Maurizio Cinelli è nato il 26 agosto 1942 a Castel d’Emilio, borgo nel Comune di Agugliano (AN), nella casa di campagna dei nonni materni, ex convento francescano dal Comune assegnato come abitazione del medico condotto, il nonno, e della sua famiglia, e, nel contempo, sede per visite e cure ambulatoriali della condotta medica; in quella stessa casa, tre anni dopo, sarebbe nata anche la sorella. Dall’inizio dell’età scolare è vissuto in Ancona; ivi ha intrapreso gli studi classici presso il locale liceo Rinaldini, completandoli, per gli ultimi due anni, presso il liceo Leopardi di Macerata. In quella città tuttora risiede.
Si è laureato in Giurisprudenza presso l’Università di Macerata con 110/110 e lode, discutendo la tesi in diritto civile, relatore Stefano Rodotà. Da quasi sessant’anni esercita la professione di avvocato.
L’attività di docenza universitaria ha avuto alterne vicende. Assistente straordinario di diritto civile presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Macerata dal 1970 al novembre 1971; rassegnate le dimissioni da assistente universitario, dalla fine del 1971 al 1987 è stato legale dell’Inps. Avendo vinto nel 1986 il concorso a cattedra di diritto del lavoro di prima fascia, risolto il rapporto di impiego con l’Ente previdenziale, dal 4 marzo 1987 ha preso servizio presso la Facoltà di giurisprudenza dell’Università di Perugia, dove ha insegnato fino all’anno accademico 1999-2000, da quell’anno passando alla cattedra di diritto del lavoro della Facoltà di Giurisprudenza dell’ Università di Macerata, dove ha insegnato fino alla data del pensionamento.
Nel medesimo arco temporale ha svolto per brevi periodi attività di docenza presso la “Scuola di specializzazione in diritto civile” dell’Università di Camerino, e presso la LUISS di Roma. Dal 1971 a tutt’oggi, continuativamente, è docente presso la “Scuola di specializzazione in diritto sindacale, del lavoro e della previdenza sociale” dell’Università di Macerata, della quale è stato anche Direttore. Dal 2002-2014 è stato Direttore della “Scuola di specializzazione per le professioni legali” delle Università di Camerino e di Macerata.
Consigliere di amministrazione dell’ENPAM dal 1996 al 2000, è stato componente di commissioni ministeriali nominate dal Ministero del Lavoro e dal Ministero della Giustizia, aventi ad oggetto la riforma del processo del lavoro e la riforma della previdenza sociale.
Già Presidente della Sezione Umbria del Centro Nazionale Studi Diritto del Lavoro “Domenico Napoletano”; Presidente della Sezione Marche AGI, Avvocati Giuslavoristi Italiani; membro del Comitato scientifico della “Scuola Superiore dell’ Avvocatura”; dal 2014 è Presidente della Sezione Marche del CSDN, oltre che membro del Comitato direttivo nazionale di questo stesso Centro.
È fondatore e direttore responsabile della “Rivista del diritto della sicurezza sociale”, dal 2001 edita dalla Casa editrice Giappichelli di Torino e dal 2008 edita dalla Casa editrice Il Mulino di Bologna. È, o è stato, Direttore delle Collane “Dottrina e giurisprudenza sistematica di diritto della previdenza sociale”, Utet, Torino; “Biblioteca delle professioni”, Maggioli, Rimini; “Monografie e ricerche di diritto della sicurezza sociale” (con G. Ferraro e R. Pessi), Giappichelli, Torino; “Manuale modulare di diritto del lavoro”, Giappichelli, Torino. Fa parte del Comitato scientifico di molte delle principali riviste giuridiche di diritto del lavoro e della sicurezza sociale. Fin dalla fondazione, dal 1983, fa parte del Comitato di direzione della rivista “Diritto e lavoro nelle Marche”.
Lasciando da parte il periodo precedente, sul quale ci hai già sinteticamente ragguagliato con la nota biografica, ti chiedo, innanzitutto, qualche notizia, per così dire, degli “antefatti” su: gli anni degli studi universitari, i tuoi compagni di corso, i professori, le vicende più rilevanti: insomma, su quanto di significativo abbia caratterizzato il periodo in cui sei stato studente universitario. Cominciamo proprio da quest’ultimo punto: come ti ricordi da studente?
Se vado col pensiero a quando ero studente universitario, una cosa che mi ricordo è che esisteva una sostanziale divisione tra gli studenti provenienti da fuori Macerata e i locali. I primi, in tendenziale maggioranza rispetto ai locali, organizzavano tra di loro svaghi e iniziative varie, che, di regola, tendevano a riservare ciascuno al proprio gruppo. All’epoca, d’altra parte, eravamo veramente pochi: ricordo che i frequentanti del primo anno superavano di poco le due decine; non dimentichiamo che l’Università di Macerata in quegli anni (prima metà degli anni Sessanta) aveva solo la Facoltà di giurisprudenza.
Di fatto, per quanto mi riguarda, so di aver svolto gli studi con costanza e assidua frequenza alle lezioni, comunque senza privarmi delle mie abitudini e dei miei svaghi. Insomma: vita universitaria poca, studio il giusto, divertimenti q.b.
E per quanto riguarda i professori, quali particolari ricordi hai?
Per gli studenti del primo anno, allora come oggi, uno dei primi dilemmi da sciogliere è quello dell'ordine in base al quale affrontare gli esami, e, in particolare quale sostenere per primo; un dilemma che normalmente si affronta avendo cura di avvicinarsi per gradi alle difficoltà dello studio universitario e, quindi, scegliendo, per il debutto, esame ed esaminatore, per così dire, più agevolmente abbordabili.
Ricordo di aver assunto al proposito una decisione abbastanza controcorrente per il mio esordio. Contrariamente alle scelte dei più, come primo esame affronto quello che viene da tutti considerato il più difficile: l'esame di diritto privato con Raffaele Cicala; un debutto coronato da successo, che, da subito, mi dà un buon abbrivio per gli esami successivi.
Ma lasciamo da parte la questione degli esami. Tra i docenti dei quali più vivo è il ricordo si colloca un altro professore del primo anno, titolare della cattedra di diritto costituzionale, Giuseppe Abbamonte. Grande emozione ho provato quando, tanti anni dopo, in occasione della trattazione di una questione davanti alla Corte costituzionale, l’ho di nuovo incontrato, anche lui nella sua veste di difensore: mi ha riconosciuto, e mi ha chiesto, come se si riferisse a circostanze di pochi mesi prima, notizie sugli studenti di allora, facendo riferimento, addirittura nominativamente, ad alcuni di questi, tra i quali, in particolare, Paola Olivelli.
Quanto ai docenti degli anni successivi, ricordo che l’insegnamento di diritto lavoro è affidato a Spagnuolo Vigorita, non già Luciano, bensì il fratello Vincenzo, amministrativista: indubbiamente in quel periodo il diritto del lavoro non era di certo tra le materie principali.
Conosco poi un giovanissimo, già carismatico Paolo Grossi: come immaginare in quel momento che un giorno mi avrebbe ricevuto – insieme ad altri colleghi parimenti coinvolti, in veste di docenti, nell’iniziativa di aggiornamento professionale per magistrati della Corte dei conti, promossa da Aldo Carosi e Silvana Sciarra – nel suo studio di Presidente della Corte costituzionale ?
Ricordo, poi, per le sue, diciamo così, “originalità”, per le quali era noto, Mario Miele, ordinario di diritto internazionale, del quale anni dopo, con gradita sorpresa, ho avuto modo di leggere su una rivista letteraria una gustosa e intensa rappresentazione della società maceratese degli anni 50’-60’, vista con gli occhi di un giovane professore universitario, proiettato in quel piccolo Ateneo. È a lui, comunque, che debbo la prima borsa di studio all’estero (concretamente fruita, poi, presso l’Università di Colonia), che mi affretto a chiedere, cogliendo al volo un suo invito genericamente rivolto agli studenti presenti e la contestuale offerta della prescritta lettera di referenze di un docente universitario; trattandosi di richiesta da stilare in parte in lingua tedesca, chiedo l’aiuto di una mia collega di corso di madre lingua tedesca (con lei e con l’altro compagno di corso, marchigiano, che l’ha sposata, avrei poi stretto un’amicizia che tuttora dura): l’aiuto, unitamente alla lettera di referenza del professore, mi vale il conseguimento della borsa.
Nel terzo anno di corso seguo le lezioni del giovane ordinario di diritto civile, Stefano Rodotà; resto particolarmente colpito e divengo un assiduo frequentatore del corso. Ma credo che, al proposito, vorrai farmi delle domande specifiche su Rodotà, anche in riferimento al periodo successivo, quando, da laureato, il rapporto con l’Università inevitabilmente cambia fisionomia ed io inizio a frequentare, da assistente volontario, la cattedra.
Certo che dovrai rispondermi a qualche domanda sui rapporti con Rodotà. Prima ancora vorrei chiederti: ci sono degli episodi particolari, o aneddoti, relativi a quel periodo, per il quali tu nutra un particolare ricordo?
A dire il vero non pochi sono gli episodi risalenti ai miei primi contatti con la realtà accademica, e, quindi, al mio primo periodo maceratese, impressi nella mia memoria per qualche loro particolarità. E, dunque, mi appresto senz’altro a rispondere alla domanda,
Prima vorrei precisare, però, che, pur trattandosi dell’Università della mia città, e quella presso la quale mi sono laureato, al nuovo approccio quella stessa Università assume ai miei occhi una diversa fisionomia, che mi fa sentire alquanto spaesato – forse come avviene a tutti all’inizio di un’esperienza così delicata e totalizzante, o forse di più: non saprei dire –; e forse è anche per questo che gli episodi che ho impressi nella memoria, in prevalenza sono slegati l’uno dall’altro, non sempre collocabili secondo la giusta sequenza temporale.
Ma vi sarà pure qualche ricordo più intenso e vivido, che spicchi tra gli altri, o no?
Ebbene sì, tra questi frammentari ricordi alcuni si distinguono dagli gli altri per intensità. Tra questi, in particolare, il ricordo legato ad uno dei miei primi incontri “eccellenti”: l’incontro con Rosario Nicolò.
Mi vedo ancora, da pochissimo tempo assistente volontario di Stefano Rodotà, nella lussuosa auto del professore (una Bentley o una Rolls-Royce, non ricordo bene), seduto accanto a lui sul sedile posteriore, ma (ne sono sicuro), timidamente appoggiato appena sul bordo estremo di esso. Sto cercando di assolvere al meglio la corvée assegnatami: indicare all’autista la strada per raggiungere la località della riviera del Conero (mi sembra che si trattasse di Numana) dove si sarebbe svolto il convegno cui egli è diretto. “E allora tu saresti mio nipote!”: queste le parole che, inaspettatamente, mi rivolge; per aggiungere subito dopo, con bonomia, a fronte del mio evidente smarrimento (e della altrettanto evidente mia ignoranza su come possano essere intese le “parentele” in ambito accademico), “… visto che sei figlio di Rodotà”. E ho impresso il suo sguardo, i suoi occhi penetranti, quasi magnetici, dotati di quella stessa luce che in parte ritrovai, anni più tardi, ormai consolidato professore, negli occhi della figlia, Angela Nicolò Punzi, mia Collega durante il periodo di insegnamento presso l’Ateneo perugino.
Qual è stato il tuo approccio professionale al mondo accademico in questa prima fase della tua esperienza?
Mi stai invitando a raccontare, in pratica, di qualcosa che io stesso, riflettendo su quel periodo, non sono sicuro di riuscire a ben definire o comunque a “leggere” in maniera che mi appaghi completamente: con quali intenti e con quanta convinzione, che genere di comportamenti ho assunto nei confronti del prestigioso docente, e quali immagini di me posso aver accreditato: è quanto mi domando io stesso.
Dico ciò non per sottrarmi alla domanda, alla quale, anzi, rispondo molto volentieri. E lo faccio, credimi, come se non si trattasse di me, ma di una terza persona: tanto particolare e lontana mi sembra essere stata quella mia giovanile, acerba esperienza accademica. Un’esperienza certamente segnata da una mia non ancora matura consapevolezza delle valenze di quel mondo; un personale approccio, comunque, che avverto così diverso, già in quei primi personali svolgimenti, da quanto segna le prassi attualmente correnti (che più tardi avrei imparato a conoscere), proprie di coloro che oggi, con impazienza più o meno giustificata, si affannano per acquisire (talvolta, per forzare) l’accesso alla carriera universitaria.
Debbo però aggiungere, per non fare troppo torto a me stesso, che, con lo sguardo retrospettivo di oggi, mi sembra di poter cogliere, anche in quella fase iniziale della mia vita di professionista e studioso, la tenacia e l’indipendenza che, nel bene o nel male, mi riconosco come qualità che hanno caratterizzato (e per certi aspetti condizionato) l’intero corso della mia carriera, tanto come professore universitario, quanto come avvocato.
Quali sono i fatti o le vicende che ti hanno dapprima attratto e poi indotto ad abbandonare l’istituzione universitaria quando già vi eri entrato, considerato che avevi vinto, ormai, il concorso per assistente ordinario di diritto civile?
Mi stai invitando a ricostruire una vicenda che ha vari svolgimenti e sfaccettature, anche singolari, sui quali potrei intrattenermi a lungo: con il rischio però di annoiare, riferendo dettagli non interessanti.
Dunque, è forse preferibile che il mio racconto si concentri sugli aspetti che tu, quale esperto intervistatore, ritieni che io debba privilegiare, soffermandomi su di essi.
Sì, mi sembra giusto; e, allora, cominciamo dalla tua frequentazione di Stefano Rodotà. Come sono stati i rapporti che hai intrattenuto con lui? Che evoluzione hanno avuto?
Già l’argomento che Stefano Rodotà mi propone per la tesi di laurea, “Il problema della responsabilità civile per ingiusta lesione di interessi legittimi”, presenta, considerata anche l’epoca (siamo alla fine dell’anno 1964, e quella problematica comincia a porsi proprio in quel periodo), tratti di singolarità, oltre che una evidente complessità. Ma è indicazione che implica anche una anticipatoria, positiva sollecitazione pedagogica (della quale in seguito ho cercato di far tesoro) a non trascurare, quale che possa essere l’argomento oggetto di analisi, la prospettiva interdisciplinare.
Sta di fatto che mi dedico con particolare impegno allo studio del tema assegnatomi e riesco a conseguire la laurea con il massimo dei voti e la lode: Rodotà mi accoglie subito come assistente volontario.
Inizia così un periodo di stretto apprendistato, durante il quale, di fatto mantenendomi nel medesimo settore di riferimento dell’ argomento oggetto della tesi di laurea, coltivo il tema della responsabilità civile, uno dei temi cari al Maestro.
Sul finire del 1967 mi viene conferito l’incarico ufficiale di assistente, e quindi il relativo trattamento economico. Il tempo però per poter consolidare quell’esperienza di studio e interpersonale, e trarne tutti gli ammaestramenti e potenziali benefici, finisce per essere molto poco. Nell’estate del 1968, alla soglia del compimento del 26º anno di età, inevitabilmente parto come militare di leva, quale allievo ufficiale dell’Arma aeronautica, con destinazione Firenze, “Scuola di guerra aerea” (così allora si denominava).
Completati i prescritti tre mesi di corso in detta Scuola, nella cornice (“amena”, come la si definisce, ma solo se vista al di fuori delle mura della caserma) delle Cascine, svolgo la parte residua del periodo di servizio militare nella mia città, grazie all’assegnazione alla “Scuola allievi ufficiali dell’aeronautica”, che all’epoca aveva sede, appunto, a Macerata.
Una assegnazione per me molto comoda, ottenuta senza molte difficoltà. E se mi chiedi come ciò sia potuto accadere, ti rispondo che ciò è dipeso da due fattori ben precisi e concomitanti: primo, la mia collocazione alta nella graduatoria all’esame di fine corso, con conseguente buona collocazione nell’ordine di lista per la prenotazione delle destinazioni preferite; secondo, Macerata non interessava a nessuno!
Tale rientro nella mia città, comunque, mi consente di riprendere, nel tempo libero dal servizio, gli studi, ma anche di riprendere la preparazione per l’esame di avvocato, che avrei sostenuto di lì a poco.
Durante quel periodo di servizio per lo Stato è capitato qualcosa che mi interessa in particolar modo. È in quei mesi che Rodotà lascia l'Università di Macerata, chiamato dall’Università di Genova – dalla quale, va ricordato, sarebbe poi uscita, sicuramente anche per effetto del suo magistero, una generazione di importanti civilisti, particolarmente versati anch’essi, almeno in quel primo periodo, nello studio della responsabilità civile, tra i quali si fanno subito notare Guido Alpa, Mario Bessone, Gilda Ferrando –. Per quanto personalmente mi riguarda, al “rientro dalle armi”, mi trovo orfano!
E a questo punto che cosa hai fatto? Hai dovuto ricominciare tutto da capo?
Con il professore di diritto civile che prende il posto di Rodotà si instaura una relazione né sale, né pepe: i rapporti hanno una connotazione di stampo amicale, ma, di fatto, restano formali ed epidermici; nel complesso non vi è alcun particolare mio coinvolgimento.
Mi arrangio come posso. Ho pronto un articolo sulla responsabilità da attività pericolose che mi piacerebbe veder pubblicato nella “Rivista di diritto civile”. Prendo carta e penna e scrivo ad Alberto Trabucchi, che mi è “simpatico” per via del fatto che ho studiato diritto privato sul suo Manuale.
Trabucchi, verosimilmente incuriosito, mi risponde da Lussemburgo con una lettera, che conservo, dal tono gentile; accetta di esaminare il mio scritto; lo approva e – dopo una veloce rilettura per la messa a punto di alcuni passaggi, che mi chiede di affidare al suo assistente dell’epoca, Paolo Zatti –, ne dispone la pubblicazione. Viene così alla luce la mia prima pubblicazione, in assoluto, in Rivista di particolare prestigio!
Nel contempo, sorpreso e galvanizzato dall’essere stato inserito da Rodotà, a mia completa insaputa, nella lista dei Redattori della rivista “Giurisprudenza di merito”, da lui appena fondata, intraprendo un’attività di annotazione di sentenze che, nel tempo, si sarebbe fatta piuttosto intensa (soppiantata, sotto questo profilo, soltanto vari anni dopo dal sopravvento della mia collaborazione a “Giustizia civile” sollecitatami da Giuseppe Pera), e che, in quel primo periodo, riguarda prevalentemente le problematiche attinenti la disciplina del condominio negli edifici.
Peraltro, per iniziare, non avendo a disposizione altro mezzo, mi reco dal Presidente del locale Tribunale civile, magistrato di riconosciuto valore ed equilibrio, per esporgli il mio caso e chiedergli di segnalarmi sentenze meritevoli di annotazione. Ricordo ancora, come fosse oggi, il malcelato sorriso ironico con il quale accoglie la mia richiesta; ma l’indicazione la ottengo ed è fruttuosa, perché il giovane e brillante magistrato al quale vengo indirizzato (e con il quale più tardi avrei stretto un rapporto di cordiale amicizia) è bravo e, come avviene in questi casi, su di lui sono dirottati in prevalenza i casi più complessi: e, quindi (per quanto egoisticamente mi interessa al momento) quelli che con maggior probabilità e interesse possono giustificare una nota di commento.
La prima nota in materia che invio a Rodotà (docente non certo prodigo di lodi) viene da lui definita “eccellente”, nero su bianco.
La lettera è destinata a confluire in una (in quel momento esigua) raccolta di “attestati” di apprezzamento, che formerà nel prosieguo il “pacchetto” di documenti che, a mio solo uso e consumo, considero “le mie referenze”.
Dunque, mi sembra che tu abbia avuto, tutto sommato, un avvio positivo e gratificante. A che si deve, allora, la successiva scelta che ti ha portato all’abbandono dell’istituzione accademica, che da lì a poco avresti posto in essere?
Poco dopo le vicende che ho appena rievocato, la situazione, nonostante le apparenze, si ingarbuglia.
Il fatto che venga bandito il concorso per assistente ordinario di diritto civile di per sé è una buona notizia. Siamo tre candidati a quel posto, ma nessuno dei tre risulta avere referenze che lo pongano nettamente al di sopra degli altri. Mi immergo perciò nello studio. Leggo diligentemente tutto quanto suggeritomi dal titolare della cattedra, inclusi i contributi di diritto civile presenti nell’ intera “Enciclopedia del diritto” (fortunatamente a quell’epoca ancora in pochi volumi). Quale assistente incaricato, sono convinto di trovarmi in una posizione di un certo privilegio: non colgo segnali contrari.
La realtà non è come penso. Le preferenze del successore di Rodotà nella cattedra maceratese – come soltanto dopo un certo tempo mi sarebbe stato riferito – vanno ad un altro candidato. Non me ne ero mai accorto. È evidente che sono carente in materia di propensione a leggere o praticare l’intrigo.
Il concorso lo vinco lo stesso, e con voto unanime dei tre componenti della commissione d’esame. Dunque, anche con il voto favorevole del titolare della cattedra, presidente di quella commissione.
Se debbo credere a quanto qualche tempo dopo mi viene riferito, tale per me favorevole esito (nonostante i presupposti contrari dei quali ho detto) sarebbe stato frutto di un fraintendimento nel quale l’esaminatore sarebbe incorso nel valutare gli elaborati della prova scritta. Ritenendo di riconoscere nella mia la grafia del candidato da lui preferito – e, dunque, di fatto inconsapevolmente riferendosi a me –, ha gioco facile nell’ostentare agli altri commissari la miglior qualità dell’elaborato rispetto agli altri. L’equivoco (per lui) si chiarisce solo all’atto della successiva apertura delle buste con i nominativi degli estensori dei singoli elaborati. Ma i giochi ormai sono fatti, e a mio favore!
Allora è proprio per questo motivo che hai lasciato?
No, non direi. Anche se indubbiamente tale vicenda una sua influenza l’ha avuta, non riterrei che vada specificamente imputata ad essa (o prevalentemente ad essa) la drasticità della scelta che assumo di lì a poco: la circostanza che ho menzionato, lo ripeto, viene da me appresa con ritardo.
Molto più verosimilmente si tratta piuttosto di fattori essenzialmente soggettivi: l’intima esigenza di esiti concreti dell’impegno presente e prossimo; il senso di chiusura, di astrattezza e ristrettezza di orizzonti che (a torto o a ragione) avverto gravare intorno a me in quell’ambiente. O forse, più verosimilmente ancora, sono io a non essere ancora maturo per affrontare in quel momento l’esperienza accademica.
Sta di fatto che, dopo un periodo, neppure troppo lungo, di riflessione, con sorpresa e sconcerto delle persone a me più vicine (e anche con qualche severa rampogna), mi dimetto. Nei fatti baratto il posto di assistente ordinario di diritto civile con il posto di legale nell’Istituto nazionale della previdenza sociale, quale vincitore del relativo concorso.
Si tratta di un cambiamento radicale, con prospettive ben precise e sicure, seppur delimitate negli oggetti. Detto cambiamento, tuttavia – in quel momento non sono assolutamente in condizione di intuirlo –, nel contempo si presta comunque a prospettive diverse da quelle immediatamente percepibili: ivi compresa, come più tardi mi sarebbe stato del tutto chiaro, quella di un possibile rientro, per altra via (ma anche con altra personale caratura e con un ben più ricco patrimonio di esperienze), nell’ambito universitario.
Questo cambiamento così radicale e repentino ha comportato conseguenze di altro genere, come dover abbandonare il tuo ambiente, cambiare stile di vita, trasferirsi in altra città?
Per le stesse ragioni che mi hanno consentito di svolgere buona parte del servizio militare nella città nella quale tuttora risiedo, anche in questa particolare contingenza ottengo come sede di lavoro Macerata. Come già nella precedente occasione, tale assegnazione trova sostanzialmente la medesima spiegazione: in primo luogo, mi sono collocato al vertice della graduatoria dei vincitori del concorso (da notare che sostengo la prova di diritto civile – un segno del destino – con Renato Scognamiglio); in secondo luogo, l’appeal di quella città non ha subito, nel frattempo, alcun accrescimento!
Prendo dunque servizio presso l’ufficio legale della sede provinciale Inps di Macerata; una sede alla quale mi tengo stretto praticamente fino alla fine (un buon numero di anni dopo), del mio rapporto con l’Istituto. E tale posizione riesco a mantenere, nonostante le varie, anche lusinghiere sollecitazioni (alcune piuttosto pressanti) che ben presto i vertici di quell’Istituto iniziano a indirizzarmi, affinché io accetti il trasferimento a Roma, con destinazione al Servizio legale centrale.
Come mai questa preferenza per la “periferia”? Non sarebbe stato più coinvolgente, interessante e, in fondo, prestigioso, nonché importante per la carriera, svolgere quel lavoro nella capitale, e , per di più, nella struttura di vertice dell’organizzazione dell’avvocatura dell’ Ente?
Il fatto è – per rispondere a questa domanda – che se avessi accettato il trasferimento a Roma sarei stato inserito, sì, in una delle strutture di vertice nelle quali è suddivisa l’organizzazione interna del Servizio legale centrale dell’Inps; e sicuramente mi sarei trovato a collaborare con colleghi di particolare valore, che ben conoscevo. Ma sicuramente si sarebbe trattato di attività (ancor) più specialistica e, dunque, in ambito più ristretto, giusta la partizione per distinti gruppi di materie, propria della struttura di quel Servizio.
Nella realtà locale, invece, la varietà tipologica di controversie è ampia, e spazia dalle controversie contributive (le quali a loro volta si differenziano al loro interno per caratteristiche tecniche e tipologiche), all’intero arco delle controversie in materia di prestazioni. In particolare, vi è (vi era) in periferia, volendo, la possibilità di perseguire una “politica” delle prestazioni; che è quanto mi è capitato di praticare (sia pure nei limiti, beninteso, che la difesa giudiziale consente), in particolare per le pensioni di invalidità. Le controversie sulle pensioni di invalidità, all’epoca, e specialmente nelle zone del centro e del sud Italia, sono tantissime, determinate da una pluralità di fattori, non tutti uguali nelle varie zone, ma che comunque è necessario approfondire, perché la risposta giudiziale possa essere adeguata ed efficace).
Le Marche, e la provincia di Macerata in particolare, da questo punto di vista si prestano molto bene allo studio del fenomeno, e di quanto possa richiedersi per reagirvi (almeno a livello di politica giudiziaria). Solo per esemplificare, è proprio in virtù di questo tipo di approccio che mi capita di essere officiato dalla SPISA di Bologna, la “Scuola di specializzazione in Studi sull’amministrazione pubblica”. All’epoca la Scuola è diretta da Fabio Roversi Monaco, il quale mi propone di effettuare una ricerca su quella specifica forma di tutela in riferimento ai territori dell’Italia centrale, che possa supportare una specifica iniziativa assunta dalla Scuola.
Accetto l’incarico; elaboro una mia personale scheda, esemplata sulle esigenze rappresentatemi; seleziono per ciascuna delle zone interessate i colleghi che si dichiarano disponibili alla rilevazione nel proprio ambito territoriale, e della cui affidabilità sono certo, e assegno loro il compito; elaboro successivamente i dati raccolti. Dopo pochi mesi, riesco a consegnare i risultati a Roversi Monaco, il quale apprezza il lavoro fatto e, anzi, si complimenta per la rapidità e ci tiene a farmi sapere che, a suo avviso, un organismo ufficiale non avrebbe svolto la rilevazione con altrettanta celerità.
Tanto ricordo, non già per vantarmi, ché non ce ne sarebbe motivo, bensì per fare un esempio delle potenzialità e insieme della concretezza della specifica esperienza.
Mi sembra che tu voglia affermare, in sostanza, che l’attività difensiva del legale dell’Inps si differenzia da quella del libero professionista, per il fatto di incentrarsi non tanto sulla singola specifica controversia, quanto sul fenomeno o sulla questione dei quali la singola causa possa ritenersi espressione o conseguenza, e che dunque il suo ruolo abbia delle potenzialità che vanno oltre l’ordinaria attività difensiva. È esatto?
Mi sembra una sintesi molto azzeccata. In effetti il periodo svolto come legale dell’Inps – mi piace sottolinearlo – è stato un periodo di vivace operatività; di acquisizione di un prezioso bagaglio di esperienze in un settore indiscutibilmente cruciale per il Paese; di formazione pratica e teorica e, insieme, di concrete ricadute pratiche; di discussione, analisi, trattazione di questioni di carattere generale.
Mi ricordo, in particolare, una battaglia legale che ha interessato quasi tutto il territorio nazionale e si è protratta per più anni, superata, dopo alterne vicende, grazie al coordinamento, all’impegno e alla determinazione di una task force, per così dire, di legali dell’Istituto. Una presa di petto di questione, che all’epoca (oggi se n’è persa quasi la memoria) fu di particolare impatto e risonanza, per le potenziali, pesanti conseguenze economiche sul bilancio dell’Istituto previdenziale.
Il caso sorse per effetto dell’iniziativa assunta, contemporaneamente in più zone del territorio nazionale, da alcune centrali sindacali tramite i rispettivi patronati, intesa a far valere a fini pensionistici la c.d. “mutualità scolastica”, cioè le annualità di contribuzione proprie dello strumento previdenziale riservato agli scolari delle elementari, ideato nel 1910, vigente l’ordinamento liberale, poi rielaborato in periodo corporativo nel 1923, per essere infine soppresso, non molti anni dopo. L’operazione, avviata intorno alla seconda metà degli anni Settanta dello scorso secolo, è consistita nel riesumare tale risalente istituto, nell’intento di far valere le relative annualità di contribuzione come altrettanti periodi di anzianità assicurativa, validi a tutti gli effetti, e, dunque, anche ai fini del calcolo della pensione (all’epoca esclusivamente retributiva): con quali effetti dirompenti sui conti dell’Inps è facile intuire.
Sicuramente una lodevole operazione di contrasto ad un tentativo spregiudicato di forzare il sistema pensionistico, ai danni degli equilibri di bilancio dell'istituto e, in definitiva, della collettività. E tuttavia è proprio per questo, per casi simili, che l'ente previdenziale si è dotato di un così consistente corpo di avvocati dipendenti. Non trovi?
Certo l’episodio può anche essere letto proprio così: come una normale attività difensiva, laboriosa ma conforme al ruolo e al vincolo contrattuale. Allora voglio ricordarne un altro caso, questa volta di indubbia rilevanza innovativa e sistematica, produttivo di effetti strutturali, il quale può valere a meglio chiarire il senso di quanto sto cercando di evidenziare.
Anni più tardi, ormai professore, ma avvalendomi dell'intuizione, delle competenze e dell’impegno di una ormai ex collega dell'Inps, e operando, dunque, in tandem con lei, riusciamo a portare davanti alla Corte costituzionale, dopo una capillare opera di sensibilizzazione effettuata presso vari pretori, dislocati in diverse aree geografiche del paese, una questione di notevole rilevanza sistematica: l’assenza nel nostro ordinamento dell’epoca di uno strumento normativo diretto a far valere unitariamente a fini pensionistici le anzianità assicurative suddivise tra regimi previdenziali diversi. Diretta, anzi, a soddisfare un’esigenza fondamentale per i lavoratori “mobili”: usufruire pienamente della contribuzione regolarmente versata nei singoli regimi senza dover subire la penalizzazione di oneri aggiuntivi, quali quelli che ineriscono al diverso meccanismo rappresentato dal trasferimento di tutti i singoli spezzoni di contribuzione presso uno solo (normalmente, quello più vantaggioso) o ricongiunzione. L’impegno è stato premiato da parte della Corte, che, con una memorabile sentenza additiva di principio (la n. 61 del 1999), ha affermato essere contraria ai principi costituzionali l’ assenza nel nostro ordinamento (dell’epoca) di uno strumento normativo che consenta, in alternativa alla ricongiunzione, la totalizzazione dei periodi assicurativi frazionati tra più regimi previdenziali.
Quanto racconti offre uno spaccato interessante e non del tutto noto dell’Avvocatura dell’Inps. Il che comunque parrebbe poter giustificare, per quanto riguarda questa intervista, un rovesciamento della domanda che ti ho fatto precedentemente: considerato il tuo manifesto apprezzamento per l’intrinseco livello qualitativo e le potenzialità connesse all’attività dei legali dell’Inps, come si spiega la decisione da te assunta di abbandonare quell’Istituto per tornare a far parte dell’Accademia?
La risposta a questa delicata e cruciale domanda, volendone andare al fondo, è facile e difficile insieme.
Solo dopo qualche tempo di attività come legale dell’Ente previdenziale mi rendo conto che, fin dai primi tempi, nello svolgere quell’attività, di fatto, senza averne al momento consapevolezza, e comunque senza alcuna specifica finalizzazione – ci tengo a sottolinearlo –, analizzo e approfondisco, per una mia personale esigenza (quella di professionista che intende essere aggiornato e competente, e efficace nell’esercizio della propria azione), normative, specifiche problematiche, questioni e casi controversi, seguendo un approccio che tendenzialmente corrisponde, nella sostanza, al proprium della ricerca scientifica.
Tale è la “lettura” che mi sento di dare oggi, indotto alla riflessione sul punto proprio da questa tua intervista. Intervista che mi costringe a guardare indietro nel tempo e riconsiderare, come finora non avevo avuto ragione di fare (o di fare nella specifica prospettiva), le mie esperienze di quel periodo.
Muovendo da tale puntualizzazione, oggi mi sento di poter affermare che tre sono stati i filoni che riconosco, a posteriori, aver rappresentato privilegiato oggetto di studio e approfondimenti di quel periodo. Filoni corrispondenti ad altrettanti interventi legislativi di carattere innovativo, particolarmente incisivi per l’attività professionale, ma, di fatto, altrettanto importanti perché io potessi prendere in considerazione il rientro all’Università.
L’aspetto è interessante: potresti indicare quali sono stati, concretamente, tali filoni?
La prima delle vicende cui faccio riferimento – e sicuramente quella più significativa e ricca di implicazioni e di ricadute sugli svolgimenti successivi delle mie scelte – è strettamente legata alla legge di riforma del rito del lavoro. Una riforma di grande rilievo pratico e sistematico, come ben sappiamo, e comunque cruciale, come è facile intuire, per una categoria di legali, come quelli dell’Inps, che affrontano pressoché esclusivamente controversie sulle materie destinatarie di tale innovativa disciplina processuale.
L’interesse, anche di rilevanza pratica, per gli aspetti tecnici delle innovazioni apportate da quell’ intervento di riforma, tra l’altro non prive di ricadute che vanno al di là del piano processuale; la consapevolezza della importanza sistematica della riforma, come completamento del disegno del quale, tre anni prima, è stata eminente e imprescindibile espressione lo Statuto dei lavoratori; il dato assiologico caratterizzante l’intero impianto processuale, in palese rispondenza con il principio di parità sostanziale: sono, questi, in sintesi, i concorrenti fattori che, di fatto, mi inducono ad approfondire i contenuti di quella disciplina, a partecipare attivamente a convegni e seminari sul tema, che, numerosi in quel periodo, vengono promossi sia all’interno che all’esterno dell’Istituto previdenziale.
A quegli anni risale la maggior parte dei miei scritti sull’argomento, oltre a una mia fattiva presenza nel dibattito sulle problematiche del processo previdenziale.
Il lavoro svolto nelle varie occasioni di approfondimento e analisi critica e ricostruttiva dei vari aspetti del segmento della nuova disciplina dettata dalla legge n. 533 del 1973, dedicato alle controversie in materia di previdenza e assistenza obbligatorie, mi induce a pensare alla possibilità di dedicarmi ad uno studio organico di quel segmento del nuovo rito.
Do così il via a quella che sarebbe divenuta l’opera destinata ad accreditarmi sul piano professionale nello specifico settore, e, ben presto, anche sul piano accademico: pubblico “Le controversie della sicurezza sociale” nel 1978 per i tipi dell’editore Giuffrè. Il che non solo mi accredita professionalmente, ma mi consente di affrontare una esperienza nuova e preziosa: la partecipazione alla Commissione ministeriale per la riforma del processo del lavoro (è così che faccio la prima conoscenza di Onofrio Fanelli e di Raffaele Foglia, con i quali in seguito avrei avuto ripetute occasioni di incontro e di amichevole frequentazione).
L’opera ha per me un significato particolare anche perché mi ha fornito l’occasione per un incontro sicuramente decisivo per le mie future vicende accademiche: quello con Giuseppe Pera. Suppongo che su questo aspetto tu abbia in serbo qualche specifica domanda da pormi.
Sul tuo rapporto con Giuseppe Pera, sicuramente un rapporto di particolare importanza, ti rivolgerò effettivamente alcune specifiche domande fra poco. Peraltro, a questo punto della narrazione mi incuriosisce, piuttosto, quanto hai appena raccontato; sembrerebbe, infatti, che già in questo primo periodo tu stia già “remando”, senza neppure dichiarartelo, in direzione di un ritorno all’Accademia. È così? Potresti fornire qualche più specifico ragguaglio in merito?
Hai ragione, è giusto che io cerchi di fare chiarezza (anche a mio conforto, come ho già sottolineato) su questo passaggio della ricostruzione delle vicende personali.
Debbo allora precisare, innanzitutto, che quella sulle controversie previdenziali e assistenziali non è stata la prima monografia. Una circostanza, questa, che, effettivamente, mi sembra che torni al proposito nella tua domanda, in quanto significativa di un interesse alla ricerca, che denota un sostanziale attaccamento e senso di appartenenza alla realtà degli studi universitari, che, peraltro, nel momento in cui l’ho materialmente vissuta, non ho avvertito come tale.
Mi riferisco al fatto che mi ero già cimentato con una tematica particolarmente specialistica e ardua (diciamolo pure: temerariamente) perché collocata all’incrocio di tre rami del diritto (amministrativo, civile e previdenziale), sfociata nel 1973 nella monografia “I limiti oggettivi del giudicato in materia di prestazioni di previdenza sociale”. Come ricorda Valente Simi, nella relativa prefazione, si tratta della rielaborazione della tesi di diploma, conseguito due anni prima presso la “Scuola in sicurezza, previdenza e assistenza sociali” dell’Università di Macerata: Scuola promossa da Simi stesso, in collaborazione con Giorgio Cannella, all’epoca capo del Servizio legale dell’Inps, e da Giuseppe Alibrandi, Direttore generale dell’Inail; detta Scuola è tuttora in essere, seppur trasformata, qualche anno più tardi, nell’attuale “Scuola di specializzazione in diritto sindacale, del lavoro e della previdenza”, e passata dalla durata biennale dei corsi a quella triennale.
Ebbene, all’atto stesso delle mie dimissioni da assistente di diritto civile, non tronco del tutto il legame con l’Università; chiedo e ottengo l’attribuzione di incarico di insegnamento presso detta Scuola: incarico di docenza che, di rinnovo in rinnovo, assolvo anche durante il periodo Inps e quello perugino, e conservo tuttora, ininterrottamente da oltre 50 anni.
Ricordo tale vicenda perché in entrambi gli aspetti che ho richiamato, essa può considerarsi (come, a questo punto, mi sembra di poter interpretare) sintomo inequivoco, nella sostanza, di un sentimento di appartenenza che, seppur non dichiarato, mi lega all’istituzione universitaria!
Un chiarimento molto opportuno, quasi in chiave psicanalitica, quello che hai appena fatto! A questo punto ti chiederei, però, di specificare a che cosa alludi quando riferisci che la monografia sulle controversie previdenziali ti ha fornito l’occasione di incontro con Giuseppe Pera.
Torno volentieri a parlare della mia monografia del 1978, ma, per rispondere in maniera esauriente, debbo necessariamente partire dal periodo in cui l’opera era ancora in fase di lavorazione.
Pur essendo ormai prossimo a concludere la ricerca e, dunque, a licenziare la stesura definitiva dello scritto, per avviarlo poi alla stampa, mi trovo di fronte ad una questione pratica che non avevo considerato prima: non ho ancora ben chiaro a quale editore potermi rivolgere per proporne la relativa pubblicazione.
Cerco, dunque, consiglio dove penso di poterlo avere. Ed è proprio in questo frangente che si realizza la prima occasione per una mia presa di contatto con Giuseppe Pera. Riepilogo brevemente.
Conosco Domenico Borghesi, in quanto già assistente di procedura civile a Macerata, nello stesso periodo in cui lo sono stato anch’io, e mi rivolgo a lui per chiedergli consiglio; consiglio che subito egli effettivamente mi fornisce, dicendomi che gli risulta che a Pisa, nella prospettiva dell’inserimento nella sua collana edita da Franco Angeli, Giuseppe Pera abbia interesse proprio a uno studio sul processo previdenziale.
Anche in quest’occasione prendo carta e penna, memore del precedente successo, e scrivo.
Stavolta, però, ricevo un garbato rifiuto, motivato dal fatto che il titolo è stato già assegnato ad altro studioso (che poi apprendo essere Francesco Paolo Luiso). Ringrazio lo stesso, auspicando, secondo etichetta, che in futuro ci possa essere un’altra occasione, e ripiego, in buon ordine, sulla collana di Facoltà.
Naturalmente, all’atto della materiale pubblicazione del volume, mi sento in dovere di far pervenire copia della stessa all’autorevole interlocutore di quel precedente, non felice approccio.
Ed è a questo punto che scocca la scintilla. Pera riscontra subito, inviandomi una lettera (che naturalmente conservo, e fa parte anch’essa di quel pacchetto del quale ho già fatto cenno) che, insieme a parole di apprezzamento, manifesta il rammarico per non avermi potuto avere tra gli autori della sua prestigiosa Collana. Ringrazio anche stavolta, ma, come si può intuire, con molta maggior convinzione, e, immaginando che gli studi che sto facendo (muovendo anche qui in prima battuta da esigenze professionali) sulla tutela contro la disoccupazione e sulla cassa integrazione guadagni, possano sfociare, prima o poi, in una monografia, con lungimiranza mi prenoto. La prenotazione viene registrata.
Passa del tempo. In occasione di un convegno del quale non ricordo né la data, né l’oggetto, ma solo l’amenità del luogo e la possibilità di intrattenersi all’aperto, segno evidente di buona stagione (le terme di Montecatini?) e al quale so che anche Pera partecipa, me lo faccio indicare e corro a presentarmi.
Mi squadra per un attimo, anzi mi radiografa, e, poi, con il suo vocione “Ah, lei è Cinelli!” esclama, e subito mi prende sottobraccio, allontanandomi velocemente dal gruppo, e aggiunge “mi raccomando, non lo dica a nessuno, perché questo è un mondo di …, ma lei deve vincere il concorso!”: riferendosi, ovviamente, al concorso di prima fascia a cattedra di diritto del lavoro.
Una vicenda singolare che prelude, dunque, alla vittoria del concorso alla cattedra, appena bandito. È così?
No, non è così; e chiarisco subito come sono andate in realtà le cose.
L’invito mi lusinga, ma prima di assumere un’iniziativa, come quella, implicante il passaggio dalla disciplina civilistica a quella lavoristica, mi reco da Stefano Rodotà, per chiedergli cosa ne pensa e se, a parer suo, considerate anche le pubblicazioni che posso far valere come titoli concorsuali, sia, o meno, operazione realistica. La valutazione che esprime è favorevole; aggiunge, però, che quella di un suo amico – al quale mi indirizza subito – potrà essere ancor più attendibile.
È così che conosco, nell’ufficio di presidenza del Cnel, Gino Giugni, che, da dietro una scrivania troppo grande per lui, sovrastata da altrettanto enormi bandiere (è così che le rivedo nel ricordo), mi accoglie con la semplicità e l’affabilità che avrei avuto modo di apprezzare – magari accompagnata da quel tanto di ironia che parimenti lo caratterizzava –, anche negli sporadici incontri che ho avuto con lui in successive occasioni: ricordo, in particolare, il soggiorno a Seul in occasione del congresso mondiale dell’ “Associazione internazionale del diritto del lavoro e della sicurezza sociale”, con la delegazione italiana comprendente, oltre a lui, Marco Biagi, Luisa Galantino e me.
Giugni mi dà il via libera. Pertanto, presento la domanda di ammissione al concorso di prima fascia (e a quello soltanto). In commissione c’è Giuseppe Pera, e, dunque c’è qualche speranza in più.
Tuttavia, non vinco: dovrebbe essermi mancato il voto di Aldo Cessari. Naturalmente mi resta in bocca un po' di amaro; poi rifletto e mi dico che probabilmente sarebbe stato troppo, e in qualche modo non consigliabile che un outsider, quale effettivamente sono in quel momento, potesse, così rapidamente e con una produzione tutto sommato alquanto settoriale, giungere al vertice della gerarchia.
Ma non posso evitare di pormi anche un’altra domanda: se va male anche la prossima volta, che cosa mi succede? Mi metto davanti allo specchio e, guardandomi negli occhi, mi rassicuro: non mi farò venire alcun esaurimento. Torno, dunque, serenamente al mio lavoro di avvocato dell’Inps e al contorno di iniziative con le quali ho saputo ravvivarlo e renderlo, tutto sommato, interessante, vantaggioso (almeno spero) per l’Istituto e di un certo prestigio per me.
A questo punto mi incuriosisce conoscere quali sono gli altri due eventi normativi ai quali poco fa hai fatto riferimento, e che assumi aver influito nell’indirizzarti di nuovo verso l’Accademia.
Il secondo degli eventi normativi cui ho fatto riferimento poco fa è la riforma dell’invalidità pensionabile, apportata dalla legge n. 222 del 1984.
Non voglio entrare in troppi dettagli per non annoiare più di quello che probabilmente sto già facendo. D’altra parte, ho già fatto alcuni accenni alla particolarità del contenzioso nella specifica materia: un contenzioso di massa, molto oneroso per le casse dell’ente previdenziale e sicuramente gravoso per gli uffici giudiziari, se non per tutto il territorio nazionale, certamente nelle aree del centro sud del paese, nelle quali il numero delle controversie in materia è particolarmente alto, per divenire altissimo, addirittura, in certe province.
La riforma mira a porre rimedio a quel fenomeno, che, in realtà, a parte i veri e propri abusi, è in buona parte “drogato”, in quanto utilizzato in funzione surrogatoria di forme adeguate di tutela contro la disoccupazione, che mancano, o di politiche di fattivo sostegno dell’agricoltura, oggetto di risalenti promesse non mantenute (non per nulla il pensionamento per invalidità in quel periodo risulta particolarmente alto proprio nelle zone a maggior vocazione agricola).
Vista in tale prospettiva, la riforma del 1984 può ben essere considerata come il primo, più radicale (ed efficace) intervento diretto al deflazionamento del contenzioso in materia.
Allo stesso tempo è riforma che, almeno in quel momento, raccoglie consensi anche perché tende a essere apprezzata come anticipazione di un più ampio disegno che, allo stato, sembra a portata di mano: il complessivo riordinamento del delicatissimo e cruciale settore delle pensioni.
Di fatto, la legge n. 222 trova la sua ratio in due distinte e apprezzabili esigenze, che la contingenza storica ha portato a far convergere: un’esigenza, per così dire, “etica”, alla reazione al fenomeno dell'inflazionamento delle pensioni di invalidità e alla cultura dell'assistenzialismo, che, nella sostanza, è alla base di quell'inflazionato contenzioso; un’esigenza, per così dire, “economica”, tesa a reagire alla crisi finanziaria dello Stato attraverso la drastica riduzione (o anche solo il contenimento) della spesa pubblica nell’ambito dei servizi sociali in genere e delle pensioni di invalidità in particolare.
Ho già accennato, richiamando l’episodio relativo alla SPISA, all’importanza della specifica questione anche per il coinvolgimento di profili che attengono all'azione amministrativa in generale.
Forse la mia percezione del fenomeno (che nella zona, anche per la tradizione prevalentemente agricola, è particolarmente intenso), e del ruolo, nello specifico, della difesa tecnica dell'Inps, in quanto soggettiva, potrebbe essere fuorviata. E tuttavia mi sento di poter accreditare l’ipotesi che l'approfondimento e l'analisi critica delle varie problematiche e la loro discussione nelle varie occasioni di confronto, possano aver contribuito, seppur nei limiti scontati della difesa tecnica in ambito processuale, al processo di razionalizzazione degli orientamenti della pratica giudiziaria e, di riflesso, in quello dell'azione amministrativa.
Prima di passare al terzo degli eventi normativi in questione, vorrei chiederti come sono i tuoi rapporti con Giuseppe Pera in questo particolare periodo che fa seguito alla non felice conclusione della tua partecipazione al concorso a cattedra.
Dopo l’esito di quel primo tentativo, al quale fai riferimento, direi che il mio rapporto con Giuseppe Pera non ha subito incrinature di sorta; anzi, potrei dire che si è intensificato e rafforzato.
È questo il periodo, infatti, nel quale i contatti con lui si fanno più frequenti, se non di persona, di certo via filo o epistolari. Non sono rare, infatti, in quel periodo, le richieste di confronto su problematiche previdenziali che presentino qualche oscurità o incertezza interpretativa.
C’è poi un episodio di quel periodo, che molto mi colpì, all’epoca, e che in questo momento mi sembra giusto rievocare. Un bel giorno Pera mi telefona solo per anticiparmi che avrei ricevuto una telefonata da una persona importante, a lui cara, e per chiedermi ,dunque, di rassicurarlo in merito al fatto che a quella persona avrei offerto la massima mia disponibilità e tutta la dovuta attenzione. Il giorno stesso effettivamente ricevo, anche qui per un confronto di opinioni su una questione di natura previdenziale (del quale non ricordo il contenuto) la telefonata di una persona importante: si tratta della sua venerata Maestra, Luisa Riva Sanseverino. Un episodio che, a distanza di tempo, mi inorgoglisce ancora per la particolare considerazione nei miei confronti che quell’episodio evidenzia. Senza contare il privilegio (che tale lo considero) di aver scambiato alcune parole, non avendo avuto occasione di conoscerla di persona, con la Riva Sanseverino.
Ho invece conosciuto di persona – mi vien da ricordarlo qui – Tito Carnacini. Il periodo è più o meno lo stesso; mi trovo a Bologna per un convegno verosimilmente sul processo del lavoro; non ricordo bene, ma è probabilmente Umberto Romagnoli che mi chiama perché Carnacini vuole parlarmi. Perplesso, mi accosto al tavolo della presidenza, mi presento, ed è Carnacini che, sorridendomi (non ricordo preamboli di sorta), mi informa di aver citato il mio libro sulle controversie in un suo scritto, che, con semplicità, mi mostra, quasi che temesse di non esser creduto. Ricorso il garbo, il tratto signorile e lo sguardo vivace, avrei detto con un fondo di allegria. Mi sembra di ricordare anche che fu quella una delle ultime sue partecipazioni pubbliche.
Resta da dire a questo punto, per completare il quadro, e sciogliere l’enigma, che tu ci dica anche qual è il terzo “elemento”, quello che ha segnato, secondo la tua stessa ricostruzione, la fase di riavvicinamento all’Accademia.
Sì, è vero, chiarisco subito. Si tratta della disciplina della cassa integrazione guadagni e, più in generale, della disoccupazione. È quello, infatti, un periodo in cui la disciplina della cassa integrazione guadagni è in grande fermento, e varie sono le occasioni perché di essa io debba interessarmi professionalmente, quale legale dell’Inps.
In questo caso, però – mi sembra giusto puntualizzarlo –, la vicenda è, per quanto personalmente mi riguarda, un po' diversa.
Infatti, sono già entrato nell’area della finalizzazione delle mie iniziative di ricerca e studio alle esigenze concorsuali che da quel momento si profilano all’orizzonte con una certa concretezza. Non vi è, dunque, piena corrispondenza (quanto meno dal punto di vista psichico), con le altre due esperienze alle quali mi sono riferito prima.
Utilizzo la prenotazione, che ho già ricordato: la mia monografia del 1982 sulla tutela contro la disoccupazione trova, dunque, collocazione nella Collana di Pera, edita da Franco Angeli.
Nel contempo pubblico, nel 1985, con l’editore Maggioli (avvalendomi dell’amicizia e della collaborazione di un giovane, valoroso collega, Giuseppe Bommarito, che con me firma l’opera), un volume che raccoglie un’ampia rassegna sistematica e ragionata della giurisprudenza sulla cassa integrazione guadagni, dall’origine dell’istituto in poi.
L’opera apre la Collana che è idealmente destinata a succedere, con la direzione di Pietro Rescigno, a quella già diretta da Mario Rotondi “Raccolta sistematica di giurisprudenza commentata”. Pietro Rescigno, nella ampia prefazione al volume, sottolinea tra l’altro come la realizzazione della rassegna corrisponda puntualmente alle linee di quella “Raccolta”: la rappresentazione della realtà rispecchiata dalla giurisprudenza, accompagnata dalla elaborazione del pensiero critico. La Collana diretta da Rescigno – la circostanza è nota – si sarebbe fermata a quel primo volume; per ragioni legate ai precedenti rapporti, il “testimone” per la prosecuzione della “Raccolta” è passato a Giulio Levi.
Prima di andare avanti, per entrare per così dire nel clou della tua vicenda accademica, ti chiederei di dirci come vivi, con quali sentimenti e iniziative, quest’ultimo tratto di strada, ormai in vista del traguardo.
Proprio perché avverto che la meta è a portata di mano, e non voglio farmi sfuggire l’occasione, intensifico l ‘impegno. La scelta cade su tematiche, sì, di diritto del lavoro, ma con strette interrelazioni con il diritto civile, in un ideale, istintivo, percorso diretto a saldare le due esperienze personali: quella di partenza e quella di arrivo.
Vede così la luce nel 1984, sempre nella collana di Pera, la monografia intitolata “I permessi nelle vicende del rapporto di lavoro”. Al di là di quanto può apparire dal titolo, si tratta essenzialmente di uno studio sul principio di corrispettività nel rapporto di lavoro, nel quale la disciplina dei permessi idealmente funge da test. L’aggiunta di un sottotitolo avrebbe molto opportunamente evidenziato con immediatezza tale caratteristica.
Idealmente nella stessa prospettiva si colloca la voce “Retribuzione dei dipendenti privati”, che redigo nel 1986 per l’“Appendice” del “Novissimo digesto italiano”. Per taglio, metodo di analisi e ampiezza di trattazione, la voce, in realtà, è una vera e propria monografia sulla retribuzione che, probabilmente, proprio in ragione di tali caratteristiche, sarebbe stato più appropriato destinare ad un’autonoma pubblicazione in volume.
Infine, la terza tematica è quella della responsabilità per danni alla persona del lavoratore: una tematica allo studio della quale mi dedico anche successivamente, pubblicando poi alcuni saggi.
È chiaro, a questo punto, che i tempi sono maturi … Di questa, chiamiamola così, “vigilia”, conservi qualche ricordo particolare?
Di questo periodo ho un ricordo molto vivo e ricco, e anche piacevole: il ricordo che ha lasciato in me la partecipazione ad una edizione di quella felicissima iniziativa dell’AIDLaSS (purtroppo non più attuale), dedicata alle giovani generazioni di studiosi del diritto del lavoro e della sicurezza sociale, denominata “Pontignano”: cioè il seminario che, periodicamente, a partire dal debutto presso l'Abbazia di Pontignano, di quel toponimo ha fatto il suo marchio, utilizzato, dunque, anche per i seminari da svolgere tanto dentro quanto fuori il territorio nazionale.
Mi riferisco al “Seminario di Pontignano”, nell'edizione che si è svolta a Goutelas nell’alta Loira: per la precisione nello Château de Goutelas. Un “Pontignano” davvero “storico”, difficile da dimenticare: per le personalità che vi parteciparono, gli argomenti che vi si trattarono, le conoscenze e le relazioni interpersonali istaurate, ma soprattutto per l'atmosfera che lo ha caratterizzato nella sua interezza, ne ha rappresentato la cifra, ne ha fatto (se debbo giudicare da quanto mi è rimasto impresso) una sorta di cenacolo.
Sappiamo bene che la memoria ha un suo modo di essere, e che, non di rado, trasfigura, manipola, enfatizza. E tuttavia è come se avessi ancora davanti agli occhi la lunga tavolata disadorna, conventuale, i cui commensali – Bill Wedderburn, Gino Giugni, Miguel Rodriguez Pinero, Edoardo Ghera, Antoine Lyon Caen (la memoria non mi restituisce i nomi anche delle altre presenze “eccellenti” i cui volti mi sembra di ricordare ancora) –, seduti l'uno accanto all'altro, si passano, per spiccare ciascuno la propria fetta, la “Fourme”, il corposo cilindro di formaggio, tipico della zona; e, a loro frammisti o raggruppati in fondo alla lunga tavola, come si conviene ai novizi, Maria Vittoria Ballestrero, Alfonsina De Felice, Pietro Ichino, Carlo Zoli, io e altri ancora. E altrettanto vivida l'immagine dell'intrattenimento musicale della sera: il rustico concerto a lume di candela che ci offre la famiglia del custode del castello – padre, madre e giovanissima, radiosa figlia (quasi un secentesco quadro fiammingo vivente) –, esibendosi con strumenti a corda medievali.
Un altro vivido ricordo che ho di questo periodo si riferisce a un breve incontro con Gino Giugni. Già in altra occasione Giugni aveva fatto in modo che io sapessi del suo apprezzamento per la mia monografia del 1982 sulla tutela del lavoratore contro la disoccupazione. L’episodio risale anche qui ad un convegno; poco prima che il convegno cominci, ci incrociamo e io mi fermo a salutarlo. Come risposta al saluto, da lui ricevo l'“esortazione” stile Pera: “Cinelli devi vincere il concorso!”. Rispondo che farò di tutto perché ciò avvenga. E avviene.
Definita ogni residua attività con l’Inps (ma portandomi via un pacchetto di alcune salde amicizie destinate a durare ancora oggi), prendo servizio presso l’Università di Perugia il 4 marzo del 1987.
Dunque, la vicenda è a lieto fine! A questo punto, però, prima di passare ad alcune domande riguardanti due tue iniziative di particolare spessore – il Manuale e la Rivista della quale sei direttore responsabile –, ti chiedo di dirci come mai la scelta sia caduta proprio sull’Università di Perugia e non su un’altra.
La mia destinazione a Perugia è andata così. Due erano le cattedre disponibili residue, Macerata e Perugia, e due i possibili candidati, Roberto Pessi e io. Tra di noi concordiamo che il primo a scegliere debba essere Roberto. Lui sceglie Macerata; ed io sono ben lieto di dover confrontarmi con un ambiente nuovo: cambiare aria per un po' non può che far bene.
La destinazione, in effetti, è felice. Innanzitutto, vado ad occupare il posto lasciato qualche tempo prima da Pasquale Sandulli, e immagino che il buon ricordo di sé lasciato da Sandulli in quell’Università avrebbe potuto essere un lascito giovevole anche per me: non so in base a quale logica, ma sono portato a pensare ad una sorta di “forza espansiva”.
Fin dal primo contatto con quelli che da quel momento diventavano miei colleghi dell’Università di Perugia, avverto che avrei potuto lavorare proficuamente, come poi è stato. È molto probabile che a favorire la positiva accoglienza sia stato un fatto ben preciso: apprendo, infatti, che, non essendo conosciuto, la Facoltà, prima di decidere la chiamata, ha chiesto (giustamente) referenze sul mio conto: referenze di fatto fornite da Pietro Rescigno. Indiscutibilmente un buon viatico!
In questo tuo primo approccio con la realtà perugina, fino a quel momento a te sicuramente estranea, ricordi qualche episodio che ti abbia particolarmente colpito?
Sì, “colpito” è proprio la parola giusta. Un buon viatico per l’attività che mi aspetta nell’Università di Perugia vuole essere a tal proposito quello che mi fornisce Giuliano Crifò. L’episodio – che ricordo con simpatia, ma che, al momento, mi disorientò – merita di essere raccontato.
Innanzitutto, gli antefatti. Giuliano Crifò è stato mio professore di diritto romano a Macerata. Quando apprendo che lo ritroverò, questa volta come collega, a Perugia, mi sembra carino riesumare una vecchia fotografia di oltre vent’anni prima che ci ritrae, lui e il piccolo gruppo dei suoi allievi, me compreso, in una istantanea di fine corso; faccio ingrandire la foto, vi pongo sul retro data e dedica, e mi appresto a fargliene omaggio.
Il giorno della mia presa di servizio vado a trovarlo nella sua stanza e, dopo i saluti e convenevoli di rito, gli consegno la foto. Giuliano la prende, la rimira, legge quello che c'è scritto sul retro, riscontra la data. Io sono in attesa di un abbraccio o almeno di una stretta di mano, una pacca sulle spalle. Lui, invece, si alza dalla sedia e senza profferir parola, cogliendomi di sorpresa, mi molla un pesante, solenne ceffone. Poi mi guarda sereno, e sorride: “è una cresima, un viatico”, mi dice, prima che io possa riprendermi, “vai tranquillo!”
Sono certo che gli altri incontri non avranno avuto lo stesso genere di impatto. Come è stato il primo incontro con il corpo docente? E con gli studenti?
Sì, puoi ben dirlo: non ci sono stati incontri di analogo “impatto”. Sia ben chiaro: anche quello con Crifò, dopo il primo ben comprensibile disorientamento per il rude approccio, ha lasciato in me un piacevole, affettuoso ricordo, quale può rappresentare la memoria di una, seppur bizzarra, manifestazione di empatia .
Comunque, per quanto riguarda specificamente la cattedra, trovo subito in Siro Centofanti, professore associato, e in Dante Duranti, assistente ordinario – entrambi rinomati e valorosi esponenti, seppure con tratti e stili assi diversi, dell’agguerrito foro perugino –, eccellenti collaboratori.
Molto rapidamente, poi, prende forma intorno a me un nutrito gruppo di giovani interessati a collaborare alla cattedra, tra i quali spiccano Stefano Giubboni (che si laurea con me), Simonetta Renga, Carlo Alberto Nicolini, Fabrizio Domenico Mastrangeli (viceversa già laureati, sia pure poco prima del mio arrivo a Perugia). Con ciascuno di essi i rapporti di fattiva collaborazione sarebbero continuati (e continuano tuttora) anche dopo la conclusione del mio periodo perugino.
Appagante è anche il rapporto che si instaura con gli studenti: una corposa platea di variegata provenienza geografica, complessivamente diligenti e interessati alla materia. D’altra parte, i corsi, ancora di durata annuale, lasciano il tempo per un’attività di docenza sufficientemente “distesa”, e anche lo spazio, occorrendo, per rapporti interpersonali meno superficiali. Così più non sarà con la “semestralizzazione” (che, però, sperimenterò soltanto durante il periodo maceratese).
Al proposito mi piace ricordare un'iniziativa da me promossa proprio con finalità didattiche, e che gli studenti hanno dimostrato di aver particolarmente gradito.
All'insegna del motto “anche i manuali hanno un volto” (in verità, non è proprio questo il titolo ufficiale, ma il senso sostanziale sì), organizzo un'iniziativa seminariale che prevede che gli autori dei manuali di diritto del lavoro – quelli da me ufficialmente suggeriti, e tra i quali ciascuno studente è autorizzato a scegliere quello sul quale preparare l’esame – si presentino tutti insieme per illustrare ciascuno i pregi del proprio manuale, ovviamente in implicita competizione dialettica con ognuno degli altri autori presenti. Accettano la sfida Giuseppe Pera, Edoardo Ghera, Umberto Romagnoli, Franco Carinci. Romagnoli ci tiene a dirmi che se avessi organizzato l’evento un paio di lustri prima, avrei rischiato di essere preso ad ombrellate dagli studenti.
In realtà, non ho dubbi sul fatto che, grazie a tale disponibilità dei colleghi, sia stato possibile realizzare un evento di particolare presa e valore formativo: e, difatti, a quanto mi risulta, l’evento è stato apprezzato dagli studenti e ricordato a lungo.
E, in effetti, a conferma di detto gradimento, qualche tempo dopo gli studenti ricambiano. Mi coinvolgono, infatti, nelle iniziative della European Law Students Association (ELSA) – che a Perugia ha una presenza particolarmente significativa –, e, a un certo punto, mi chiedono di suggerire il nome di un giurista che la struttura perugina possa proporre all’istanza nazionale al fine della individuazione e proclamazione del “giurista dell’anno”. Non ho esitazioni a indicare Stefano Rodotà. Ed è Stefano Rodotà che, in effetti, risulterà prescelto all’esito dello scrutinio nazionale.
Ma non basta. Mi viene attribuito dall’Associazione il compito di svolgere, in apertura della cerimonia di conferimento del titolo, la “laudatio” del premiato. La cerimonia si svolge, con grande concorso di pubblico, niente meno che nella suggestiva sede del Salone d’onore della Reggia di Caserta.
È giunta l’ora di chiederti come sei giunto all’esperienza di due iniziative “forti”: il Manuale “Diritto della previdenza sociale”, da un lato, e la fondazione della Rivista di diritto della sicurezza sociale, dall’altro lato.
Posso affermare che il mio “Diritto della previdenza sociale”, ha avuto una gestazione lunga, anche se gran parte del materiale era pronto da tempo.
Ma prima di parlare di questo, vorrei ricordare che, al proposito, la “consacrazione” e la legittimazione mi vengono fornite da Giuseppe Pera.
Dando prova di grande generosità, nelle edizioni del 1988 e del 1991 del suo prestigioso manuale “Diritto del lavoro”, egli, infatti, mi offre lo spazio per l’inserimento di un capitolo integrativo, dedicato, appunto, al diritto della previdenza sociale: una integrazione che si accompagna a quelle di diritto penale del lavoro affidata a Tullio Padovani, e a quella di diritto tributario del lavoro, affidata a Franco Batistoni Ferrara. Un segno della sua generosità, questa, ma anche un segno di apertura e lungimiranza, per quanto riguarda specificamente la materia della previdenza sociale, espressione della sua ferma convinzione che, in ragione della incontrovertibile rilevanza sociale e della complessità tecnica che presenta, la materia previdenziale reclami un’attenzione specifica da parte della comunità scientifica. Impegno allo studio sistematico di tale delicatissima, se pur ostica, branca dell’ordinamento, che egli lamenta essere stata troppo a lungo trascurata, imputando le responsabilità maggiori a dinamiche interne all’accademia.
Come è noto, nel dibattito tra coloro che sostengono l’idea della sicurezza sociale e coloro che, viceversa, si richiamano all’impostazione assicurativa tradizionale, Giuseppe Pera si schiera nettamente con i secondi. Al fondo di quel dibattito egli coglie, infatti, una contrapposizione che giudica dipendere non tanto da divergenze di valutazioni tecnica sulla maggiore o minore funzionalità del sistema previdenziale, bensì da divaricazioni concettuali precostituite, che si prospettano, come dichiara in un suo scritto di quegli anni, in termini “di civiltà, di valori, di modi elementari di concepire l’uomo nella società”, espressione, cioè – secondo la sua impostazione ideologica – della “contrapposizione eterna di base, tra liberismo e socialismo, tra la concezione dell’uomo libero federato con gli altri e la concezione organicistica dell’uomo, mera molecola dipendente da tutto”.
Parliamo ora della Rivista. Che ruolo ha avuto Giuseppe Pera in merito alla tua scelta, indubbiamente coraggiosa, di fondare una rivista che specificamente (ed esclusivamente) si interessi del diritto della previdenza e dell’assistenza sociali?
I fatti sono andati nella seguente maniera. Quando, agli inizi degli anni Ottanta, la gloriosa “Rivista italiana di previdenza sociale”, ormai uscito di scena, da qualche anno, il direttore carismatico, Umberto Chiappelli, chiude i battenti, di fatto si crea un vero e proprio vuoto nello specifico settore.
Nella prospettiva della quale ho già detto, e nella logica risalente della sua pedagogia, Giuseppe Pera mi propone di assumere un’iniziativa che valga a colmare quel vuoto; in pratica, mi propone di fondare una nuova rivista che sia sede di confronto e di dibattito scientifico in materia di previdenza e assistenza sociali, e, nel contempo, strumento di valorizzazione culturale di quella stessa materia.
Un obiettivo ambizioso che mi lascia interdetto e disorientato, sebbene avverta che l’esigenza è reale e che meriti di essere soddisfatta. Mi schernisco, ma Pera non perde occasione per insistere, e con determinazione, rintuzzando, tutte le volte che capita, le ragioni che squaderno a sostegno delle mie non poche e ben comprensibili perplessità.
Nel frattempo, con la coerenza che gli è propria, decide di inserire nella “Rivista italiana di diritto del lavoro”, della quale ha assunto la direzione alla morte di Aldo Cessari, una rubrica specifica – l’“Osservatorio previdenziale” –, anche sulla quale sollecita il mio coinvolgimento. Se ne discute e, alla fine, la rubrica viene di fatto affidata a un gruppo, che lui battezza subito come il gruppo dei “quattro moschettieri”: ne fanno parte Stefano Giubboni, Carlo Alberto Nicolini, Fabrizio Domenico Mastrangeli e il sottoscritto.
Fondare e portare avanti nel tempo una rivista giuridica che abbia le caratteristiche e le finalità indicate è progetto ambizioso e assai arduo, come non mi stanco di ripetere. Ma inutile negarlo: è una iniziativa allettante, una sfida stimolante, un’avventura che può rivelarsi esaltante. Finisce, così, che cedo alle sollecitazioni e alle lusinghe. Mi prendo però, prima di avviare concretamente l’iniziativa, un certo lasso di tempo per organizzarmi, anche psicologicamente; d’altra parte, ci sono da trovare le necessarie risorse finanziarie.
E non si tratta soltanto di reperire un editore disponibile; si tratta anche e comunque di mettere insieme un team di collaboratori di qualità, disponibili a condividere collettivamente l’azzardo, le responsabilità, l’impegno per tutto il tempo necessario. Così come si tratta di mettere in piedi una struttura che sia in grado di sostenere il carico dei periodici adempimenti.
Nell’insieme, un compito tutt’altro che agevole, come si può ben comprendere!
Di fatto, grazie anche alla disponibilità di un editore di grande competenza e serietà, qual è Giuliano Giappichelli (che già conosco per aver in precedenza pubblicato con lui), e al supporto del gruppo di colleghi e amici che, evidentemente condividendo il coraggio e lo spirito di avventura, con me accettano di condividere gli oneri della direzione – Edoardo Ales, Giuseppe Ferraro, Stefano Giubboni, Franco Liso, Fabrizio Miani Canevari e Pasquale Sandulli –, do il via all’iniziativa, fondando RDSS, “Rivista del diritto della sicurezza sociale”.
Per la parte operativa non ho altra possibilità che affidarmi (invero, con molta trepidazione all’inizio) ad una struttura in house: decido di avvalermi, cioè, delle due segretarie di Studio. Una scelta che, azzardata all’apparenza, alla prova dei fatti si rivela valida, tenace e affidabile.
Il primo fascicolo vede la luce nel 2001 e si apre con un breve articolo di Giuseppe Pera: una scelta, questa, che è anche un modo simbolico per rendere omaggio a colui cui va riconosciuta la paternità morale dell’iniziativa.
Quanto alla periodicità, prudenzialmente programmo una cadenza semestrale. Ben presto, però, quando l’orizzonte si schiarisce, e le difficoltà appaiono più ragionevoli, passo alla periodicità quadrimestrale, per arrivare, non molto tempo dopo, quando il vento gonfia ormai le vele, all’attuale cadenza trimestrale.
Dunque, un’esperienza che complessivamente ha dato e sta dando buoni risultati?
Posso dire, senza mezzi termini – ora che la Rivista, pur restando necessariamente “di nicchia”, ha conquistato una posizione di tutto rispetto nel panorama delle riviste scientifiche del settore giuridico –, che si è trattato (e si tratta) di un’esperienza molto stimolante. Solo grazie all’entusiasmo, tuttavia, è stato possibile superare le difficoltà, non piccole, dei primi anni in particolare, quando anche tra i componenti della direzione sono forti – e, diciamolo pure, non privi di fondamento – le perplessità sul destino stesso della Rivista, specie se da gestire nel rigoroso rispetto dell’impostazione decisa al momento stesso dell’atto fondativo: limitarne i contenuti alla specifica materia della sicurezza sociale, senza eccezioni. Donde la tentazione di discostarsi dall’originario programma, e, dunque, di aprire la Rivista anche ad argomenti prettamente di diritto del lavoro.
Ha prevalso, tuttavia, la scommessa sulle possibilità di tenuta dell’impostazione impressa alla Rivista all’atto stesso della sua fondazione. Una scommessa, ora lo si può dire, vinta: la fiducia nella bontà della visione originaria, accompagnata dalla tenacia e dall’impegno di tutti, hanno prevalso sui dubbi, le perplessità, i timori.
Tappe significative possono essere considerate al proposito: il passaggio a un editore prestigioso come Il Mulino, più versato nel settore delle riviste che non (almeno in quegli anni) l’editore Giappichelli – nei confronti del quale, tuttavia, la Rivista ha un debito di riconoscenza non solo per essere stata tenuta a battesimo ma anche per la serietà e la cura con la quale è stata seguita negli anni –; la causa intentata all’ANVUR davanti al Tar Lazio per il riconoscimento della classe A, risoltasi vittoriosamente; l’ampliamento e il rafforzamento della Direzione, attraverso la cooptazione in essa di Patrizia Tullini e di Giovanni Mammone; il conseguimento nel 2018 del premio “Selvaggi” per la migliore stampa storico giuridica dell’anno; l’istituzione, sempre nel 2018, del “Seminario RDSS di primavera”, occasione (ormai di sperimentato successo) di confronto interdisciplinare, a cadenza annuale, su problematiche di fondo dell’ordinamento di sicurezza sociale, giunta ormai alla sesta edizione.
A questo punto, dopo la Rivista, il Manuale: che cosa realmente significa per te il Manuale?
C’è chi sostiene che il Manuale è come un’amante: più passa il tempo, più si fa esigente.
E forse è proprio così, per quanto mi riguarda. Ormai giunto alla sedicesima edizione, il “Diritto della previdenza sociale” effettivamente rappresenta per me il frutto di un’esperienza (ormai ultratrentennale) che ha avuto, sì, varie fasi, ma vissuta sempre con piena partecipazione, con continuità e impegno crescente.
Debbo confessare che all’indomani del concorso avevo già pronto quanto necessario allo scopo. Tuttavia, ho sempre ritenuto che la scelta di farsi “autore di manuale” si collochi su di un crinale da percorrere con cautela, perché ha un versante reso scivoloso dall’insidia della presunzione. Un’insidia dalla quale guardarsi bene, specie in una comunità particolarmente “sensibile” e “suscettibile” come quella che è propria, in generale, della categoria della quale sono entrato a far parte. È pensando a questo che ho preferito attendere il momento in cui mi sarei sentito un po' più “consolidato” nella nuova realtà.
Il battesimo comunque, lo ricevo, anche in questo caso, da Giuseppe Pera, il quale, come ho già ricordato, mi offre ospitalità nel suo Manuale per una parte da destinare alla trattazione della previdenza.
La mia prima, autonoma esperienza, comunque, è costituita dalla versione del “Diritto della previdenza sociale”, pubblicata nella “Piccola biblioteca Giuffrè” nel 1991 (con una seconda edizione nel 1994).
Due “assaggi”, quelle due edizioni, per poter poi, acquisita la dovuta esperienza, dare avvio, a partire dal 1996, alla serie delle edizioni con la Casa editrice Giappichelli (mentre risponde a questa intervista, è già in cantiere quella che, secondo le intenzioni, dovrebbe essere l’edizione 2024).
L’assegnazione alle varie edizioni di una copertina ogni volta di colore diverso può essere intesa come una civetteria (benevolmente assecondata dall’Editore) di chi, in fondo, non disdegnerebbe di sentirsi addebitare (vero o non vero, che sia) di averne fatte di tutti i colori!
In realtà, quella scelta vuol essere una garbata, ironica allusione alla estrema mutevolezza che caratterizza la materia trattata nelle pagine che ognuna di quelle colorate copertine protegge e racchiude.
A questo punto il tuo rientro all’Università di Macerata da ordinario. Dopo le positive esperienze che hai ricordato e gli allievi che hai formato, come mai questa decisione di tornare a Macerata?
Dopo un po' arriva la nostalgia: quel desiderio di “tornare a casa”, che anche il viaggio più bello e formativo a un certo punto del percorso suscita: credo che proprio di questo si sia trattato.
D’altra parte, con il ritorno di Roberto Pessi a Roma, a Macerata la seconda cattedra di diritto del lavoro è vacante. Mi si pone, dunque, in maniera molto concreta e urgente il dilemma se rientrare nella mia città di residenza, prima di divenire “forestiero” anche in essa, o adattarmi a mantenere fino in fondo quel particolare status di (seppur privilegiato) pendolare perugino.
Quali sono state le tue sensazioni al rientro nell’Università di Macerata, che tipo di accoglienza hai trovato, quali cambiamenti?
Trattandosi di periodo più vicino nel tempo, è assai più facile rispondere alle tue domande, ed anche più sinteticamente di quanto non abbia fatto finora.
L’accoglienza che ricevo al mio rientro a Macerata è buona, anche perché mi ritrovo un buon numero di docenti già conosciuti da tempo. Ed è anche utile, come mi dimostra il fatto che mi viene subito attribuita sia la direzione della “Scuola di specializzazione per le professioni legali di Macerata e di Camerino”, sia della “Scuola di specializzazione in diritto sindacale, del lavoro e della previdenza”: direzioni che assumo volentieri e che avrei retto fino alla data del pensionamento, e, anzi, avendo cura di mantenere (come ho già ricordato), anche per il periodo successivo, l’incarico di insegnamento nella seconda.
È a questo punto che, inaspettatamente, Pietro Ichino mi prospetta la possibilità della mia chiamata all’Università Statale di Milano. Una proposta assai allettante sotto più profili, rivolta da uno stimato collega, e, insieme, manifestazione di amicizia e stima, che mi tentano fortemente.
Faccio le mie riflessioni, mentre Ichino tiene ferma la proposta di chiamata per un lasso di tempo di durata del tutto inconsueta; mi consulto con i familiari, con le conoscenze che ho a Milano; mi consulto anche con i soci dello Studio Legale.
Alla fine, prevale quanto mi lega alla mia città, e declino; anche qui con sconcerto di tanti e non poche critiche di alcuni.
A dire il vero non è la prima volta che mi risolvo a una decisione del genere, di fronte a una proposta altrettanto allettante e prestigiosa. Già nei primissimi anni della mia presenza a Perugia, infatti, mi era stata rivolta analoga proposta: la chiamata all’Università di Pisa. Una tentazione assai forte anche allora, ma alla quale, dopo mille tentennamenti, ho resistito. Una rinuncia più strettamente dovuta, però, in quell’occasione, a ragioni di carattere familiare (a differenza di Perugia, molto più vicina, la distanza di Pisa da Macerata avrebbe richiesto prima o poi il trasferimento della famiglia, che, in realtà, avrebbe vissuto quel mutamento di sede come uno “sradicamento”). Quanto a me, d’altra parte, la sensazione era quella di avere ancora bisogno di un po' di rodaggio: e a Perugia, dove già mi stavo ambientando, quel rodaggio sarebbe stato più facile.
E la tua attività in questo periodo?
Il periodo aceratese è un periodo altrettanto intenso del periodo trascorso a Perugia. Mi accorgo, d’altra parte, che gli anni trascorsi nell’una e quelli trascorsi nell’altra sede dal punto di vista numerico sostanzialmente si equivalgono.
Cadono in questo periodo le vicende che interessano la Rivista, che ho già ricordato.
Sono già a Macerata, quando condivido con Stefano Giubboni (da tempo, oramai, passato dal ruolo di allievo a quello di valoroso collega) la decisione di scrivere insieme “Lineamenti di diritto della previdenza sociale”, il Manuale che, per taglio e dimensioni, possa ambire alla penetrazione nel circuito dei libri di testo universitari; il mio, in effetti (che sempre più spesso mi capita di sentire indicare, date le sue dimensioni, come “il Manualone”), da tempo è prevalentemente utilizzato dagli operatori del foro e dalle Scuole di specializzazione. La prima edizione dei “Lineamenti” è pubblicata nel 2018 per i tipi di Kluwer Cedam e, segno evidente di una buona accoglienza, è presto seguita da altre due; anche qui la quarta edizione è in fase di allestimento.
Appartengono al periodo maceratese anche l’impegno per vari commentari – la curatela della maggior parte dei quali condivido con Giuseppe Ferraro –; l’assunzione della presidenza della Sezione Marche del Centro Studi di Diritto del Lavoro “Domenico Napoletano”; l’intensificarsi dei rapporti con la rivista “Diritto e lavoro nelle Marche”, la rivista regionale fondata nel 1983 e diretta da Leonardo Carbone, che, con i suoi quarant’anni di vita e la sua diffusione a livello nazionale, ben può considerarsi una delle più fattive, longeve e apprezzate tra le riviste locali indipendenti di diritto del lavoro.
Prima di chiudere, uno sguardo al futuro: vi sono altri temi sui quali possono considerarsi concentrati i tuoi interessi di studioso in tale prospettiva?
Per rispondere alla tua domanda sulle prospettive di una mia ulteriore attività di ricerca e pubblicistica, posso dire che da qualche tempo mi sto interessando del ruolo e degli andamenti, anche evolutivi, di quella particolare, fondamentale fonte materiale che è la giurisprudenza della Corte costituzionale.
Un’attenzione, invero, quella della giurisprudenza costituzionale, non di oggi, ma risalente, che si snoda e progressivamente si sviluppa ormai da vari anni, attraverso studi e note. Un’attenzione che, da ultimo, ha avuto motivo di concentrarsi (specie dopo la novellazione dell’ articolo 9 della Costituzione) sulle pronunce in materia di solidarietà intergenerazionale; un concetto, quest'ultimo, che, se riferito anche alle generazioni a venire, implica una dilatazione della portata del principio di solidarietà di singoli e di comunità intermedie, di cui all'articolo 2 della Costituzione, che di per sé rischia di porre in sofferenza l'essenza stessa di quel principio; così come parrebbe poter mettere in discussione anche i confini tra i “doveri” dei cittadini (di cui alla succitata norma) e i “compiti” della Repubblica (secondo l'espressione con la quale si apre il comma 1 dell'articolo 3 della Costituzione): cioè quella responsabilità di “buon governo”, essenza della politica, che è al fondo di quest'ultima norma costituzionale, e non può essere di certo confusa con i doveri di solidarietà, né da essi surrogata.
Un filone di ricerca e riflessione di particolare delicatezza – non occorre sottolinearlo – che si intreccia con problematiche di altrettanto intensi impatto e rilevanza: quella indotta dalla tensione-torsione del principio di eguaglianza al confronto e nelle interazioni con l'altrettanto fondamentale, costituzionalmente equiordinato principio di libertà economica.
Solidarietà, eguaglianza, libertà economica: principi basilari del nostro ordinamento, sui quali riflettere seguendo le direttrici tracciate dal diritto costituzionale vivente – cioè, tenendo conto degli orientamenti di quella giurisprudenza costituzionale che è anch’essa, in fondo, alla ricerca di saldi ancoraggi. Ce n'è abbastanza, credo, per tenermi occupato ancora per un paio di “annetti” … almeno!
Davvero grazie, Professore, per questa bella intervista, non autoreferenziale, ricca di ricordi e di affetti, e anche di notizie, per alcuni di noi inedite, che ci riportano ad un tempo per molti aspetti non più attuale della vita accademica e professionale.
Grazie a te (e alla Rivista Lavoro Diritti Europa, che ci ospita) per l’occasione che mi è stata data: e non solo per avermi consentito di riportare alla luce episodi dei quali era come se stessi perdendo la memoria, ma anche per avermi indotto a riflettere e chiarire a me stesso alcuni aspetti di quel passato.