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Franco Liso è uno studioso che non ha bisogno di presentazioni. Un succinto profilo biografico, tuttavia, è utile per inquadrare meglio i temi dell’intervista.
Nato nel 1944, nell’aprile del 1967 Liso si laurea (con lode) in Giurisprudenza a Bari, discutendo una tesi in diritto del lavoro con Giugni. Da questi nominato assistente ordinario nel 1973, nel 1980 Liso inizia l’insegnamento come professore di prima fascia sempre presso la Facoltà di Giurisprudenza di Bari. Qui resterà fino al 1989, ossia fino a quando diventerà docente stabile di «Mercato del lavoro e relazioni sindacali» presso la Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione. Manterrà questo incarico fino al 2000. Dall’ottobre di quell’anno e fino al pensionamento, infine, insegnerà presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università La Sapienza di Roma.
Autore di oltre duecento pubblicazioni, tra le quali spicca uno studio monografico tuttora imprescindibile qual è La mobilità del lavoratore in azienda: il quadro legale (Milano, Franco Angeli, 1982), Franco Liso ha anche condiviso con Silvana Sciarra – dalla morte di Giugni e fino al 2015 – la direzione del Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali.
All’elaborazione scientifica e culturale, inoltre, Liso ha accompagnato una significativa attività istituzionale. Con un’interruzione di pochi mesi nel corso del 1987, è stato capo dell’Ufficio legislativo del Ministero del lavoro e della previdenza sociale dal 1983 al 1989, con i Ministri Gianni De Michelis e Rino Formica; consigliere del CNEL dal 1989 al 1994 (ossia, per l’intera V Consiliatura); ancora, consulente giuridico del Ministro del Lavoro, prof. Giugni, nel biennio 1993-1994; e, infine, Sottosegretario di Stato con delega al mercato del lavoro con il Ministro prof. Treu tra il 1995 e il 1996.

Qual è stata la tua formazione superiore?


Ho conseguito la maturità classica. Al liceo, però, non ho ricevuto una solida preparazione storica e questa è stata una lacuna importante che ho dovuto colmare nel tempo. Lo dico perché all’epoca avevo simpatie di destra. Queste mi venivano, da un lato, dalla innata propensione a parteggiare per i perdenti (io ero per Ettore e non per Achille, per Bartali e non per Coppi) e dall’altro, dal clima familiare nel quale prevaleva l’interesse per le materie scientifiche e quando di politica si parlava era solo per maledire la Democrazia cristiana e il suo clientelismo. A questo si riduceva la cultura politica di mio padre, insegnante di scienze naturali al liceo. Gli stava a cuore una sola cosa: la valorizzazione dell’olio di Bitonto ed il benessere che ne sarebbe derivato ai contadini. Da lui, figlio di un contadino, si poteva apprendere soprattutto la cultura del lavoro e del sacrificio, non altro. Peraltro, fuori l’antifascismo non si respirava certo nell’aria. Sappiamo che nel meridione è stata un’altra storia. È comunque incredibile che il tema non fosse trattato a scuola. La correzione del mio orientamento avvenne lentamente e cominciò a maturare con il contatto con dimensioni emotive che aprivano prospettive nuove e sconosciute. Ricordo, ad esempio, il film Kapò, il libro di Levi «Se questo è un uomo». Sul piano personale, poi, fu importante anche conoscere i trascorsi della famiglia della mia fidanzata, di come aveva vissuto la guerra sulla linea gotica, a contatto con tedeschi e partigiani, mentre mio suocero era internato in un lager nazista come prigioniero di guerra.

Perché ti sei iscritto alla Facoltà di Giurisprudenza?


Non avevo una vocazione specifica per il diritto, piuttosto pensavo all’architettura o all’astronomia. La verità è che all’epoca mi divertivo a suonare il violino e a tirare di scherma e scelsi quindi la facoltà che avrebbe potuto consentirmi di continuare a coltivare quegli interessi, così sembrava. Peraltro in casa mancava un avvocato. I miei fratelli maggiori si erano tutti orientati verso materie scientifiche (medicina, chimica, botanica).

Che ricordi hai della facoltà giuridica barese di quegli anni?


Ricordo alcuni professori, come Cicala e Auricchio di diritto privato, le cui lezioni erano per noi studenti molto interessanti. Ma Gino Giugni esercitava un fascino unico e calamitò immediatamente la mia attenzione. Lui partiva sempre dai problemi reali, dall’economia e dalla sociologia, e in questa trama collocava le norme, spiegandone il senso. Nelle sue lezioni traspariva chiaramente la storicità del diritto. C’era una differenza abissale, ad esempio, rispetto al professore di diritto commerciale il quale, come ho ricordato anche in altra sede, entrava in aula, apriva il codice e iniziava a salmodiare su ogni singola disposizione. Anche il modo di insegnare di Giugni era innovativo anche per gli strumenti impiegati: basti considerare che, all’epoca, era l’unico a utilizzare la lavagna durante le lezioni; e che portò alcuni di noi studenti ad Ivrea a visitare lo stabilimento della Olivetti. Per me, che conoscevo soltanto la realtà del lavoro agricolo, entrare in contatto con i rumorosi ambienti della manifattura industriale fu impressionante.

Furono queste, quindi, le ragioni che ti indussero a chiedergli la tesi di laurea.


Si. Essendo simpatizzante della destra sociale e conoscendo il Manifesto di Verona, ma non ancora cosa avesse veramente rappresentato la Repubblica Sociale (sulla quale avevo letto solo un libro di Cione), gli chiesi una tesi sui consigli di gestione e Gino, che ben conosceva i miei orientamenti ma non aveva pregiudizi, acconsentì. Della tesi, in realtà, scrissi soltanto il primo capitolo: di qui, il titolo «Istituzionalismo e contrattualismo nella teoria dell’impresa». Dopo la laurea, però, Gino – conscio dei miei punti deboli – mi consigliò di leggere due libri: «Teorie e ideologie nel diritto sindacale» di Giovanni Tarello (del quale pubblicai anche una recensione, molto criticata da Maria Vittoria Ballestrero) e «Alfredo Rocco e l’ideologia giuridica del fascismo» di Paolo Ungari.

Quando hai deciso di proseguire gli studi?


Molto presto. Mio padre aveva nutrito aspirazioni accademiche che, purtroppo, fu costretto ad abbandonare per mantenere la moglie e i sette figli. Tre dei miei fratelli maggiori stavano proseguendo gli studi, e sarebbero poi diventati docenti universitari. Io avevo una sensibilità per le questioni sociali e, come ho detto, ero affascinato da Giugni. D’altra parte, mi resi subito conto di non essere portato a svolgere la professione di avvocato. Conseguii l’abilitazione professionale, ma la pratica quotidiana dell’avvocatura richiedeva una velocità e una prontezza che non mi erano congeniali.

Raccontaci dei tuoi esordi.


Ho già detto della recensione a Tarello. Gino mi affiancò a Edoardo Di Berardino nella rielaborazione del suo manuale di diritto sindacale, la cui prima edizione era stata curata da questi e da Gabriella Roncali, un’altra allieva di Gino che nel frattempo aveva fatto altre scelte. Nell’autunno del 1969, mentre attendevo a questo compito, fui chiamato a svolgere il servizio militare e nel lavoro fu coinvolto anche Gianni Garofalo.

Di quel periodo sono anche le esperienze in fabbrica che hai ricordato in uno scritto del 1991.


Dopo il servizio militare, Gino mi fece frequentare l’Ufficio Studi della CGIL, dove conobbi oltre a Eugenio Giambarba (personaggio famoso per aver seguito tutta la contrattazione interconfederale del dopoguerra) anche il giovane Guglielmo Epifani. Qui la fabbrica la vedevo da lontano, attraverso i testi dei contratti aziendali (la contrattazione aziendale era molto vivace in quei tempi a ridosso dell’autunno caldo). Poi ebbi l’occasione di osservarla dall’interno, nella sua quotidianità, quando colsi l’occasione di svolgere alcuni periodi di stage presso la direzione del personale di due aziende a partecipazione statale a Sesto San Giovanni: la Breda Siderurgica e la Breda Termomeccanica. E qui compresi bene l’importanza dei rapporti di potere nella dimensione applicativa del diritto. Ti faccio un esempio. Nella Breda Termomeccanica stavano lavorando al nocciolo di un reattore nucleare che avevano urgenza di consegnare. Per rispettare i tempi avrebbero avuto bisogno di movimentare altri gruppi di lavoratori. A me, che ingenuamente illustravo l’esistenza del potere di variazione delle mansioni previsto dall’articolo 13 dello statuto, facevano presente che il suo esercizio avrebbe inevitabilmente implicato negoziazioni onerose. Altri esempi sono ricordati in quell’articolo che hai citato. Devo dirti che, in quei primi anni ‘70, per me molto importante, sul piano formativo, fu anche l’occasione di docenze ad addetti alle direzioni del personale delle aziende a partecipazione statale (c’era una grande esigenza, allora, di conoscere le novità introdotte dallo statuto dei lavoratori): le domande che venivano poste, infatti, mi consentivano di avere un’idea più precisa dei problemi reali del lavoro nei diversi contesti produttivi.

Nella tua produzione scientifica, se ben comprendo, c’è un legame tra esperienza personale ed elaborazione teorica


Devo riconoscere che dopo una fase iniziale, nella quale ho svolto, per così dire, il lavoro da garzone (sotto la guida e lo stimolo anche del professor Ghera, che aiutava Giugni a curare il vivaio della scuola barese), i miei interessi di studio sono stati orientati da stimoli provenienti dalle esperienze personali che Giugni non mancava di provocare coinvolgendomi in attività nelle quali era impegnato. Ricordo una in particolare, quella per l’Associazione per il progetto socialista che nella seconda metà degli anni ‘70 elaborò – per quel che ci riguarda – l’idea dell’agenzia del lavoro. In quella occasione ebbi la possibilità di conoscere persone come Amato, Ruffolo. Da allora le tematiche del mercato del lavoro sono entrate al centro dei miei interessi

Come nasce l’idea di una monografia sulla “mobilità del lavoratore in azienda”?


In principio, anche sulla scorta dell’interesse per il tema della mora del creditore, stimolatomi da una monografia di Ghezzi, avevo pensato di dedicarmi allo studio della sospensione del rapporto. Poi, ripensando alla mia esperienza di stagista, preferii affrontare il tema delle mansioni. Considera che, quando ero in Breda Siderurgica, si stava trattando il tema dell’inquadramento unico. Il direttore del personale, Paolo Peira, mi affidò il compito di fare una ricognizione dei percorsi professionali che facevano gli operai attraverso una ricognizione delle mansioni alle quali erano stati adibiti nella precedente vita lavorativa in azienda.

Recensendo quella monografia sulla trimestrale di diritto e procedura civile, Umberto Romagnoli si spinse ad affermare che tu eri il più giugniano degli allievi di Giugni.


La cosa ovviamente mi lusingò, ma mi lasciò alquanto interdetto. La ragione di quella affermazione mi fu più chiara solo più tardi. Infatti, la posizione che avevo spontaneamente assunto in quella monografia (nella sostanza, l’importanza di innervare il dato legislativo, con l’esperienza della contrattazione collettiva, con conseguente stigmatizzazione di un protagonismo giudiziario che pretendesse di sostituirsi ad essa), era stata già da tempo teorizzata da Giugni e io l’avevo naturalmente introiettata.

Ma c’è uno scritto, o anche più di uno, in cui ti riconosci maggiormente o che possiamo considerare più rappresentativo del tuo percorso intellettuale?


No, non ci sono riflessioni in cui mi riconosco in modo particolare o, al contrario, testi che riscriverei e ciò nonostante io sia sempre pieno di dubbi e non sia mai pienamente convinto di nulla. Certo, ci sono lavori che, se avessi avuto un carattere diverso, avrei potuto sviluppare in senso monografico. Ma, proprio perché generalmente lo stimolo a riflettere su un tema è venuto dalla mia esperienza di vita e perché nell’elaborazione di ciascuno scritto ho profuso il massimo impegno, non c’è uno al quale sia particolarmente legato.

Nel 1979 inizia le pubblicazioni il Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali e Giugni ti nomina caporedattore…


Alla fine degli anni ‘70 Giugni aveva ormai acquisito una posizione di rilievo in ambito accademico e voleva una rivista che consolidasse il suo approccio culturale al diritto, aperto anche alle contaminazioni con altre discipline. In realtà della disciplina dello studio delle relazioni industriali, che oggi è appannaggio dei sociologi, lui è stato il fondatore.

Negli anni ‘80, poi, inizia il tuo impegno istituzionale. Come diventi capo dell’Ufficio legislativo del Ministero del Lavoro?


Lo devo a Giugni il quale da tempo era il punto di riferimento sui problemi normativi del lavoro per il partito socialista. A lui si rivolse il Ministro del Lavoro, Gianni De Michelis, e Giugni fece il mio nome.

Gli anni ‘80 sono stati un periodo di profonda transizione sul piano economico-produttivo e sociale, non solo in Italia.


Il problema diffusamente avvertito in quel momento consisteva nel rendere compatibili le esigenze di tutela dell’occupazione con l’agevolazione dei processi di trasformazione e di ammodernamento dell’apparato produttivo del Paese innescati dall’innovazione tecnologica. La risposta socialista era che questi processi non potessero essere lasciati alla spontaneità del mercato, per quanto quest’ultimo fosse importante, e che lo Stato dovesse avere un ruolo attivo su entrambi i fronti: un ruolo, però, diverso da quello svolto in precedenza e, comunque, né dirigista né assistenzialista. Il PSI, insomma, riteneva di avere una strategia efficace per riqualificare le politiche pubbliche sia sul versante della politica industriale che su quello delle politiche del lavoro. Per quanto riguarda questo secondo ambito, molte proposte innovative erano state elaborate fin dalla metà degli anni ‘70 sulla rivista Mondoperaio (sulle cui pagine si era anche sviluppato un intenso dibattito sulla democrazia industriale) mentre il disegno politico perseguito da De Michelis fu analiticamente esplicitato in un documento («La politica occupazionale per il prossimo decennio») che fu poi approvato dal Parlamento come allegato alla legge finanziaria per il 1986. In quello stesso anno venne pubblicato da Laterza con il titolo «Il piano del lavoro». Si trattava della progettazione di un insieme di misure che, quanto meno nelle intenzioni, avrebbe dovuto trovare attuazione nel triennio 1986-1988 (in quel volume, ad esempio già si faceva cenno alla necessità della introduzione anche nel nostro paese del lavoro interinale). Peraltro bisogna tenere presente che una parte consistente dell’agenda relativa alla politica legislativa era stata tracciata anche del protocollo Scotti del 1983, così come avverrà nella concertazione del 1984 e in quella del 1993.

Le questioni da affrontare erano tutte di grande complessità…


Non c’è dubbio. Uno dei primi problemi che il Ministro si propose di affrontare fu quello delle eccedenze di personale. Quelle eccedenze venivano curate attraverso un utilizzo abnorme della cassa integrazione in mera funzione assistenzialistica. La mobilità “da posto di lavoro a posto di lavoro senza soluzione di continuità” prevista dalla legge n. 675/1977 si era rivelata sostanzialmente ineffettiva. De Michelis, uomo di grande dinamismo e intelligenza, attraverso faticose negoziazioni con le parti sociali, riuscì a convincere i sindacati ad accettare un sistema completamente diverso, che consentiva anche di rispettare finalmente la direttiva europea sui licenziamenti collettivi. E riuscì a convincerli anche sulla necessità del superamento del vetusto collocamento numerico; si faceva strada l’idea della necessita delle politiche attive. Nel bilancio complessivo dell’accordo entrò anche quella che sarebbe diventata l’indennità di disoccupazione con requisiti ridotti. Tutte innovazioni, queste, di grande importanza, la cui realizzazione venne impedita dalla caduta del Governo Craxi. Esse vennero tuttavia portate alla luce nei governi successivi.

Era dunque un periodo in cui tutto era concertato con le parti sociali, fin nei minimi dettagli?


Si, la logica della concertazione aveva portato non solo a concordare le linee generali delle politiche legislative che il Governo avrebbe fatte proprie, ma si era inevitabilmente spinta sulla elaborazione dei disegni di legge che il Governo avrebbe presentato al Parlamento. Una volta concordato il testo difficilmente il Governo avrebbe potuto emendarlo in sede parlamentare. A questo proposito può essere utile riferirti un episodio che si verificò durante uno di questi tavoli di concertazione e mi vide involontario protagonista. Ero vicino al Ministro e gli sussurravo nell’orecchio i miei pareri quando ad un tratto Bruno Trentin, allora responsabile del mercato del lavoro sbottò nei miei confronti con un “Tu tradisci la scuola di Bari”. Rimasi esterrefatto, ma ebbi la prontezza di rispondere “tutt’altro, la scuola di Bari non è per dare ai magistrati la responsabilità di risolvere questi problemi” (si stava discutendo dei criteri di scelta e il sindacato insisteva su modifiche che avrebbero aggravato le incertezze). Il Ministro sorridendo intervenne dichiarando che la scuola di Bari e il sindacato stavano portando alla rovina il Paese. La mia risposta, che venne spontanea, era azzeccata, anche se mi dispiacque lo schiaffo, tra virgolette, datomi da Trentin.

A quali altri interventi hai lavorato?


Ovviamente l’ufficio era interessato a tutta l’attività legislativa. Direi che tre sono stati gli interventi di maggior respiro realizzati in quegli anni.
In ordine di importanza direi che il primo fu il decreto sul taglio dei punti di scala mobile, che si rese necessario in seguito all’accordo separato di San Valentino.
Il secondo intervento fu il decreto-legge con il quale, in particolare, si introdussero i contratti di solidarietà difensivi ed espansivi, si riformulò la disciplina dei contratti di formazione e lavoro e si introdusse una disciplina del lavoro a tempo parziale.
Il terzo atto normativo rilevante fu certamente la legge n. 56 del febbraio 1987, pur con tutti i suoi compromessi. Con questa legge, la maggioranza parlamentare tentò di impostare in termini più moderni il tema dell’organizzazione del mercato del lavoro. Le linee di fondo della riforma furono quelle che erano state delineate nel Piano del Lavoro del 1986, per quanto quest’ultimo documento non esplicitasse le proposte sul piano tecnico. Uno dei più interessanti aspetti di queste normative era che inauguravano una politica integralmente innervata nella cultura giugniana e avrà successivi sviluppi. La politica del conferimento ai contratti collettivi di un potere normativo di flessibilizzazione e integrazione del tessuto legislativo. Emblematica di questa politica fu la norma in materia di contratti a termine della legge 56 del 1987, che abilitava le parti sociali ad introdurre ulteriori causali di ricorso a quel contratto.

Dopo la lunga esperienza a capo dell’Ufficio legislativo del Ministero del Lavoro, il Presidente della Repubblica ti ha nominato consigliere del CNEL quale “esperto”. Ci racconti qualcosa di quella consiliatura?


L’esperienza al CNEL non è stata particolarmente esaltante pur essendo un personaggio della statura di De Rita presidente di quel Consiglio. Una sua iniziativa ricordo con interesse. Quella di aprirne l’attività ai territori, in modo da collegarla all’esperienza dei patti territoriali. A dire il vero, l’importanza del CNEL era obiettivamente relativizzata dal fatto che allora le grandi centrali di rappresentanza erano in grado di far valere il proprio peso politico direttamente nei confronti del Governo e avevano quindi un interesse relativo al versante CNEL. Io ero componente della commissione per l’informazione. La Commissione era presieduta da Renato Brunetta, che io già conoscevo e di cui avevo già apprezzato la straordinaria capacità di lavoro, essendo stato lui a predisporre, con la collaborazione di molti, gran parte del materiale preparatorio del piano per il lavoro del Ministro De Michelis. Di quell’incarico, in realtà, non c’è molto altro da ricordare se non di essere stato relatore per la redazione di osservazioni e proposte in materia di indennità di disoccupazione e di aver coordinato una ricerca comparata in materia di eccedenze di personale. Direi conclusivamente che la funzione più rilevante del CNEL sia stata quella di un centro studi partecipato dalle parti sociali e non di un luogo di mediazione reale tra interessi antagonisti.

E del periodo in cui sei stato consulente di Giugni, a sua volta Ministro del Lavoro, cosa ci racconti?


Di quel biennio mi resta soprattutto un rimpianto, legato alla disciplina del lavoro interinale. Giugni riuscì a inserire nel Protocollo di luglio l’impegno all’introduzione dell’istituto nel nostro Paese. Devi sapere che la CGIL all’ultimo ne chiese lo stralcio, pur essendo previste opportune garanzie a favore dei lavoratori. Ricordo che la resistenza di Trentin fu piegata da Abete, il presidente della Confindustria, il quale giunse addirittura a minacciare che non avrebbe firmato l’accordo.

E come pensavate di regolare quell’istituto?


L’idea nella sostanza era, da un lato, di favorire l’introduzione di modalità innovative di collocamento idonee a svolgere quella funzione di vera mediazione tra domanda ed offerta che il nostro collocamento – anchilosato in una logica burocratica – non era mai stato in grado di svolgere e, dall’altro lato, di concepirlo – oggi potrà sembrare assurdo – proprio come strumento utile alla riduzione della precarietà. Infatti il disegno di legge che venne successivamente presentato – ma che il Parlamento non ebbe il tempo di esaminare per il termine della legislatura – prevedeva che il rapporto tra impresa fornitrice e lavoratore dovesse essere tendenzialmente continuativo (perché della durata minima di sei mesi, tacitamente rinnovabile ma con disdetta libera) e con la garanzia per il lavoratore di percepire comunque un trattamento economico minimo mensile anche per il caso di mancato impiego presso terzi. Il rimpianto è legato al fatto che quella coraggiosa impostazione non venne fatta propria nelle iniziative legislative dei successivi Governi e non poté quindi essere sperimentata. Prevalse l’idea che quell’impianto non sarebbe stato in grado di far decollare l’istituto.

Come spieghi il declino della concertazione sociale avvenuta a cavallo tra i due secoli?


La concertazione declina perché gli attori sindacali perdono progressivamente forza. La precarizzazione dei rapporti di lavoro ha notevolmente indebolito i sindacati e, di conseguenza, la politica non ha più avuto bisogno del loro consenso. Così la concertazione per essa è diventata sostanzialmente inutile. E questo però è un fatto negativo. La società così complessa e dinamica nella quale ci troviamo a vivere ha enorme bisogno della tessitura che le parti sociali potrebbero fare ben prima e meglio della legge; per incidere effettivamente su fenomeni complessi, internamente diversificati ed estremamente dinamici quali sono quelli indotti dalle trasformazioni del lavoro la contrattazione collettiva può essere più incisiva, perché più flessibile e tempestiva e perché agìta da soggetti che vivono immersi nella realtà del lavoro e, di conseguenza, anche più in grado di verificare l’effettività della regolazione messa in campo e, all’occorrenza, di modificarla. Ovviamente, ora il problema centrale è quello di avere dei soggetti veramente rappresentativi e rafforzati nella loro capacità negoziale. E a tal fine il legislatore dovrebbe por mano soprattutto ad una nuova versione della legislazione promozionale che ispirò l’emanazione dello statuto dei lavoratori. Purtroppo su questo versante sembra regnare il silenzio più assoluto.

La concertazione, però, era funzionale a definire una strategia integrata tra politiche macroeconomiche e politiche dell’occupazione. Il suo declinare non può essere stato influenzato anche dall’avvento della moneta unica e dei vincoli comunitari in quelle materie?


L’adesione all’Unione monetaria, secondo me, non era in contraddizione con la concertazione sociale, anzi avrebbe dovuto comportarne un uso più costante. Basti ricordare il «Patto sociale per lo sviluppo e l’occupazione» del 22 dicembre 1998, al quale lavorò anche Massimo D’Antona. In quel documento si riconosceva alle parti sociali la possibilità di emanare – in ambiti che non avessero impatti sul bilancio dello Stato – avvisi comuni per orientare l’attività del legislatore in materia di lavoro.

Facciamo un passo indietro e torniamo al 1995 al tuo incarico come Sottosegretario di Stato.


Fu Tiziano Treu a scegliermi. E credo lo abbia fatto in ragione non soltanto della mia esperienza a capo dell’Ufficio Legislativo del Ministero, ma anche perché avevo una grande affinità culturale con lui, che in senso temporale va considerato come il primo vero allievo di Giugni. A proposito di questa affinità ricordo che, prima che io e Gianni Garofalo diventassimo professori, Giugni era solito scherzare con noi dicendo che i colleghi bolognesi avevano una preferenza per Gianni e che quelli milanesi l’avevano per me.
Tiziano mi dette la delega per i problemi del mercato del lavoro, che ovviamente non vuol dire mano libera. Il problema di maggiore importanza politica, quello della riforma delle pensioni, lo gestì con successo direttamente in prima persona.

E cosa ricordi di quella esperienza?


Fu una esperienza ricca ed entusiasmante sebbene, dopo all’assassinio di Marco Biagi, mi comportò l’assegnazione di una scorta. Di quella esperienza qui posso darti solo qualche flash su alcuni episodi.
Il primo che mi viene in mente fu quello in cui imparai che bisogna stare attenti al contatto con i giornalisti. Andai a cena con un giornalista che mi era stato introdotto da una collaboratrice di Giugni. Nella mia ingenuità gli illustrai, con attitudine professorale, le molte problematiche del sistema degli ammortizzatori sociali. Il giorno successivo un mio amico mi disse di uscire di casa con l’elmetto. In prima pagina su La Repubblica era apparso un articolo in cui erano esposte le intenzioni del Governo circa la riforma degli ammortizzatori. Rimasi tramortito. Ovviamente il fatto mi costò una lettera di ammonimento da parte del Presidente Dini.

E per quel che riguarda l’attività normativa?


La gran parte era attività di “pronto soccorso” per via delle continue emergenze occupazionali. Comunque in particolare ricordo la riutilizzazione dei lavori socialmente utili non solo come alternativa a proroghe meramente assistenzialistiche della cassa integrazione ma anche come tentativo di risposta ai problemi di disoccupazione di lunga durata. Una prospettiva, quest’ultima, che si dovrebbe avere il coraggio di riprendere. Ricordo anche il sostegno dato alla politica sindacale dei contratti di riallineamento nonché quello che facemmo per contrastare il fenomeno dei contratti pirata che era da poco apparso in alcune aree. Il fenomeno era frutto dell’iniziativa di consulenti spregiudicati, animati dalla finalità di eludere una norma (introdotta nel 1989 dal Ministro Formica) che prevedeva l’obbligo per i datori di lavoro di versare all’Inps una contribuzione non inferiore a quella prevista dai contratti stipulati dai sindacati maggiormente rappresentativi. Già il Governo precedente (il Berlusconi uno) aveva tentato una risposta. Lo aveva fatto tramite una circolare nella quale si definivano parametri più stingenti per riconoscere la qualità di soggetto maggiormente rappresentativo. Purtroppo la circolare prevedeva che dovesse scontarsi la maggiore rappresentatività di attori presenti nel CNEL. Orbene, i consulenti spregiudicati prima richiamati riuscirono a portare dalla loro un minuscolo sindacato datoriale che appunto sedeva nel CNEL (l’Unci). Quindi la risposta di Mastella (allora Ministro del Lavoro) andò a vuoto e il problema si ripresentò all’arrivo del nostro Governo. Ricordo l’enorme preoccupazione delle rappresentanze dei lavoratori e, in particolar modo, quelle dei datori di lavoro che si vedevano esposte al pericolo di una riduzione della propria base associativa. Vi era anche un interesse dell’Inps a non vedere abbassata la base contributiva. Nel tentativo di risolvere il problema introducemmo, con una norma di interpretazione autentica [l’art. 2, co. 25, della legge n. 549/1995], la formula dei sindacati comparativamente più rappresentativi. I contratti stipulati da quei sindacati avrebbero dovuto essere presi a riferimento per la determinazione della retribuzione ai fini della contribuzione da versare.
Ma più che degli interventi normativi che siamo riusciti a fare mi interessa parlarti in particolare di alcuni rimpianti per interventi mancati, che si aggiungono al rimpianto di cui ho parlato prima, della esperienza con Giugni.

A cosa ti riferisci?


In particolare a due fatti. Il primo è questo. Avevamo lavorato – anche con l’aiuto di Pier Antonio Varesi e i consigli di Carlo Dell’Aringa – ad un testo mirato a dare una riforma strutturale agli organismi di gestione del collocamento per orientarli allo svolgimento di quelle funzioni di politica attiva che non erano stati mai in grado di svolgere. Prevedevamo l’istituzione di una agenzia nazionale del lavoro come organo autonomo e con articolazioni regionali, gestito congiuntamente da Regioni, parti sociali e Ministero. Le Regioni non ne vollero sentire parlare. Purtroppo Treu, da persona pragmatica e con i piedi per terra, decise subito di lasciar perdere, valutando che non ci fossero le condizioni per poter insistere.

E il secondo fatto?


Ricordo poi il tentativo che feci per affrontare il problema rappresentato dalla contribuzione particolarmente elevata che generava criticità nel settore dell’edilizia. Il fenomeno era originato sopratutto dall’utilizzo opportunistico al quale si prestava il trattamento speciale di disoccupazione che vigeva in quel settore, per via delle intermittenze lavorative che lo caratterizzano. Ne conseguiva elevatezza della contribuzione nonché lavoro nero diffuso. Considerando che in quel settore era presente una forte struttura bilaterale, che svolgeva anche attività formative, proposi alle parti sociali che questa si facesse carico del ricollocamento del lavoratore e, in cambio, incamerasse gran parte del trattamento speciale di disoccupazione così risparmiato dall’Inps. Se ciò fosse avvenuto, si sarebbe innescato un circuito virtuoso. Trovai l’entusiastico consenso della Cisl e della Uil. Purtroppo la Cgil – con la benaltristica logica che il compito del ricollocamento spetta allo Stato – si mise di traverso. Evidentemente temeva di potersi trovare controparte del lavoratore, al quale avrebbe potuto far perdere l’indennità. Questo mi mortificò non poco, perché ritengo il sindacato una struttura vivente di solidarietà e i comportamenti opportunistici rappresentano il contrario.

Hai dedicato tempo e studio anche alla contrattualizzazione del rapporto di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche. Che opinione hai di questa riforma?


La contrattualizzazione del rapporto è stata certamente una riforma epocale ma anche una grande delusione. Mancando una dirigenza veramente responsabilizzata e dotata di solida cultura organizzativa e gestionale, la contrattualizzazione del rapporto ha finito per rappresentare, a mio avviso, un puro fatto mimetico; ha costituito peraltro, un paravento dietro il quale la stessa dirigenza è riuscita ad attingere a livelli retributivi di rilievo. Non abbiamo una dirigenza paragonabile a quella privata. In sostanza, le pur buone intenzioni del legislatore sono rimaste inevitabilmente frustrate dalla mancanza di una cultura congruente negli attori.

A conclusione dell’intervista, hai un consiglio da dare a chi aspira a diventare un giuslavorista teorico?


A chi volesse impegnarsi in questo campo consiglio di studiare il sistema normativo partendo non dalle norme ma, innanzitutto, dalla ricognizione, nella loro concretezza sociologica, delle dinamiche sociali che esse presuppongono. Il diritto è struttura vivente che innerva e interagisce con quelle dinamiche e, se non lo si capisce, si finisce per scrivere solo libri che hanno ad oggetto altri libri.

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