnoli.
Ebbene proprio attorno ai più giovani studiosi ora menzionati negli anni sessanta si forma, prima in un contesto ostile, se non irridente, e poi invece con crescente successo, fino a rendere l’approccio già ritenuto “eretico” centrale, in sede scientifica come accademica, il contemporaneo Diritto del lavoro in Italia.
I giuristi della scuola di Bologna, la cui genesi è stata assai brevemente descritta, assieme a quelli della scuola di Bari, fondata quasi contemporaneamente da Gino Giugni, pur con le differenze esistenti tra ciascuno di essi, in effetti promuovono e sostengono una dirompente novità di metodo: si trattava di «allargare la ricerca alle dinamiche che precedono e seguono la scrittura della norma». E «difatti è solo per questa via» - prosegue Romagnoli – «che sono arrivato a vedere la faccia nascosta del Diritto del lavoro».
Romagnoli condivise inoltre pressoché da subito un’altra rilevante esperienza formativa con Giugni: quella di stabilire, «con un piede dentro ed uno fuori dell’Università», contatti «diretti con la quotidianità del mondo della produzione», conoscendo dunque il profilo applicativo del sistema di regole investigato. Infatti per alcuni anni, a partire dal 1961, Romagnoli fu assunto e lavorò presso l’Italsider di Genova, proprio su segnalazione di Giugni, a sua volta allora consulente (ed anzi «organicamente inserito nella sede romana») dell’Iri.
Ebbene si deve a Romagnoli un contributo fondamentale, connesso strettamente alla nuova istanza di metodo, anti-dogmatica e anti-positivista. Allo stesso tempo però del tutto peculiare, anche nel confronto con gli altri rivoluzionari “innovatori”: Mancini e Giugni, per un verso; Ghezzi, il cui percorso dai primi in parte si distacca, sotto altro profilo.
3. Il contributo scientifico, la presenza nelle istituzioni.
L’attività di ricerca di Umberto Romagnoli emerge innanzitutto attraverso le opere monografiche. La prima delle quali risulta fortemente debitrice della stessa esperienza acquisita presso l’Italsider, a proposito di uno sconosciuto istituto che però «stava crescendo sotto i suoi occhi»: si tratta de “Il contratto collettivo nell’impresa”, del 1963.
A questa seguono “La prestazione di lavoro nel contratto di società”, del 1967, nonché “Le associazioni sindacali nel processo”, del 1969, importanti studi ora di carattere più tradizionale, nel panorama scientifico ad essi contemporaneo, accompagnati però da ricostruzioni di carattere storico inconsuetamente approfondite.
Proprio in questa occasione Romagnoli in effetti acquisisce consapevolezza del fatto «che la storia giuridica non è prologo in cielo né scolastica erudizione. E’ comprensione e ricostruzione in chiave diacronica dei nessi tra logica giuridica e trasformazione della società, è lettura critica degli svolgimenti normativi finalizzata all’attualizzazione del passato e alla storicizzazione del presente».
Romagnoli tornerà a privilegiare la ricerca empirica sull’approccio storico in “Contrattazione e partecipazione”, nel 1968, dove si cimenta nella analisi critica di una concreta esperienza di relazioni industriali maturata presso l’impresa tessile lombarda Bassetti. Nel contempo assume, in quei medesimi anni, un ruolo centrale nella ricerca sulla formazione extra-legislativa del diritto, condotta in collaborazione fra l’Università di Bari e quella di Bologna.
Matura però alla fine degli anni sessanta l’opinione che «la ricerca storico-giuridica possiede una valenza euristica nettamente superiore rispetto ad ogni altra». In tal modo facendo proprio un approccio raro, allora come oggi, tra i giuristi del lavoro, che mai più abbandonerà; e che lo ha oltremodo caratterizzato, nello scenario non solo nazionale.
Merita allora senz’altro ancora ricordare, tra le opere di Romagnoli, la partecipazione, assieme a Giorgio Ghezzi, Federico Mancini e Luigi Montuschi, al notissimo “Commentario allo Statuto dei lavoratori” del 1972, sorta di momento fondativo della scuola di Bologna, ritenuta sempre da Romagnoli, sia pure solo per un breve lasso di tempo, una «scuola di pensiero» (così descritta: aristocratica e informale, laica, meritocratica) e non una «scuola accademica». Ancora gli importanti contributi nel “Commentario della Costituzione”, a cura di Giuseppe Branca (e poi Pizzorusso): sull’articolo 3, nel 1975; sull’articolo 40, nel 1979; a proposito delle norme sull’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali, insieme a Maria Vittoria Ballestrero, nel 1994.
Tuttavia sono numerosissimi i saggi ma anche le monografie, a due o più mani, di carattere storico. Tra queste ultime “I sindacati in Italia: storia di una strategia (1945-1976)”, scritto insieme a Tiziano Treu, del 1977; “Il lavoro in Italia. Un giurista racconta”, del 1995; “Giuristi del lavoro. Percorsi italiani di politica del diritto”, del 2009; infine “Giuristi del lavoro nel novecento italiano. Profili”, del 2018.
Romagnoli d’altra parte è stato autore di importanti pubblicazioni pensate anche o soprattutto per la didattica. Risale in effetti al 1973 la raccolta di saggi, curata insieme a Federico Mancini, su “Il diritto sindacale”, avente «intento dichiaratamente sperimentale, perché avrebbe voluto sostituirsi al manuale». Al 1982 e poi 1984 invece la stesura di un vero e proprio manuale concernente rispettivamente il Diritto sindacale ed il Diritto del lavoro, scritto insieme al “fratello maggiore” Giorgio Ghezzi: una delle opere più significative in assoluto in Italia, nel genere, che poi vedrà molteplici edizioni, fino al 2000.
Umberto Romagnoli, dopo averla a lungo frequentata, è stato dal 1984 condirettore della Rivista trimestrale di diritto e procedura civile. Nel 1987 ha quindi fondato Lavoro e diritto, con il contributo fondamentale di Guido Balandi e Luigi Mariucci, a lui nel 2017 subentrati nella direzione: una rivista da cui ci si attendeva «agisse da fattore di riaggregazione programmaticamente aperto ad apporti stranieri e diventasse un luogo di ricerca frequentato da giuristi del lavoro che si riconoscessero in una certa idea di diritto del lavoro». Come ritengo sia effettivamente avvenuto.
Romagnoli ha infine assunto pure assai significativi ruoli di carattere istituzionale. In ambito accademico, dove è stato preside della Facoltà di Scienze politiche e quindi componente del Consiglio di Amministrazione dell’Ateneo di Bologna. Come membro della Commissione di garanzia per l’attuazione della legge n. 146 del 1990 sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali. Quale componente del Comitato direttivo dell’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN).
4. Tra scienza e lettere.
L’utilizzo della storia giuridica come strumento euristico ed ermeneutico, nell’analisi dell’ordinamento, caratterizza dunque in modo eminente l’itinerario scientifico di Umberto Romagnoli.
Non si tratta però dell’unico aspetto che rende unica e peculiare la sua opera. Chi legge infatti un suo scritto incontra una prosa del tutto inconsueta tra i giuristi.
Guido Balandi, commemorando Umberto Romagnoli presso la Cappella dei Bulgari dell’Archiginnasio di Bologna, il giorno 15 dicembre, ha usato al riguardo il verbo «cantare». Ha parlato di una scrittura «elegante e ricca, ricchissima, di metafore, allusioni, richiami, esempi … la severità nei confronti di sé stesso e il suo stile di vita, non quello letterario, gli impedivano di dirlo, ma sono convinto che si sentisse un poeta».
L’utilizzo di immagini, accanto a riferimenti colti (di carattere letterario, storico, filosofico, politico, sindacale), per descrivere il proprio pensiero, è emerso progressivamente e sempre più chiaramente nel tempo. Sono così diventate numerose le figure consuetamente utilizzate da Romagnoli.
Chi non ricorda – aggiunge sempre Guido Balandi nell’occasione indicata – gli «uomini dal colletto blu e le mani callose» o «il lampione che non illumina la strada ma sorregge l’ubriaco»?
O che «al lavoro è stata concessa la parola a patto di non alzare troppo la voce»? Mentre il contratto collettivo di diritto comune risulta somigliante «ad un grande serbatoio idrico sprovvisto dell’impianto capace di trasformare l’energia potenziale dell’invaso in energia cinetica e di trasportare l’elettricità in tutte le abitazioni»?
Federico Martelloni, sempre in occasione della commemorazione presso la Cappella dei Bulgari, ha precisato che la lettura di «alcune pagine» di Romagnoli lo faceva pensare a «Italo Calvino. Quello delle Lezioni americane e delle città invisibili. Come in Calvino, credo ci siano, negli scritti di Romagnoli, immagini, metafore, paragoni, suggestioni che per molti giuslavoristi costituiscono una sorta di linguaggio formulare. Tanto che molti di noi non riescono a fare a meno di citarlo. Anche senza volerlo».
Chi scrive, durante il medesimo triste evento, ha parlato di una scrittura forse più vicina ai canoni normalmente impiegati da uno storico dell’arte quando descrive un’opera o un artista, piuttosto che a quelli dei giuristi.
D’altra parte ad essere per alcuni aspetti “magica”, in Romagnoli, non era solamente la scrittura. Anche l’esposizione orale, a lezione o durante un seminario o convegno, risultava imprevedibile nello svolgimento; piena di riferimenti, buona parte dei quali inconsueti; in più occasioni “incantatrice”.
Comunque mai piatta. Certo intraducibile in termini semplificatori ed impossibile da realizzare attraverso slides o simili.
Dunque l’utilizzo della similitudine, della metafora, dell’ossimoro – e di altre figure retoriche – sia in forma scritta che orale, per Romagnoli è nel tempo divenuto strumento fondamentale di analisi e descrizione. Dei contenuti del sistema giuridico nella sua evoluzione però, come già si diceva, non delle singole norme.
5. La grande considerazione nel mondo ispanico.
Romagnoli, assieme a Giugni, Mancini, Ghezzi, come ad alcuni altri insigni studiosi italiani, è un riconosciuto maestro del Diritto del lavoro anche in ambito internazionale. Senz’altro in Europa, peraltro particolarmente importante per il Diritto del lavoro, posto che questo è sempre stato da lui descritto, a ragione, come «il più euro-centrico dei diritti».
Tuttavia nei Paesi di cultura ispanica la sua notorietà va ben oltre. Come testimoniato pure dai numerosi riconoscimenti ricevuti. Infatti nel 1994 l’Università San Marcos di Lima lo ha nominato “Profesor visitante”. Mentre nel 1996 l’Università di Castilla-La Mancha, nel 2004 l’Università di Buenos-Aires, nel 2006 la Pontificia Universidad Catòlica del Perù, a Lima, gli hanno conferito la laurea “honoris causa”.
Credo che questo si debba a molteplici ragioni.
Romagnoli intanto, assieme innanzitutto ai giuristi italiani sopra nominati, viene invitato in Spagna, subito dopo la caduta del franchismo, in un processo di scambio che rende la dottrina giuslavoristica italiana un riferimento assai prezioso e considerato, per la edificazione del nuovo Diritto del lavoro spagnolo. Intreccia in tal modo feconde e strette relazioni con studiosi pressoché coetanei come Miguel Rodriguez Piñero; anche però e soprattutto più giovani, come Antonio Baylos e Joaquin Aparicio Tovar, formatisi alla Università Complutense e poi entrambi trasferitisi presso la nuova Università di Castilla-La Mancha.
D’altra parte i non pochi studenti spagnoli di Diritto del lavoro che nel tempo hanno frequentato a Bologna il Collegio di Spagna, istituzione e struttura tanto antica quanto ancora prestigiosa - molti dei quali poi protagonisti in Spagna di assai brillanti carriere, in sede accademica e non solo - hanno costantemente ricercato l’ausilio di Romagnoli, per l’attività di ricerca, ottenendo sempre attenzione.
C’è però una ulteriore, particolarissima vicenda che ha avuto probabilmente un ruolo fondamentale nel rendere Romagnoli così conosciuto, ora soprattutto in Sud America. Si tratta della organizzazione di un “corso di specializzazione per esperti latino-americani in relazioni industriali e diritto del lavoro”, nei diversi momenti di due o tre settimane, avvenuta alla fine degli anni ottanta. Su invito di un esule con doppia cittadinanza, cileno ed italiano, già molto vicino alla famiglia Allende e scampato miracolosamente al golpe del 1973, poi divenuto funzionario dell’Oil: Pedro Guglielmetti.
Questi presentò originariamente a Giugni la sua proposta, che poi lo inviò a presentarla a Romagnoli.
Ebbene Guglielmetti, con diffusissimi contatti nell’intero Sud-America, e Romagnoli, quale referente scientifico e didattico, daranno appunto vita ad un corso rivolto a giovani conoscitori del Diritto del lavoro dell’intero Sud-America (avvocati, giudici, sindacalisti di parte dei lavoratori e datoriale, docenti universitari, funzionari pubblici, dirigenti di impresa); cui erano in origine offerte a Bologna lezioni, da parte di professori sia dell’Università di Bologna che di altri Atenei, tra i quali Giugni, Treu ed altri. In origine senza alcuna spesa per i corsisti, perché le pubbliche istituzioni italiane (Ministero degli Esteri, Regione Emilia-Romagna, Provincia e Comune di Bologna) offrivano loro una capiente borsa (“beca” in spagnolo).
Il “curso”, la cui prima edizione risale al 1988/89, in concomitanza con i festeggiamenti del novecentenario dell’Ateneo bolognese - tra alterne vicende, con alcuni anni di sospensione; poi formule diverse, che hanno condotto al coinvolgimento dell’Università di Castilla-La Mancha, dove da vari anni peraltro si tengono integralmente le lezioni, sia pure con partecipazione anche di docenti italiani – ha avuto ben ventisette edizioni. L’ultima di queste si è tenuta a Toledo nel 2019, poco prima del covid.
Mentre associazioni costituite dai numerosi ex frequentanti (gli “ex-becarios”), alcuni dei quali hanno peraltro assunto un ruolo di assoluto rilievo nel proprio Paese, come Ministri o giudici della Corte costituzionale ad es., hanno contemporaneamente organizzato in Sud-America convegni annuali di diritto comparato.
Una operazione straordinaria insomma di trasferimento di conoscenze ed esperienze come anche - e forse soprattutto - di metodologie di approccio, con valenza di carattere culturale e politico, che ha visto indiscusso protagonista Umberto Romagnoli.
Ciò detto però è talmente grande la considerazione di cui questi gode, nei Paesi ora nominati, che probabilmente occorre menzionare anche altro per provare a darne conto.
Forse è allora risultato molto importante il duplice aspetto caratterizzante di cui già si diceva. Cioè il costante confronto dell’opera come dell’insegnamento di Romagnoli con il sistema giuridico, nei suoi formanti, storicamente analizzati: ciò rendendo possibile un dialogo costruttivo sugli ordinamenti, pure molto diversi tra loro.
Forse anche l’utilizzo di una lingua, scritta e parlata, tanto ricca quanto suggestiva, posto che questa costituisce elemento tipico di tanta parte della letteratura sud-americana.
6. Tra impegno e disincanto.
E’ pressoché impossibile – e per forza di cose impoverente - tracciare un profilo sintetico di un intellettuale, prima che un giurista, di personalità così forte, ricca e complessa nonché statura così elevata, come sono quelle di Umberto Romagnoli.
Forse solo lui - cui si deve una approfondita analisi pure del ruolo svolto dalla dottrina, nello sviluppo del Diritto del lavoro nazionale; che ha realizzato inoltre dei veri e propri profili descrittivi dello «star system accademico dove generazioni di viandanti bisognosi di lampioni che illuminassero la strada hanno fatto entrare, per sdebitarsi, i pochi giuristi-scrittori capaci di accenderli» – sarebbe stato in grado. Non certamente chi scrive.
Negli ultimi venti anni tuttavia - quelli in cui ho avuto l’occasione, il piacere e l’onore di frequentarlo; risultando coinvolto nel “curso” di Toledo, invitato ai convegni sud-americani degli “ex-becarios”, inserito nella redazione di Lavoro e Diritto – Romagnoli si è a me mostrato, in sede pubblica e privata, con determinate caratteristiche, cui in questi giorni ho più volte ripensato.
Intanto io ho ricordo dell’impegno che Romagnoli mostrava, in tutte le cose che lo interessavano e coinvolgevano. Che non erano poche.
Un impegno culturale ma anche, lato sensu, politico, rispetto alla programmazione come alle iniziative di Lavoro e Diritto; inoltre agli intensi rapporti, cui teneva moltissimo, con il mondo ispanico.
Un impegno inoltre sindacale e, di nuovo, lato sensu politico, considerata la stretta relazione, in questo frangente temporale, con la Fondazione Sabattini e con la Fiom di Maurizio Landini, soprattutto, oltre che con la Cgil.
Frutto anche questo di un percorso evolutivo. Perché se Romagnoli è sempre stato vicino al sindacato dei lavoratori, pur non infrequentemente criticato, ed attento ai bisogni come alla protezione dei prestatori, senza paternalismi, era probabilmente il modello culturale e progetto cui guardava la Cisl – ma si tratta di personale e forse errata inferenza - ad interessarlo e convincerlo maggiormente, in fase giovanile. Come peraltro è possibile dire anche per Mancini e Giugni.
Nel nuovo secolo invece, in presenza di radicali «cambi di passo», Romagnoli registra che «il lavoro è sotto attacco e c’è chi sta preparando il trionfo, anzitutto sul piano politico-culturale, dell’offensiva contro il movimento sindacale. In tutti i paesi industrializzati ne è rinvenibile il momento o evento emblematico».
Ciò lo conduce ad esprimere forti critiche nei confronti di provvedimenti come l’art. 8 del decreto-legge n. 138 del 2011 o il d. lgs n. 23 del 2015 ad es.. Inoltre a realizzare un significativo avvicinamento al sindacato già diretto da Maurizio Landini, con cui la collaborazione è stata intensa.
Accanto a questo aspetto sono però anche risultate costanti le critiche ad ipotesi di soluzione che Romagnoli non riteneva realistiche; frequenti gli atteggiamenti poco o per nulla inclini ad immaginare evoluzioni pure ritenute positive, ciò inducendo anche stretti amici – a partire da Guido Balandi e Gigi Mariucci - ad “accusarlo” di eccesso di pessimismo.
Umberto Romagnoli tuttavia – credo sia in realtà corretto dire – pur non concedendo nulla a scenari che riteneva superati ed irrecuperabili, non ha mai rinunciato a ricercare una prospettiva che rappresentasse e potesse condurre ad una almeno accettabile soluzione. Come peraltro innanzitutto testimoniato dall’impegno di cui si diceva, mai venuto meno e che in realtà molto lo gratificava.
E allora invitava a «imparare a disimpararare»; mai a rinunciare.
E’ vero ancora così che il lavoro non appariva più a Romagnoli in grado di garantire alle persone la cittadinanza, a differenza di quanto avvenuto nel secolo scorso. Però egli nel contempo riteneva che in sostituzione un ruolo centrale, quanto alla garanzia dei diritti, dovesse - ma anche e soprattutto potesse - piuttosto essere svolto (e fosse garantito dalla) cittadinanza medesima .
Concentrando l’attenzione su quanto avvenuto in questo secolo, è allora forse il disincanto, più che il pessimismo, ad aver caratterizzato la sua analisi, cui peraltro troppe volte è toccato in sorte di risultare corretta. E’ l’impegno ad aver costituito aspetto centrale della sua personalità di intellettuale e giurista. Mentre lo sguardo verso nuovi scenari, pur necessariamente da aggiornare, cui affidare con qualche speranza le sorti degli «uomini dal colletto blu e le mani callose», non è mai venuto meno.