Testo integrale con note e bibliografia
Parlare di Riccardo avvocato è difficile quanto parlarne come professore, poiché ogni considerazione potrà tornare inadeguata rispetto allo spessore professionale: pertanto mi scuso, innanzitutto, della presunzione di aver accettato la proposta dell’amico Piero Martello.
Non posso cominciare se non con la prima conoscenza di Riccardo. Fu a Londra nel 1999, lui impegnato in studi comparatistici allo IALS ed io “solicitor” in una legal firm in Saint James.
Sapemmo per caso della reciproca presenza a Londra per qualche tempo; fu così che iniziarono le nostre “conversazioni londinesi”.
Si parlava di tutto fuorché di diritto: dai ricordi liceali (il comune amore per il Leopardi) ai primi patemi amorosi (sempre liceali) da giovane Werther, fino ad arrivare alla fede per scadere nel calcio ! (una volta vedemmo insieme una partita del Chelsea).
Cenavamo sempre nel solito ristorante, quasi tutte le sere in Jermyn Street.
Sobrio per natura, anche nel cibo si accontentava di una fettina di carne alla griglia.
Furono serate in libertà, due uomini soli, che si confidavano come se fossero stati amici da sempre. Tornati a Firenze, ci rivedemmo all’Università ed, ovviamente, in udienza, avversari.
Come avvocato manteneva quella chiarezza espositiva che, del resto, contraddistingueva anche i suoi scritti accademici. In questo senso aderente all’insegnamento del suo maestro che ribadiva come la chiarezza fosse l’onestà dello studioso.
Lo ricordo, particolarmente, in tre cause: nella prima in cui rivendicava la subordinazione per la sua assistita; nella seconda in cui difendeva un’impresa contro la richiesta danni per la morte di un dipendente a causa dell’amianto; nella terza, la più recente in Cassazione, in cui il datore lo aveva “chiamato” dopo due gradi di merito persi da altro legale, sperando che il professore riuscisse a rimettere in pista la controversia.
Merito o legittimità che fosse, lo ricordo, soprattutto nella discussione orale, mantenere la sobrietà (appunto tipica della sua personalità), condita spesso da sottile ironia non sempre avvertita dai colleghi.
Eppure con quella ironia leggera, ma sapida, completava efficacemente i suoi scritti difensivi.
Ripeto, ironia, non sfottente, bensì leggerissima come solo un intellettuale fine (e studioso) come lui poteva manifestare.
Mai prevaricatore o arrogante nei confronti anche del più giovane collega appena approdato alla professione; non faceva mai pesare la sua profonda (forse insuperabile) preparazione accademica.
Tono di voce pacato, e per questo convincente: disponibile a riconoscere fatti su cui era inutile essere pretestuoso, tanto poi li superava in diritto.
Questa sua “serenità” espositiva riusciva a stemperare anche il più aggressivo dei colleghi.
Davanti a sentenze ingiuste (o presunte tali) che talora anche lui “subiva”, non si indignava, ma le accettava con la filosofia di chi ne sa di più e deve portare pazienza: perché fa parte del gioco (del caso) della vita professionale.
Un’ultima nota.
Gli amati studi liceali e la scuola di un maestro come Giuseppe Pera lo avevano abituato ad un rigore linguistico esemplare da docente di letteratura: non c’era un rigo difensivo né una parola detta che non fosse appropriata, meditata, calzante.
Le sue difese scritte erano letterariamente godibilissime: nascondevano il mal celato letterato prestato superbamente al diritto.
A questo riguardo un ricordo familiare: mia figlia Claudia si laureò con lui con una tesi sulla protezione dei disabili.
In una proposizione lei utilizzò l’aggettivo “ gattopardiano”. Mi raccontò che Riccardo era sbottato: “ Signorina, gattopardesco” (ho verificato che si può dire indifferentemente, ma “gattopardesco” era più finemente adeguato al concetto espresso).
Era altrettanto esigente anche nelle sue memorie, puntuale con un’acribia che l’onestà della chiarezza (ontologica in lui, se così posso dire) gli imponeva per essere fedele a se stesso.