Pietro Ichino è nato il 22 marzo 1949 a Milano, dove nel 1972 si è laureato in diritto del lavoro all’Università Statale; dal 1969 è stato sindacalista di zona della Fiom-Cgil alla periferia nord di Milano, poi dal 1974 Responsabile del Coordinamento Servizi Legali della Camera del Lavoro di Milano. Vinta nel 1986 la cattedra di diritto del lavoro, dopo un quinquennio di docenza a Cagliari è stato chiamato alla Statale di Milano, dove ha insegnato sino allo scorso anno e dove svolge la professione di avvocato giuslavorista. Ha svolto attività politica come deputato del Parlamento italiano nelle file del Pci nell’VIII Legislatura, poi come senatore del PD, che ha contribuito a fondare, negli anni dal 2008 al 2018, XVI e XVII Legislatura, con la parentesi di un biennio di militanza nel movimento Scelta Civica fondato da Mario Monti. Dal 1985 è stato il braccio destro del direttore Giuseppe Pera per la cura della Rivista italiana di diritto del lavoro, della quale è stato poi vicedirettore dal 1991 e direttore dal 2002 al 2008, quando ha dovuto lasciare questo incarico a seguito dell’elezione al Senato (in questo lavoro è stato affiancato da sua moglie Costanza Rossi, per 23 anni segretaria di redazione della rivista, deceduta nella primavera scorsa a seguito di una paralisi progressiva). Editorialista del Corriere della Sera dal 1997, è stato tra gli ideatori e fondatori, a Lucca, della Fondazione Giuseppe Pera. La sua amplissima produzione scientifica, giornalistica e letteraria può essere consultata sul sito www.pietroichino.it, attivo dal 2008, del quale cura una newsletter bisettimanale seguita da molte migliaia di iscritti. Tra le sue opere maggiori di diritto del lavoro si segnala il trattato in tre volumi (2000-2003) su Il contratto di lavoro commissionatogli da Luigi Mengoni in qualità di direttore del Trattato di diritto civile e commerciale fondato da A. Cicu e F. Messineo, nel quale viene completato e sistematizzato il risultato dei suoi studi di diritto del lavoro e di labour law and economics; inoltre Il diritto del lavoro nell’Italia repubblicana. Teorie e vicende dei giuslavoristi italiani (2008), da lui scritto con Riccardo Del Punta, Raffaele De Luca Tamajo e Giuseppe Ferraro, dove si trovano raccolte anche le sue cinque grandi interviste a Luigi Mengoni, Gino Giugni, Federico Mancini, Renato Scognamiglio e Giuseppe Pera. Tra le sue numerose opere di politica del lavoro e sindacale, destinate a un pubblico più ampio, si segnalano Il collocamento impossibile (1982), Il lavoro e il mercato (1996), A che cosa serve il sindacato (2005), Il lavoro ritrovato (2015), dedicato a una sorta di “storia interna” del Jobs Act, e ultimamente L’intelligenza del lavoro (2020), la cui pubblicazione fornisce l’occasione e insieme l’oggetto principale di questa intervista. Nel 2018 ha pubblicato La casa nella pineta. Storia di una famiglia borghese del Novecento, autobiografia politica ed esistenziale che, estendendosi alle vicende della famiglia, si intreccia con le vicende politiche dell’Italia lungo tutto il secolo scorso. Tra queste in particolare la vicenda del terrorismo politico, dal quale P.I. è stato preso di mira, essendo per questo messo sotto scorta dal 2002.
I tuoi Maestri sono stati Luisa Riva Sanseverino e Giuseppe Pera.
Cosa ti hanno insegnato?
La professoressa Riva Sanseverino mi ha introdotto nel mondo del diritto del lavoro in un periodo incandescente, quello del biennio ’68-’69, insegnandomi a studiarne le vicende senza i paraocchi, a riconoscere le radici dell’ordinamento lavoristico all’inizio del secolo nell’opera di Ludovico Barassi e di Giuseppe Messina, i suoi sviluppi anche positivi nel ventennio corporativo e soprattutto nel codice civile, poi il rischio di riassorbimento nel grande alveo del diritto civile che il diritto del lavoro ha corso all’indomani dell’abrogazione dell’ordinamento corporativo, proprio perché da molti identificato con il diritto corporativo stesso. Quella di Luisa Riva Sanseverino era stata una delle sole quattro cattedre di diritto del lavoro sopravvissute alla caduta del fascismo. Avendo saputo del mio lavoro come sindacalista di zona, fu lei a propormi come oggetto della tesi di laurea il contratto collettivo aziendale: un tipo contrattuale sconosciuto alla legge, di cui all’epoca si dubitava persino che potesse qualificarsi come contratto collettivo.
E Giuseppe Pera?
Lui era il primo allievo di Luisa Riva Sanseverino, legato a lei da un sentimento filiale intensissimo prima ancora che dall’impegno a coltivare il suo modo di intendere e vivere il diritto del lavoro, la sua libertà dagli schemi, il suo rifiuto di ogni faziosità, e anche di ogni astrusità del ragionamento giuridico. Lavorare per un quarto di secolo al fianco di Giuseppe Pera per la Rivista italiana è stato una scuola intensa e continua: di ricerca della chiarezza, innanzitutto – “la chiarezza è l’onestà dello studioso” era il suo motto –, che significa anche cercare sempre di mettere a fuoco nitidamente l’effetto pratico di ogni affermazione teorica; di attenzione al diritto vivente, quello fatto dalla giurisprudenza e dalla contrattazione collettiva; di attenzione all’utilità pratica del lettore, che qualche volta entra in conflitto con l’interesse dell’autore a gonfiare il proprio scritto, oppure a esprimersi in modo più fumoso per ridurre il rischio di essere contraddetto. Quante volte mi ha fatto rispedire a un collaboratore della rivista un dattiloscritto del quale sette o otto pagine su dieci erano sbarrate dalla sua biro rossa, con l’indicazione di ridurre la nota alle due o tre pagine superstiti, le sole che a suo giudizio contenessero qualche cosa di originale suscettibile di interessare ai lettori.
Il professor Pera teorizzava la necessità di darsi del lei con i collaboratori: perché – spiegava – se a uno dici “tu se’ un bischero” la cosa può essere intesa come scherzosa, mentre se gli dici “lei è un bischero” la cosa ha tutto un altro peso.
Invece a te, unico della tua generazione, dava del tu. Come è accaduta questa cosa?
All’inizio della collaborazione, per qualche anno aveva dato del lei anche a me. Il passaggio al tu avvenne verso la fine degli anni ’80, durante una gita da Cutigliano al Libro Aperto, sopra l’Abetone. Aveva preso a considerarmi come un figlio. Mi disse che era colpito dal grande lavoro che mi ero accollato per la Rivista da lui diretta, senza alcun ritorno personale; ma credo che a determinare l’intesa profonda che si era stabilita tra lui e me sia stato soprattutto il fatto che lui in qualche modo rivedeva la propria vicenda politica e culturale nella mia: anch’io come lui ero nato politicamente nella sinistra, come lui avevo esercitato tutta la mia libertà di pensiero criticando alcuni modi d’essere della sinistra e ne ero stato per questo emarginato. Gli interessavano moltissimo i miei racconti sui meccanismi decisionali interni al vertice del Pci; ed era stato molto colpito dalle critiche di cui ero bersaglio per le tesi sostenute nel libro Il collocamento impossibile, del 1982, per il quale avevo perso il posto in Parlamento.
Qual è stato, invece, nel percorso della tua formazione giuridica il ruolo di Carlo Smuraglia?
Carlo Smuraglia mi prese con sé come assistente nel 1975, un anno dopo che la professoressa Riva Sanseverino aveva cessato di insegnare, quando lui vinse il concorso a cattedra e io ero ancora responsabile del Coordinamento dei Servizi legali della Camera del Lavoro di Milano. Il suo rapporto con me fu esemplare dal punto di vista dell’etica accademica: non ricordo che mi abbia mai chiesto di sostituirlo in una sola lezione, o mi abbia affibbiato una corvée amministrativa o didattica spettante a lui, o mi abbia chiesto un servizio personale. Né mai ha esercitato la minima pressione su di me perché mutassi le mie linee di interpretazione del diritto vigente o temperassi le idee e proposte di politica del lavoro, neppure nei punti sui quali il dissenso tra noi era più marcato. Però, certo, non posso dire che tra lui e me sia nato un rapporto di amicizia profonda, quale sarebbe nato invece dieci anni dopo con Giuseppe Pera. Non mi invitò mai a casa sua: nei miei confronti ha tenuto sempre, come si suol dire, le distanze. E comunque quella mia prima collaborazione con la sua cattedra durò solo quattro anni, perché nella primavera del 1979 la Cgil e il Pci mi spedirono in Parlamento. Utilizzando, tra l’altro, un seggio per il quale sarebbe stato proprio lui il candidato più logico, ma al quale lui rinunciò preferendo svolgere fino in fondo il ruolo di presidente del Consiglio regionale, cui era stato eletto l’anno prima.
E il tuo rapporto con Luigi Mengoni? Lo consideri un tuo maestro?
Indicarlo come maestro “mio”, in un senso più stretto di quanto tutti i civilisti e i giuslavoristi possono considerare Mengoni come loro maestro, sarebbe abusivo. Ebbi però con lui un rapporto abbastanza stretto e continuo dal 1992, quando lui accettò di fare con me la lunga e corposa intervista, che sarebbe uscita quello stesso anno sulla Rivista italiana. Quando ero andato a proporglielo temevo molto che si schermisse; invece disse: “Proviamo”. Il patto era, ovviamente, che avrei trascritto il più fedelmente possibile le sue risposte alle mie domande e che, comunque, non sarebbe stato pubblicato niente che lui non avesse approvato. Poi di interviste ne vennero fuori due: una più lunga, con alcuni passaggi più espliciti e incisivi, e una da lui accorciata e con qualche spigolo smussato. Sulla Rivista italiana nel ’92 uscì quest’ultima. Potei invece pubblicare postuma la prima, quella integrale, ottenutone il consenso dalla moglie e dai figli, nel libro sul Diritto del lavoro nell’Italia repubblicana, nel 2008. Dal lavoro per quell’intervista nacque un’amicizia e una confidenza tra lui e me, che lo indusse poco tempo dopo ad affidarmi la parte sul contratto di lavoro nel Trattato Cicu Messineo, che da qualche tempo era lui a dirigere. Anni prima l’aveva affidata a un altro collega, che però aveva finito col proporgli un’opera a più mani; lui invece voleva una trattazione coerente in ciascuna sua parte sia nel contenuto sia nel metodo, quindi scritta tutta da una sola mano. E nel propormela, vedendomi un po’ preoccupato, mi incoraggiò dicendosi convinto che potevo farcela. Fu il lavoro di tutto il mio decennio successivo: i tre volumi uscirono tra il 2000 e il 2003. Mengoni poté vedere completato solo il primo e gran parte del secondo; conservo tra le cose più care le lettere con cui commentò quei primi dieci capitoli, via via che glieli sottoponevo.
Mi fa un certo effetto pensare a te che negli anni ’90 lavori a testa bassa sul trattato, chiuso in biblioteca, sotto la direzione di Mengoni, e che solo vent’anni prima facevi il sindacalista della Cgil. Come è avvenuta la metamorfosi?
Più che una metamorfosi, è stata la vicenda che ho raccontato ne La casa nella pineta: quella del “Pierino” che aveva progettato di spogliarsi dei privilegi per ottemperare al precetto di don Lorenzo Milani, ma poi i privilegi lo avevano riacciuffato.
Puoi spiegare meglio questa cosa?
Quando, nel ’69, rinunciai ad andare a lavorare con mio padre, cioè a fare l’avvocato, sentivo già una forte passione per lo studio del diritto, e del diritto del lavoro in particolare; ma decisi di non assecondarla, per seguire la strada indicata dal priore di Barbiana. Per tutto il decennio precedente, da quando era venuto a Milano ospite a casa nostra con i suoi primi sei allievi, era stata ancora più forte la mia passione per lui e il suo insegnamento: “hai il dovere di restituire tutto”; e “se vuoi restituire quello che hai ricevuto, o fai l’insegnante o fai il sindacalista”. Io scelsi di fare il sindacalista. Però, anche dopo quella scelta, la passione per lo studio del diritto del lavoro ha sempre covato sotto la cenere; e neanche troppo sotto: alla Camera del Lavoro organizzai un corso di diritto del lavoro per i delegati dei consigli di fabbrica, con cadenza mensile, che ebbe un grande successo. Dalle dispense che preparai per quel corso nacque il mio Diritto del lavoro per i lavoratori, pubblicato in due volumetti nel 1975 e nel 1977. Poi, nel ’79, la Cgil milanese pensò bene di inviarmi a rappresentarla in Parlamento; e già questa fu una prima battuta d’arresto sulla strada della spoliazione dai privilegi. Infine, nell’83, il Pci pensò bene di non rieleggermi; a quel punto non mi parve vero poter dedicare due anni interamente a scrivere un libro sul tempo di lavoro che avevo in testa da tempo.
Da dove era nata l’idea di quel libro?
Soprattutto dalle battaglie che avevo condotto nel sindacato e in Parlamento per il riconoscimento legislativo del part-time. Nel corso delle quali avevo capito che il motivo principale del rifiuto da sinistra del part-time era la riluttanza a consentire che una parte rilevante della struttura del rapporto di lavoro – l’estensione temporale della prestazione nell’unità di tempo, al di sotto del limite massimo – potesse essere assoggettata all’autonomia negoziale individuale. Fatto sta che quella monografia – Il tempo della prestazione nel rapporto di lavoro –, pubblicata in due volumi nel 1994 e nel 1995, mi fruttò la vittoria al concorso a cattedre dell’86. Così mi ritrovai addosso tutti i privilegi ai quali mi ero proposto di rinunciare.
Comunque l’altro insegnamento di don Milani, secondo cui “l’obbedienza non è una virtù”, quello sembra che tu abbia continuato a coltivarlo.
Se ti riferisci al fatto che sia in Parlamento, in quella legislatura 1979-83, sia poi nella sinistra cui ho continuato ad appartenere, sia nell’accademia, mi sono trovato sempre un po’ a pensare e ad agire controcorrente, questo forse mi deriva, prima ancora che dalla frequentazione di don Milani, dalle radici culturali ebraiche della mia famiglia materna: quella dei Pontecorvo, dei Sereni, degli Ascarelli e dei Colorni. Gli ebrei sono costituzionalmente liberi dai vincoli dell’ortodossia, quindi liberi pensatori. Era ebreo di origine anche don Milani, del resto.
Come si concilia la tua battaglia contro il vecchio articolo 18 dello Statuto con gli insegnamenti del Priore di Barbiana?
Non era lui che diceva che ogni licenziamento è una condanna a morte, e non si devono condannare a morte neppure i peggiori criminali?
Don Lorenzo diceva questo nell’Italia in cui si poteva essere licenziati senza alcun motivo e addirittura anche per un motivo esplicito di discriminazione politica o di rappresaglia antisindacale; e il trattamento di disoccupazione era irrisorio. Diceva questo vent’anni prima che ci si accorgesse che un regime di job property come quello instaurato dall’articolo 18 dello Statuto genera necessariamente lavoratori iperprotetti da una parte ed esclusi dall’altra, o comunque quelli che portano sulle spalle tutta la flessibilità di cui il tessuto produttivo ha bisogno. Prima, cioè, che venisse evidenziato e spiegato come la job property sia sempre in qualche misura uno strumento di protezione di insider a danno di outsider. Di fronte a un conflitto tra insider e outsider lui si sarebbe schierato sicuramente con questi ultimi.
Quel tuo decennio di esperienza sindacale e poi quell’esperienza politico-parlamentare che cosa hanno aggiunto, alla tua cultura di giuslavorista?
Quell’esperienza parlamentare nell’ottava legislatura mi ha fatto conoscere da vicino, dall’interno, i meccanismi del potere legislativo e in qualche misura anche quelli dell’esecutivo. Nel decennio di esperienza sindacale, invece, ho visto come funzionava effettivamente, nel vivo del tessuto produttivo, il sistema delle protezioni del lavoro. Dunque i benefici che ne derivavano per chi il lavoro regolare lo aveva già, ma anche talvolta le difficoltà che ne conseguivano per chi non lo aveva ancora. La mia battaglia contro il monopolio statale del collocamento nacque dal confronto tra gli ostacoli assurdi che vedevo in concreto derivarne per il funzionamento del nostro mercato del lavoro e il modo eccellente in cui vedevo funzionare i servizi per l’impiego in Gran Bretagna, dove il monopolio non c’era. La mia percezione del fatto che non era tutto oro quel che luccicava, cioè che il diritto del lavoro e il sindacato potevano talvolta diventare anche strumenti di difesa degli insider contro gli outsider, nacque dall’osservazione diretta di quel che accadeva nei rapporti tra grandi imprese e piccole appaltatrici di servizi, ma spesso anche appaltatrici soltanto di manodopera, molto prima che dalla lettura degli studi di Assar Lindbeck e Dennis Snower. Per altro verso, il fatto di appartenere a quella che allora era l’ala sinistra del movimento sindacale mi consentiva di affinare le idee critiche attraverso la discussione e la verifica al suo interno, per poi proporle con maggior forza all’esterno, senza che si potesse pensare che io fossi al servizio dell’odiato padrone.
Della tua vita controcorrente siamo tutti a conoscenza e ne sei consapevole anche tu: lo hai scritto più volte, anche nella prefazione di questo ultimo libro. Sei stato per diversi aspetti un eretico sia nella Chiesa, sia nel sindacato, sia nel partito, sia anche nell’accademia, attirandoti addosso molte critiche alcune durissime.
Ce n’è qualcuna che ritieni, tutto sommato, giustificata?
Una critica che mi colpisce perché mi rendo conto che ha in sé un elemento di verità, è quella dei colleghi professori e avvocati giuslavoristi che non mi sentono come un “collega” ma in qualche modo come un antagonista. Perché vedono nelle mie tesi, e soprattutto in quello che ho fatto in Parlamento perché venissero recepite in norme legislative, una riduzione del ruolo della giurisdizione nel sistema della tutela del lavoro, quindi del loro stesso ruolo. È vero: nel quinquennio tra il 2012, l’anno della legge Fornero n. 92, e il 2017, il secondo anno successivo ai decreti n. 23 e n. 81/2015 attuativi del Jobs Act, le cause in materia di licenziamenti e di contratti a termine si sono dimezzate. Lo considero un bene, perché il tasso del contenzioso giudiziale sulla nostra materia, in Italia, era troppo disallineato rispetto a quello degli altri principali Paesi europei: costituiva una vera e propria grave anomalia. Quando si semplifica una norma e si rende più immediatamente chiara e univoca la sua applicazione e il suo effetto pratico, automaticamente si riduce il contenzioso. Si può benissimo aumentare il livello della protezione, se lo si ritiene necessario, senza bisogno di aumentare la discrezionalità del giudice nella sua applicazione e quindi il relativo contenzioso. Considero un errore il pensare che la protezione non sia tale se non passa attraverso l’opera degli avvocati e dei giudici. E resto comunque convinto che la protezione migliore per chi vive del proprio lavoro consista nella possibilità di scelta nel mercato, quindi nella disponibilità di servizi efficaci e capillari nel mercato stesso. Però mi dispiace che tutto questo mi faccia apparire a una parte dei colleghi come un antagonista, addirittura un nemico del diritto del lavoro.
Comunque, ci ha pensato la Corte costituzionale a restituire alla giurisdizione una parte dello spazio che le era stato tolto dal Jobs Act, riconoscendo la discrezionalità del giudice nella determinazione dell’indennizzo per il licenziamento ingiustificato tra il minimo e il massimo.
Eh già, è stata una piccola “crisi di rigetto” della nuova disciplina da parte dell’establishment del diritto del lavoro. Però l’impianto complessivo di quella riforma ha retto; e col passare del tempo si consoliderà. In particolare si consoliderà il passaggio dal vecchio regime di job property al nuovo apparato sanzionatorio in materia di licenziamenti ordinari, basato sull’indennizzo, in linea con quello che accade in tutti gli altri ordinamenti occidentali. E questo basta per ridurre il contenzioso giudiziale nella nostra materia, che in precedenza era in gran parte legato alla “posta in gioco” elevatissima della reintegrazione. Si sta sviluppando, in compenso, la giurisprudenza in tema di licenziamento per motivi discriminatori, come nei Paesi anglosassoni.
Ci sono invece delle critiche che ritieni ingiuste, che ti hanno ferito?
Ferito mai: mi è stato insegnato che – come diceva San Giovanni Crisostomo – si può essere offesi solo da sé stessi. Nessuna critica o accusa può ferirci, se non ha una risonanza dentro di noi, se non sentiamo intimamente che coglie un nostro difetto o una nostra colpa. Però mi colpiscono e mi preoccupano le critiche provenienti da chi non ha letto quel che ho scritto a sostegno delle mie tesi, si è accontentato di una loro precomprensione intuitiva per respingerle in limine, senza studiare per davvero ciò che propongo a loro fondamento. Vero è che nella nostra comunità accademica, da tempo ormai, si pubblica troppo, col risultato che si finisce col non leggere gli uni quello che scrivono gli altri.
Puoi fare un esempio?
Ho visto muovere critiche anche durissime alla mia tesi circa la necessità di utilizzare il severance cost come filtro delle scelte imprenditoriali in materia di licenziamento, basata sull’indimostrabilità in giudizio del giustificato motivo oggettivo di licenziamento. Ma quando ho constatato che chi mi muoveva quelle critiche non aveva neanche letto gli argomenti a sostegno della mia tesi, né tanto meno si era curato di confutarli uno per uno, ho potuto solo sentirmi deluso da questa carenza di un dialogo vero, aperto, intenso, quale dovrebbe esserci sempre tra studiosi.
Quest’ultimo libro te lo sei dedicato per i tuoi 70 anni, diffidando i tuoi allievi dall’organizzare i consueti “Scritti in onore” – troppi, ormai, come ben dici –, così seguendo l’esempio dei tuoi maestri Luisa Riva Sanseverino e Giuseppe Pera.
Ma immagino che tu non lo abbia scritto solo per questo.
Che cosa ti ha spinto veramente a scriverlo?
Nell’ultimo ventennio avevo sostenuto più volte ciascuna delle tre idee centrali del libro. Ma sempre separatamente l’una dall’altra: non le avevo mai proposte in un insieme organico, strettamente combinate tra loro, come invece è necessario. Avevo in mente da tempo la necessità di farlo, ma non avevo mai trovato il tempo necessario per farlo. Negli ultimi due anni il tempo lo ho trovato, anche a seguito della cessazione dell’impegno parlamentare e per la contemporanea necessità di ridurre al minimo gli altri impegni di lavoro per assistere Costanza, la cui paralisi sopranucleare progressiva entrava nella fase più grave. Negli ultimi due anni ho dunque ridotto al minimo gli impegni didattici, ho smesso di viaggiare, di andare ai convegni, di accettare incarichi per conferenze, anche perché mi sono sempre occupato io dell’assistenza nei giorni festivi e nei fine settimana, oltre che dell’assistenza notturna: quella in cui ero più insostituibile (e che per altro verso mi ha regalato gli scambi più intensi e profondi con lei). Così ho avuto anche molto tempo per riordinare le idee, i materiali, e per scrivere.
Le tre idee di fondo, se interpreto bene il pensiero espresso nel libro, sono queste: disponiamo di “enormi giacimenti occupazionali che anche oggi, nella situazione di grave recessione, restano inutilizzati” e che i lavoratori devono imparare a sfruttare, dotandosi dell’“intelligenza” necessaria; il mercato del lavoro non è soltanto il luogo dove gli imprenditori scelgono i propri collaboratori, ma anche quello in cui già oggi gran parte dei lavoratori, individualmente ma talvolta anche collettivamente, selezionano e ingaggiano l’imprenditore ritenuto più capace di valorizzare il loro lavoro; per far sì che questa possibilità di scelta sia data a tutti, occorre per un verso innervare capillarmente il mercato di servizi efficaci di informazione e formazione mirata, per altro verso aumentare la concorrenza tra gli imprenditori sul lato della domanda di lavoro, rendendo il Paese più attrattivo per il meglio dell’imprenditoria mondiale, e il sindacato-intelligenza collettiva più capace di attribuire un rating agli imprenditori e guidare i lavoratori nella scommessa comune coi migliori sui loro piani industriali innovativi. La domanda che in molti ti pongono è: quest’idea del mercato in cui sono i lavoratori a scegliere l’imprenditore non è un’utopia, non è solo un’altra delle tue provocazioni?
Che non sia un’utopia, ce ne si convince se si considera che già oggi gran parte delle persone che vivono del proprio lavoro compiono effettivamente questa scelta. Che non sia un’idea eccentrica da accantonare come una provocazione, ce ne si convince se si legge attentamente l’articolo 4 della Costituzione: dove sta scritto che la Repubblica è tenuta a rendere effettivo il diritto al lavoro – primo comma – e che questo diritto deve poter essere esercitato da ogni persona “secondo le proprie possibilità e la propria scelta”. Dunque, la visione che propongo non è affatto una boutade, ma è l’unico modo di concepire il mercato del lavoro compatibile con la Costituzione.
Tu scrivi che non è il lavoro in sé che è debole, fragile, a rischio sfruttamento, ma a renderlo tale è l’impossibilità per il lavoratore di scegliere nel mercato. Pensi davvero che il lavoro subordinato non vive più in una situazione di minorità intrinseca?
Quel che sostengo nel primo capitolo del libro è che lo squilibrio patologico di potere contrattuale tra la persona che vive del proprio lavoro e l’imprenditore non è un carattere ontologicamente proprio della posizione di quella persona: in tutti i casi in cui essa ha una possibilità di scelta nel mercato, essa può andarsene sbattendo la porta dall’azienda che la tratta male, o comunque non valorizza abbastanza il suo lavoro. E non c’è protezione migliore di questa. Questa possibilità di scelta, però, presuppone l’esistenza nel mercato del lavoro di servizi capillari ed efficaci di informazione, formazione mirata agli sbocchi occupazionali esistenti, assistenza alla mobilità, sostegno del reddito nella transizione da un’azienda a un’altra. Certo, se questi non ci sono, quella persona si trova in posizione di debolezza, esposta al rischio dello sfruttamento e del maltrattamento; ma è sbagliato pensare che quella persona sia inevitabilmente in quella posizione in quanto prestatrice di lavoro dipendente.
L’asimmetria che da sempre caratterizza i rapporti tra impresa e lavoro, però, non mi sembra sia superata. Cosa ti fa pensare il contrario?
Non è superata perché tutti – sindacato compreso – si occupano soltanto delle protezioni della persona che lavora nel suo rapporto con l’impresa, e nessuno si occupa della sua protezione nel mercato, cioè dei servizi che le occorrono per essere messa in condizione di poter scegliere. Alla fine di maggio ho dedicato a questo tema, centrale in quest’ultimo mio libro, la lezione Massimo D’Antona 2020, conclusiva del corso di diritto del lavoro dell’Università di Firenze, alla quale ho avuto l’onore di essere invitato: in quella lezione mi sono proposto di mostrare che se fossimo nella situazione di monopsonio strutturale tipica della prima rivoluzione industriale, nessun servizio di informazione o formazione potrebbe rimediare allo squilibrio di potere contrattuale tra lavoro e impresa, e la sola correzione possibile starebbe nella norma inderogabile; ma in una economia matura la questione si pone in modo molto diverso.
Che cosa rende tanto difficile l’incontro fra la domanda e l’offerta di lavoro, soprattutto giovanile?
Innanzitutto il difetto di informazione e orientamento: se il tasso di disoccupazione giovanile in Italia è il 250 per cento di quello generale, questo si spiega soltanto con un particolare difetto di conoscenza del mercato del lavoro da parte dei ragazzi che escono dalla scuola o dall’università. Inoltre il fatto che in molti casi le persone disponibili non sono immediatamente in grado di ricoprire un determinato posto di lavoro qualificato o specializzato: hanno bisogno di un percorso di formazione specificamente mirata al posto da ricoprire. Ed è proprio quello che molto spesso manca. Oppure la possibilità ci sarebbe, ma la persona interessata non è in grado di individuare il corso serio, con alta probabilità di uno sbocco professionale coerente, da quello che ha invece una probabilità di esito positivo bassa. Il dato sul tasso di coerenza tra formazione impartita e sbocchi occupazionali effettivi in Italia non viene rilevato, col risultato di azzoppare qualsiasi attività di orientamento professionale.
Concretamente, che cosa si deve fare per porre il lavoratore in condizione di “scegliersi il suo imprenditore”, come tu dici?
Istituire dei centri di servizio ben visibili e ben attrezzati nelle zone più frequentate di ogni città (nei Paesi dove funzionano li chiamano spesso OneStopShop), dove chiunque cerchi un lavoro possa trovare un job advisor che gli insegni a usare Internet, e se necessario lo indirizzi a chi possa fornirgli un servizio serio di orientamento. Sul fronte della formazione, istituire un meccanismo di rilevamento capillare del tasso di coerenza tra formazione impartita in qualsiasi corso finanziato con denaro pubblico e sbocchi professionali effettivi: lo si realizza intrecciando i dati di una anagrafe della formazione con quelli delle Comunicazioni Obbligatorie al ministero del Lavoro, degli albi professionali, delle liste di disoccupazione. È quanto era previsto negli articoli da 13 a 16 del decreto legislativo n. 150/2015, ma è rimasto sulla carta a seguito della bocciatura della riforma costituzionale dell’anno successivo.
Non vedi il rischio che l’automazione e l’intelligenza artificiale riducano la domanda di lavoro umano, ricreando una situazione analoga a quella delle origini, uno squilibrio strutturale tra domanda e offerta di manodopera, sia manuale sia intellettuale?
Come facciamo a essere sicuri che la “fine del lavoro” della quale parlava Jeremy Rifkin sia davvero una fake news, come tu sostieni all’inizio del libro?
Di certezze nessuno ne ha. Ma se guardiamo a ciò che è accaduto fin qui, è difficile credere che ci attenda un futuro senza lavoro umano a causa dello sviluppo tecnologico. Basti questo dato: nel 1977 gli occupati in Italia erano circa 19 milioni; nel 2018, dopo quarant’anni di intenso sviluppo tecnologico, gli occupati erano 23 milioni. Il progresso tecnico travolge il lavoro vecchio, come è avvenuto per le lavandaie: quando ero piccolo ho fatto ancora in tempo a vederle chine sulla sponda del Naviglio Grande, con le mani nell’acqua gelida, ed erano quasi un milione in giro per l’Italia a vivere di quel lavoro ingrato; poi è arrivata la lavatrice intesa come elettrodomestico e le lavandaie sono sparite, ma il tasso di occupazione femminile non è diminuito, è aumentato. Il problema è che il lavoro nuovo può nascere in luoghi diversi da quelli nei quali è sparito il lavoro vecchio. Dove sia destinata a fiorire la nuova occupazione oggi dipende, più di quanto sia accaduto ieri, dalle politiche industriali e dalle politiche attive del lavoro che un Paese sa mettere in campo. Se si vuole attuare seriamente quello che prevede l’articolo 4 della Costituzione, non è principalmente sulla regolamentazione del rapporto di lavoro che si deve agire, né tanto meno sulla sua ingessatura, quanto piuttosto sul sistema dell’istruzione e su quello della formazione, sugli altri servizi al mercato del lavoro e sull’attrattività del Paese per le imprese provenienti dal resto del mondo. Altrimenti, facciamo bene a preoccuparci che la nuova occupazione diventi merce rara nel nostro Paese.
Alt! Luciano Gallino ammonisce che Il lavoro non è una merce (Laterza, Bari-Roma, 2007). Ma se non è una merce, che cos’è?
Il lavoro non è solo una merce, perché è molto di più. Quando può essere amato da chi lo svolge – come insegna Primo Levi – è uno dei modi principali se non il più importante di cui la persona umana dispone per attingere la felicità; e comunque è parte essenziale dell’autorealizzazione di chi lo compie. Ridurlo a mera merce farebbe perdere di vista questo aspetto del lavoro, che è di gran lunga quello più rilevante. Ma il lavoro è anche oggetto di uno scambio in un mercato, di una cessione e di un acquisto; e, sotto questo aspetto, è anche una merce. O meglio: se si vuole comprendere i meccanismi economici di questo scambio è necessario considerarlo come un servizio, del quale nel mercato si manifestano un’offerta e una domanda. Il giuslavorista che – in nome del valore e del rilievo costituzionale del lavoro come fondamento della Repubblica e attributo essenziale della persona – rinunci a comprendere i meccanismi propri del mercato del lavoro, rifiutando il discorso economico solo perché in esso il lavoro è considerato anche come una merce, o addirittura moralisticamente rifiutando il concetto stesso di “mercato del lavoro” perché esso implica l’idea del lavoro-merce, si condannerebbe a non capire gran parte della ratio della sua materia, che consiste proprio nella correzione di disfunzioni di quel mercato.
Nel tuo libro sostieni che il mercato del lavoro deve essere inteso anche come un mercato dell’intrapresa. Cosa significa esattamente questa espressione?
Significa quello di cui abbiamo parlato prima: cioè che in quel mercato non è solo l’imprenditore a scegliere i propri collaboratori tra persone in concorrenza tra loro, ma sono già diffusamente – e devono poter essere tutte, a norma dell’articolo 4 della Costituzione – pure queste ultime a scegliere l’imprenditore più capace di valorizzare il loro lavoro. Affermare questo concetto è indispensabile se si vuole mettere a fuoco la necessità di un aumento della concorrenza degli imprenditori sul versante della domanda di lavoro. Il potere contrattuale delle persone che vivono del loro lavoro dipende in gran parte dall’esistenza di questo “mercato dell’intrapresa”.
Il tuo libro è stato pubblicato – non credo per casuale coincidenza – in concomitanza con il 50° anniversario dello Statuto dei Lavoratori, che possiamo definire la legge fondamentale dei diritti dei lavoratori, la “prima fabbrica dei diritti dei lavoratori” (come ho scritto in un editoriale, rievocativo di quei tempi, su Giustizia Insieme, il 20 maggio 2020).
Nella tua visione, cosa ha rappresentato, in passato, e cosa rappresenta, oggi, lo Statuto?
Lo Statuto ha fatto entrare dentro i cancelli di ogni azienda i diritti fondamentali della persona: libertà di pensiero e di espressione, libertà di associazione e di proselitismo, e il diritto alla riservatezza – il right to privacy degli anglosassoni –, che con questa legge ha fatto il suo esordio nel nostro Paese: lo Statuto è la prima legge italiana in cui esso viene menzionato, in questa accezione. In particolare, lo Statuto ha fatto entrare in azienda i diritti sindacali e l’aspettativa per le cariche politiche elettive o sindacali. Tutte cose, beninteso, non inventate dal legislatore: venivano riprese dalla contrattazione collettiva. Poi, lo Statuto conteneva in embrione, nell’articolo 28, una ottima riforma del processo del lavoro, che sarebbe stata portata a compimento di lì a poco, nel 1973, e che avrebbe meritato di essere assunta come modello per una riforma generale del processo civile. Detto questo, però, va anche detto che lo Statuto ha sofferto fin dall’inizio di un difetto non secondario.
Quale?
Il modo pochissimo lungimirante nel quale in esso è stato declinato il tema della protezione del lavoratore nel mercato. Tutto quello che è stato fatto su questo terreno, nel 1970, è stato di rafforzare, irrigidire il monopolio statale del collocamento, con il meccanismo inservibile dell’avviamento al lavoro su richiesta numerica”, in base alle graduatorie, e ampliare il suo campo di applicazione. Un ferrovecchio che avrebbe dovuto attendere ancora un quarto di secolo per essere mandato in soffitta. Non una parola, invece, sui diritti fondamentali del lavoratore nel mercato: informazione e orientamento, formazione efficace mirata agli sbocchi effettivamente esistenti, assistenza per la mobilità geografica e professionale. Ecco: da allora il nostro sistema di protezione del lavoro si è sempre portato dietro questo difetto gravissimo.
Perché hai deciso, tu che pure hai avuto una parte importante nello svolgersi della politica del diritto del lavoro, di rivolgerti non al legislatore, ma ai protagonisti del mercato del lavoro e ai responsabili dei servizi di informazione e della formazione professionale e universitaria?
Perché la soluzione dei problemi del mercato del lavoro oggi non richiede tanto nuove norme, quanto – molto di più – capacità di implementazione. L’idea che per fare dei passi avanti basti cambiare le leggi è ancora troppo radicata e diffusa; ed è un alibi molto pericoloso, perché consente alle strutture amministrative di autoassolversi, cioè di dire: “non siamo noi che non funzioniamo, la colpa è di leggi sbagliate, arretrate, da cambiare”. Per intervenire efficacemente nel mercato del lavoro occorre applicare il metodo del try and go: sperimentare il nuovo modo di operare su scala ridotta, verificare i risultati, se qualche cosa non va bene correggere, se invece la cosa funziona generalizzare l’esperimento.
È molto bella la tua definizione del sindacato come “intelligenza collettiva dei lavoratori”. Ti chiedo – e qui sono io a fare il provocatore – serve davvero il sindacato? E se sì, a che cosa? Il richiamo è, d’obbligo, al tuo saggio A che cosa serve il sindacato? Le follie di un sistema bloccato e la scommessa necessaria per uscirne (Mondadori, Milano, 2005), e alle polemiche, alcune feroci, che ne derivarono.
Quest’ultimo libro di cui parliamo oggi perfeziona e aggiorna la risposta che alla tua domanda dava il libro di quindici anni fa. Sintetizzerei la risposta così: nell’era dell’automazione, dell’intelligenza artificiale e della globalizzazione, senza innovazione organizzativa e tecnologica nessuna impresa ha un futuro; ai lavoratori è dunque indispensabile un sindacato che sappia guidarli nella valutazione del piano industriale innovativo e che, nel caso di valutazione positiva, sappia guidarli nella negoziazione della scommessa comune con l’imprenditore su quel piano. E che sappia essere un partner autorevole dell’imprenditore nella gestione dell’innovazione.
Ma nel caso di valutazione negativa sul piano industriale?
A seconda della qualità dell’imprenditore e del suo piano industriale occorre un tipo di sindacalismo diverso. Se l’imprenditore non è affidabile sul piano tecnico, o su quello dell’etica industriale, o su quello della trasparenza, oppure semplicemente propone un piano sbagliato, è giusto e necessario che il sindacato e i lavoratori stiano molto abbottonati: ogni imprenditore deve avere il tipo di sindacato che si merita. E qui nel libro prendo una posizione un po’ controcorrente: sostengo che proprio per questo motivo il pluralismo sindacale può essere preferibile a un regime di unificazione sindacale. Il massimo di unità sindacale auspicabile oggi, forse, è la condivisione da parte delle confederazioni maggiori, e del maggior numero possibile di sindacati a esse non aderenti, di un impegno di rispetto reciproco e di una cornice di regole chiare sui criteri e modi di misurazione della rappresentatività di ciascuna associazione o coalizione. Le regole, appunto, indispensabili perché possa svilupparsi una sana competizione tra diversi modelli di sindacalismo, in un regime di vera democrazia sindacale.
Siamo al tema – cui nel quarto capitolo del libro sono dedicate alcune pagine molto “dense” – della rappresentanza sindacale, che comunque in qualche modo, oggettivo, deve essere misurata. Quanto ha pesato e tuttora continua a pesare nel nostro sistema sindacale la previsione, non attuata, del quarto comma dell’art. 39 Cost.?
Ha pesato e continua a pesare molto, ma soltanto in negativo: perché la presenza di questa disposizione costituzionale, di impossibile attuazione, impedisce di dare una soluzione legislativa lineare e compiuta al problema dell’efficacia erga omnes dei contratti collettivi nazionali.
Perché “di impossibile attuazione”?
Perché l’istituzione dell’organismo sindacale rappresentativo previsto dal quarto comma presupporrebbe la predeterminazione della “categoria sindacale”, ovvero del settore produttivo nel quale il contratto collettivo produrrà i propri effetti generali. In questo modo la categoria sindacale tornerebbe a preesistere al contratto collettivo, secondo il modello dell’“inquadramento costitutivo” che ha caratterizzato l’ordinamento corporativo. Ma questo – come spiegò Federico Mancini nella sua notissima prolusione bolognese del 1963 – comporterebbe la negazione di uno dei contenuti più rilevanti del principio di libertà sindacale sancito dal primo comma.
Dunque, a differenza di Giuseppe Pera, non sei un trentanovista convinto.
Il “trentanovismo” di Pera, a ben vedere, si limitava a rivendicare l’attuazione del principio di democrazia sindacale sotteso al quarto comma; e su questo punto sono pienamente d’accordo con lui. Il problema è il modo in cui quel principio può essere attuato. Il legislatore costituente pretese, con il quarto comma, di attuarlo disegnando una sorta di Camera delle Corporazioni democratizzata; ma non si accorse che in questo modo si sarebbe limitata fortemente la libertà sindacale sancita dal primo comma: la quale implica che la categoria sindacale nasca dal contratto, quindi che il contratto preesista alla categoria, e non viceversa.
Riprendendo il pensiero dello studioso statunitense Frank Tannenbaum, cui ti ispiri nella prima parte del quarto capitolo, cosa significa dire che la buona qualità del sindacato si traduce in buona qualità dell’impresa?
Frank Tannenbaum – il cui Per una filosofia del sindacato merita di essere attentamente riletto – sosteneva che il sindacato è indispensabile per “dare all’impresa un’anima”: cioè per rendere l’impresa medesima capace di internalizzare gli interessi dei propri dipendenti e, addirittura, gli interessi della cittadinanza circostante. La mia idea del sindacato come partner utile all’imprenditore per definire e attuare l’innovazione indispensabile per la prosperità dell’azienda, di cui abbiamo parlato prima, affonda le radici in quello che scriveva lo studioso statunitense settant’anni fa.
Nel libro teorizzi un contratto collettivo aziendale abilitato non solo a derogare parzialmente, come lo è già ora, ma addirittura a sostituire quello nazionale.
Davvero credi che sia una soluzione praticabile anche nell’Italia di oggi?
Questa è, già da un ventennio ormai, la regola applicabile in Germania, dove circa un terzo del tessuto produttivo vede i rapporti di lavoro regolati interamente da un contratto aziendale, mentre quello nazionale resta sullo sfondo, come disciplina applicabile per default. È la regola mediante la quale – come mostrano in un loro interessantissimo studio comparativo Tito Boeri, Enrico Moretti et al. – la Germania dopo la caduta del Muro è riuscita a colmare il divario dei tassi di occupazione e di disoccupazione tra la sua parte centro-occidentale e la sua parte orientale, cioè a curare efficacemente lo squilibrio tra le proprie regioni ricche e quelle povere. A differenza dell’Italia, dove lo squilibrio tra Centro-Nord e Mezzogiorno è andato aggravandosi.
Un capitolo importante del tuo libro riguarda, appunto, lo sviluppo del lavoro regolare nel Mezzogiorno. Siamo di fronte ad una “questione meridionale” del lavoro?
La piaga del sottosviluppo di alcune zone del Mezzogiorno è sempre aperta. E non vedo altra strada per curarla che una politica volta a rendere più attrattive quelle zone per il meglio dell’imprenditoria mondiale. Uno strumento di questa politica potrebbe consistere proprio nel lasciare spazi più ampi alla “scommessa comune” tra lavoratori e imprenditore sul successo della nuova impresa, gestita da un sindacato maggiormente rappresentativo almeno sul piano della macro-regione. Ma un’alternativa a lasciare le redini sul collo alla contrattazione aziendale potrebbe anche essere che il contratto nazionale stabilisca dei meccanismi di adattamento dei minimi tabellari alle circostanze locali di costo della vita e disoccupazione, se non fosse che da noi si fanno le barricate anche contro quest’altra soluzione. La possibilità che il contratto aziendale sostituisca quello nazionale, comunque, sarebbe utile non soltanto in funzione dello sviluppo del Mezzogiorno, ma anche nella parte più forte del tessuto produttivo, per far spazio a modelli alternativi di struttura della retribuzione rispetto a quello delineato dal contratto collettivo nazionale.
Puoi spiegare meglio?
Oggi la struttura tipica della retribuzione vede uno zoccolo fisso pari a circa il 90-95 per cento del monte-salari, stabilito dal contratto collettivo nazionale in termini nominali (cioè che non tengono conto delle differenze del costo della vita tra le diverse zone), lasciando soltanto uno spazio del 5-10 per cento per la parte variabile in relazione alla produttività – individuale, di gruppo o aziendale – o alla redditività dell’impresa. Alla pagina 239 di questo nuovo libro ripropongo una rappresentazione grafica tratta da A che cosa serve il sindacato del modo in cui un contratto aziendale può proporre una riduzione dello zoccolo fisso combinata con un aumento della parte variabile, suscettibile di portare le retribuzioni a livelli superiori. È l’idea della “scommessa comune” sul piano industriale. Questo presuppone, ovviamente, una valutazione positiva delle qualità dell’imprenditore e del suo piano industriale; la quale a sua volta presuppone un sindacato-intelligenza collettiva che sappia svolgere questo ruolo. Potrà accadere che in alcuni casi la “scommessa comune” venga persa: questo servirà di monito in altri casi. Ma perché non consentire che diversi modelli di sindacalismo si confrontino e competano nel tessuto produttivo?
Nell’ultimo capitolo del libro affronti la questione della partecipazione, anzi “coinvolgimento” dei lavoratori nell’impresa.
C’è una differenza di significato tra i due termini?
Il termine “coinvolgimento” ha un significato un po’ più ampio, atto a comprendere tutta la gamma delle pratiche possibili di informazione e consultazione dei lavoratori sulle scelte di gestione aziendale.
Cioè le pratiche cui fa riferimento la delega legislativa contenuta della legge Fornero n. 92 del 2012. A cosa imputi la sua mancata attuazione?
È stato un gioco sottile di “non gradimenti” incrociati, non detti ma fatti capire. Quello di Confindustria, in primo luogo, che temeva la possibile “esigibilità” delle varie pratiche partecipative che fossero state tipizzate in una legge dello Stato, ancorché indicate soltanto come facoltative. Ma anche quello della Cgil, che non ha mai visto con favore il coinvolgimento dei lavoratori nella gestione dell’impresa e che vedeva in questa delega legislativa l’impronta marcata dello zampino della Cisl.
Le tue idee nuove per il lavoro come impattano sulla situazione dei lavoratori del “quinto stato”, così come li individua Maurizio Ferrera nel suo ultimo libro (La società del quinto stato, Laterza, Bari-Roma, 2019)?
Sono convinto che la cura migliore della piaga del lavoro povero, malsicuro e mal retribuito consista nell’attivare per chi ne soffre i servizi efficaci di informazione, formazione mirata agli sbocchi effettivamente esistenti, ed eventualmente anche assistenza alla mobilità: sono queste le sole misure che hanno il potere di offrire alla persona interessata una alternativa, la possibilità di scelta di un lavoro migliore. Quelle che danno, appunto, alla persona interessata l’intelligenza necessaria per poter usare il mercato del lavoro a proprio vantaggio. Poi serviranno anche delle modifiche delle norme legislative di protezione: soprattutto per una definizione della fattispecie di riferimento del sistema protettivo nuova, più precisa e più adeguata ai tempi; ma nel cambiare le norme occorre stare molto attenti a (ed essere capaci di) prevedere e poi misurare pragmaticamente gli effetti dell’introduzione di una norma protettiva: cioè chiedersi quanta parte dei destinatari della protezione ne trarrà un miglioramento del proprio trattamento complessivo e quanta parte ne verrà invece condannata alla disoccupazione o alla sommersione nel lavoro irregolare. A questo proposito, se mi consenti, vorrei richiamare quello che scriveva Giorgio Amendola quarant’anni fa.
Ti consento.
Cito da un articolo pubblicato sul numero 43 del settimanale del Pci Rinascita, sotto la data del 9 novembre 1979: “La disoccupazione in Italia deriva da diverse cause, è composta in modo diverso da regione a regione […]. E lo stesso si dica dei precari, che non possono essere riuniti, per la varietà delle loro situazioni e la diversità e contraddittorietà delle loro rivendicazioni, in una stessa inesistente categoria”.
In una sua <<noterella>> del 2001 (p. 331 della raccolta) Giuseppe Pera racconta l’episodio, riferitogli da Walter Binni, di un professore pensionando di Genova che a tutti i costi voleva che gli fosse organizzata una cerimonia di commiato con un discorso affidato a un collega, il quale, essendo in evidente difficoltà, fu aiutato dal festeggiato che gli preparò il discorso; poi, durante l’esposizione in pubblico, lo stesso festeggiato piagnucolava dicendo “come dice bene, come dice bene…”. Se tu fossi al posto di quel professore genovese in procinto di lasciare la cattedra, cosa preferiresti sentirti dire?
Ma allora vuoi proprio coinvolgermi nelle pratiche peggiori dell’accademia!
Ma no, soltanto aiutare i lettori a metterti a fuoco meglio.
Se la metti così… Tutto quello che posso concederti, però, è quello che mi ha scritto un allievo che era venuto a Milano venti anni fa per frequentare il Master Europeo in Scienze del Lavoro da me diretto, nel quale l’insegnamento della nostra materia era intrecciato con quello dell’economia, della sociologia, della storia e della psicologia del lavoro, poi è stato assunto da un’agenzia di ricerca del personale e alla fine è diventato direttore del personale di una grande azienda: “Dal Master sono uscito con un’idea del diritto del lavoro molto più complessa di come l’avevo capita studiandolo sul manuale per il corso di laurea, ma anche molto più vicina e adatta a quello che mi attendeva come operatore del mercato del lavoro e poi in azienda come gestore del personale e delle relazioni sindacali”.
Ecco. Facciamo finta che l’ho detto e scritto qui io, in riferimento a questo nostro dialogo, a quello che hai fatto nell’ultimo mezzo secolo per far crescere il diritto del lavoro, e in particolare a questo tuo ultimo libro.