Il 10 dicembre di quest’anno ci ha lasciati Luigi Mariucci, uno dei più autorevoli esponenti della scuola bolognese di diritto del lavoro.
È estremamente difficile ricordarne la personalità eclettica, complessa, e sfaccettata.
Le difficoltà non sono date solo dall’emozione e dal dolore che, inevitabilmente, afferra chiunque abbia conosciuto Gigi, come amichevolmente lo si chiamava sia fuori sia dentro l’accademia. C’è anche l’oggettiva difficoltà di “fermare” una figura con il passo sospeso su tutte le frontiere. A partire dalle frontiere della sua disciplina, il diritto del lavoro e da quelle del suo Paese.
Si poteva intravedere il fumo della sua sigaretta fuori da un convegno di costituzionalisti o di sociologi del lavoro; lo si poteva scorgere nel cortile della Facoltà di Giurisprudenza di Paris X, Nanterre o per i tortuosi stradelli di Toledo, fuori dall’Università di Castilla la Mancha, in Spagna, dove abbiamo insegnato insieme, l’ultima volta, lo scorso settembre, visto che quest’anno la pandemia lo ha reso impossibile.
Il Curso de Especialización para Expertas/os Latinoamericanas/os en Relaciones Laborales era, insieme a lui – e anche grazie a lui – una splendida avventura intellettuale, che si rinnovava tutti gli anni, sotto la guida sapiente di Umberto Romagnoli e Pedro Guglielmetti: un confronto serrato tra giuslavoristi dei due mondi, che da Luigi Mariucci venivano a imparare, ma che Gigi incalzava e riempiva di domande, con il fuoco della curiosità che permetteva a lui solo, in poche ore, di oltrepassare l’oceano e perlustrare Brasile, Argentina, Cile, Uruguay, Paraguay, Colombia, Messico; non solo per scoprire i segreti dei sistemi giuridici dei paesi dell’America Latina, ma anche le turbolenze sociali, le traversie politiche, i costumi, il cibo, le letterature.
Ricorderanno colleghe e colleghi, amiche e amici fraterni come Antonio Baylos, Joaquín Apparicio Tovar, Laura Mora, Donata Gottardi, Laura Calafà e Andrea Lassandari il giudizio più ricorrente espresso dai corsisti latinoamericani dopo le lezioni di Gigi: “me encantó!”. E quel giudizio fu, per certo, comune a tutti e tutte noi almeno in occasione di un’indimenticabile lezione del 22 settembre 2016 sul rapporto tra lavoro e cittadinanza, quando Gigi, in qualità di relatore, ipotizzo l’arrivo di un extraterrestre sulla Terra dopo la scomparsa del genere umano, domandandosi cosa questi avrebbe potuto pensare di una civiltà capace di concepire le grandi dichiarazioni dei diritti dell’uomo, la Dichiarazione di Philadelphia e le costituzioni del dopo Weimar, a partire da quella italiana del 1948, senza nulla sapere della loro larga e durevole ineffettività, posto che – come Gigi registrò in quella circostanza – “quello che appare il migliore dei mondi possibili vede un quarto della popolazione mondiale morire di fame e migliaia di migranti annegare nel mare che circonda la sua parte apparentemente più avanzata”.
Come ha scritto nel suo elegantissimo francese un maestro del diritto del lavoro europeo, Antoine Lyon Caen – che ha riconosciuto proprio a Gigi Mariucci e a Gian Guido Balandi, il merito di avergli aperto le porte dell’Italia del lavoro e dei suoi raffinati giuristi – “Gigi era un mélange raro di profondità e leggerezza, di rigore e d’immaginazione, di semplicità e sofisticatezza”.
Del resto, non era meno sfaccettato sul piano umano: sospendeva il ragionamento più ruvido e inflessibile per regalarti un sorriso e una morbida carezza sul volto, riprendendone le fila con la stessa determinazione di prima, dopo averti dato un motivo in più per seguitarne le volute e gli sviluppi, fino alla strettoia finale.
Antoine Lyon Caen ha giustamente aggiunto che “sfuggiva a tutte le definizioni”. Ecco: Gigi Mariucci era un fuori-classe (col trattino). Ma era certamente anche un fuoriclasse (senza trattino). Cos’altro suggerisce la circostanza che se ne sia andato lo stesso giorno di Paolo Rossi, indimenticabile campione dei mondiali dell’1982, dopo che, per un assurdo equivoco incorso nella fitta rete di comunicazione sulle sue condizioni di salute, era parso andarsene già il 25 novembre scorso, insieme a Diego Armando Maradona?!
La cabala racconta il vero: Gigi, allievo di Federico Mancini, era un fantasista del diritto del lavoro, provvisto di un’inquietudine sul “che fare” che sempre assilla gli spirti più generosi e militanti, come Giorgio Ghezzi che Gigi considerava un “fratello maggiore”.
Ed era ossessionato dall’interrogativo che attanaglia i grandi intellettuali che hanno vissuto a cavallo tra il secolo del lavoro e quello della globalizzazione: discernere, in una stagione di grandi trasformazioni, tra le novità vere e quelle solo apparenti, come la presunta eclissi del lavoro subordinato cui non ha mai creduto; distinguere tra ciò che è transeunte, contingente, provvisorio e ciò che è, invece, destinato a durare, a permanere, a scavare un solco: un solco in cui valga la pena guardare, per capire se può esservi piantato e fatto crescere un seme nuovo.
È ciò che ha sempre fatto da animatore della redazione di Lavoro e Diritto – la rivista che ha contribuito a far nascere assieme a Umberto Romagnoli e Gian Guido Balandi, il compagno di viaggio con cui ha sostato in tutte le stazioni che contano, compreso il concorso del 1985, che li portò in cattedra, insieme a Marcello Pedrazzoli e Marco Biagi – invitando i più giovani a interessarsi alla contingenza, al presente, persino alla cronaca, senza esserne catturati; guardare alla novità normativa senza indugiare sull’esegesi, provando a coltivare pensieri lunghi, dotati di retrospettiva e, al contempo, di prospettiva.
Ed è, esattamente, ciò che ha fatto pochi mesi prima di lasciarci, suggerendo alla Labour Law Community, la neo-nata associazione di giuslavoristi cui aveva aderito, di lanciare un call for paper sulla crisi sanitaria da Covid-19 e il suo diritto, senza sapere che, tra le cose destinate a durare, questa pandemia ci avrebbe consegnato la sua assenza. Vincolandoci al suo ricordo.
Di altri autorevoli giuslavoristi ci si è chiesto se fossero giuristi prestati alla politica o politici venuti dal diritto.
Ebbene, per Gigi il dilemma non merita d’esser posto. Luigi Mariucci aveva, certamente, la stoffa del giurista di spessore e, con altrettanta certezza, quella del politico di razza.
Tanto che scelse di conciliare queste due attitudini tramite una disciplina, il diritto del lavoro, della quale diceva cose straordinarie.
Tale resta l’idea del diritto del lavoro come finestra sul mondo delle trasformazioni sociali.
Per Gigi – ha scritto Adalberto Perulli, collega veneziano di scuola bolognese, con cui il Prof. Mariucci ha condiviso molti anni di studio e insegnamento all’Università di Ca’ Foscari – il diritto del lavoro era questo: “non un microcosmo normativo auto-concluso ma una finestra sul mondo, in cui si agitano piccoli e grandi avvenimenti, e tutti ruotano attorno alle grandi questioni di valore che lui interpretava attraverso la politica, la sua vera grande passione e impegno civile”.
Luigi Mariucci non aveva problemi ad ammetterlo, persuaso, sul piano generale, che le stagioni dei diritti, prima fra tutte quella statutaria, non sopraggiungono mai per benevolenza, essendo frutto dell’intreccio tra lotte sociali e condizioni politiche; consapevole, sul piano personale, di essere “malato di politica”. Fino a riconoscere che per lui il diritto del lavoro stava alla politica “un po’ come il metadone sta all’eroina per il tossicodipendente”.
Il che dovrebbe dare misura del grado di passione (e financo di dipendenza) che Gigi nutriva per la politica ma, al contempo, segnalare con quanta efficacia il diritto del lavoro sia riuscito a sedare quella febbre, dandogli uno sbocco scientifico, peraltro di altissimo profilo.
Sono lì a testimoniarlo numerosissimi saggi e fondamentali studi monografici, tra cui "Il lavoro decentrato. Discipline legislative e contrattuali", (Angeli, Milano, 1979), "La contrattazione collettiva" (Il Mulino, Bologna, 1985), e "Le fonti del diritto del lavoro" (Giappichelli, Torino, 1988, ripubblicato in versione aggiornata nel 2003), argomento, quest’ultimo, che il Prof. Mariucci amava presentare agli studenti impegnati negli stadi più alti della formazione universitaria tramite – immaginate voi! – l’illustrazione di una busta paga: un modo straordinariamente efficace e immensamente prosaico di dare concretezza a un capitolo, apparentemente astratto e teorico nella formazione del giurista, che si traduceva in potere d’acquisto e “vil denaro”, stipendio o salario che fosse, diretto e differito, costante e variabile, secondo i precetti costituzionali, le norme inderogabili di legge e contratto collettivo, sia nazionale sia decentrato e, da ultimo, le disposizioni del contratto individuale di lavoro. Una scelta sorprendente ma, a ben vedere, coerente con l’attitudine di chi concepiva il diritto del lavoro come una “disciplina umile, anti retorica e anti idealistica, che ti obbliga a guardare la dimensione normativa attraverso il filtro della sua effettività”.
Tra i contributi al dibattito giuslavoristico non riesco a qualificare come “minori”, almeno nella mia personale esperienza di prossimità, il volume “Dopo la flessibilità, cosa?” (Il Mulino, Bologna, 2006), dedicato a Umberto Romagnoli e da lui curato e il saggio dal titolo “Culture e dottrine del giuslavorismo” (Lavoro e diritto, n. 4, 2016, 585-644). Le due opere hanno in comune un elemento che mi pare costituire la cifra dell’avventura culturale di Luigi Mariucci: il volume del 2006 faceva seguito all’omonimo convegno organizzato a Venezia, nell’ottobre del 2005, all’indomani della grande riforma del mercato del lavoro del 2003, ospitando le repliche dei discussant agli interventi già pubblicati in Lavoro e diritto (n. 2/3, 2006); il saggio del 2016 accompagnava il convegno bolognese organizzato per il trentennale della sua rivista. Nell’un caso e nell’altro, dunque, l’intreccio tra piano individuale e dimensione collettiva, tipico dell’oggetto di studio del giuslavorista, contagiava i soggetti dell’osservazione, sia in qualità di organizzatori del confronto sia in qualità di suoi protagonisti, in una dialettica tra intelligenza collettiva e riflessione individuale che Gigi ha sempre alimentato.
È testimone di quest’approccio anche il fitto rapporto con il sindacato e in particolare con la Cgil, cui Gigi non ha mai fatto mancare un apporto generoso e fraterno, sempre intellettualmente onesto e, talvolta, anche critico, pur nella sintonia ed empatia di fondo.
A dirla tutta, nel corso di una vita, il rapporto coi mondi della rappresentanza sociale e politica degli interessi del lavoro ha rappresentato una costante, come prova, sul versante dell’impegno più strettamente politico, dapprima la militanza in Lotta continua, negli anni ’70, e poi, dopo la svolta della Bolognina, il contributo alla nascita del PDS, dei DS e del PD, dal quale scelse di congedarsi, prima dell’intollerabile Jobs Act, preferendo contribuire alle esperienze di LEU, a livello nazionale e di Coraggiosa in Emilia Romagna.
L’esperienza politica in Regione è stata anche istituzionale per larga parte degli anni ’90: dal luglio del 1993 al maggio del 2000, Luigi fu assessore agli Affari istituzionali, Autonomie locali e Organizzazione, col delicato ruolo di coordinatore per la materia degli affari istituzionali della Conferenza dei presidenti di regione, senza mancare di trasfondere l’esperienza pratica maturata in quegli anni in campo scientifico, con diversi saggi dei primi anni del nuovo secolo in tema di federalismo e diritto del lavoro.
Perché Gigi al lavoro e al suo diritto tornava sempre, quasi fosse una casa da riordinare, prima di fare lo zaino per un nuovo viaggio oltre frontiera.
Qualcuno, tra i lettori, potrebbe chiedersi se ne parlo in questi termini perché ne ero allievo.
Ebbene, mai lo sentirete dire a me.
Mai lo sentirete dire a qualcuno che non sia intollerabilmente presuntuoso.
Gigi, infatti, non aveva allievi. Amava dire: “i miei allievi sono i migliori allievi degli altri”.
Per la mia generazione, dunque - come capirete - essere considerati allievi di Luigi Mariucci era una segreta speranza coltivata dopo un buon intervento, un saggio ben riuscito, un’intuizione ricostruttiva. E solo a condizione che l’esito della riflessione potesse prestarsi a spingere il mondo un pelo più in là, dove reclamano diritti e tutele le persone che sono costrette a lavorare per vivere: quelle che – come Gigi ci ha insegnato – possono essere più libere, benché subordinate, anche grazie a un giurista del lavoro che fa bene il suo mestiere.