Testo integrale con note e bibliografia
Introduzione.
Introdotto dalla l. 13 agosto 2011, n. 138 allo scopo di contrastare il fenomeno del caporalato, storicamente diffuso soprattutto nelle campagne del meridione, e poi modificato dalla l. 29 ottobre 2016, n. 199, il delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro si presenta oggi come una norma di portata generale, diretta a sanzionare i più gravi abusi perpetrati in danno dei lavoratori. Basta, infatti, sfogliare i principali quotidiani nazionali per rendersi conto del numero sempre più crescente di indagini aperte per violazione dell’art. 603-bis c.p.; d’altra parte, le accuse presentano un carattere fortemente trasversale , così inducendo a ritenere che lo sfruttamento di manodopera configuri una pratica estremamente radicata nel nostro tessuto sociale.
Volendo ripercorrere le tappe essenziali della storia di questo reato , è sufficiente rammentare che nella sua originaria formulazione l’art. 603-bis c.p. puniva «con la reclusione da cinque a otto anni e con la multa da 1.000 a 2.000 euro per ciascun lavoratore» il fatto di svolgere un’attività di intermediazione organizzata, «mediante violenza, minaccia o intimidazione, approfittando dello stato di bisogno o di necessità dei lavoratori». La fattispecie presentava dunque un ambito di applicazione piuttosto ristretto, sostanzialmente coincidente con quello proprio del reato di tratta di persone; inoltre, essa si caratterizzava in senso esclusivamente teleologico, incentrando l’illecito sull’attività di intermediazione senza peraltro sanzionare il fruitore finale della prestazione. Allo scopo di rimediare alle incongruenze di una simile disciplina, la l. n. 199 del 2016 ha allargato il perimetro di operatività dell’incriminazione, sancendo la punibilità dello sfruttamento di manodopera direttamente posto in essere dal datore di lavoro e svincolando la configurabilità del reato dall’esercizio di una qualsiasi forma di coercizione; con una correlativa riduzione della pena principale (reclusione da uno a sei anni e multa da 500 a 1.000 euro per ciascun lavoratore) e un inasprimento delle sanzioni di carattere patrimoniale.
Sul piano politico-criminale, il descritto ampliamento della fattispecie trova fondamento nella necessità di colmare le lacune di punibilità lasciate aperte dalla l. n. 138 del 2011 e così assicurare un presidio più avanzato a beni di natura personale; nemmeno si possono inoltre trascurare i benefici recati dalla novella dal punto di vista della effettività della tutela penale. Al contempo, però, nell’introdurre l’analisi che segue occorre evidenziare come le modifiche apportate dalla l. n. 199 del 2016 presentino alcune criticità, esponendosi ad almeno un triplice ordine di considerazioni.
In primo luogo, nella sua attuale conformazione l’art. 603-bis c.p. sanziona illeciti commessi sia da imprese criminali che da operatori attivi nel mercato legale, così accostando all’interno di un’unica disposizione fenomeni caratterizzati da un diverso disvalore . Vero è che l’ampiezza della previsione può incontrare una giustificazione nella contiguità che, a livello materiale, non si rado sussiste fra impresa lecita e organizzazione criminale; tuttavia, come si avrà modo di vedere, essa comporta un parziale disallineamento fra il contenuto del reato e le conseguenze sanzionatorie derivanti dalla sua commissione. Il secondo rilievo attiene invece all’interesse tutelato dall’incriminazione: l’alleggerimento delle note modali della condotta e la contestuale riduzione della pena principale sembrano proiettare il reato verso la salvaguardia di beni di carattere superindividuale; eppure, una simile interpretazione mal si concilia con la severità della sanzione comminata e con la collocazione della norma fra i delitti contro la personalità individuale. Infine, è necessario sottolineare che, sul piano metodologico, l’attrazione della fattispecie all’interno della criminalità economica impone al giudice di adottare soluzioni ermeneutiche coerenti con la relativa disciplina di settore ; senonché, nella materia in esame, tradizionalmente governata dalla regola dell’autonomia sindacale , il rispetto di questa indicazione entra in forte tensione col principio di legalità.
Come si vede, l’assetto normativo delineato dal legislatore è tutt’altro che scevro di problemi; nel prosieguo della trattazione occorrerà pertanto analizzare gli elementi del reato, tenendo conto dei rilievi articolati in questa breve introduzione. In siffatta prospettiva, s’inizierà riflettendo sull’allocazione della responsabilità penale all’interno dell’impresa lecita, per poi passare a considerare le condotte tipiche, mediante l’approfondimento dei concetti di sfruttamento e stato di bisogno del lavoratore. Quindi, si esamineranno le conseguenze sanzionatorie derivanti dalla commissione del reato, per concludere con alcune osservazioni relative alla funzione dell’attuale incriminazione; il tutto cercando di valorizzare gli orientamenti emersi nella prassi giurisprudenziale .
2. L’individuazione dei soggetti responsabili all’interno dell’impresa lecita.
Il primo problema che si profila nell’applicazione dell’art. 603-bis c.p. riguarda l’individuazione dei soggetti responsabili. Come già osservato, la l. n. 199 del 2016 ha allargato la punibilità allo sfruttamento di manodopera direttamente posto in essere dal datore di lavoro, così spostando il baricentro dell’incriminazione dal terreno dell’organizzazione criminale a quello dell’impresa lecita; per tale ragione, l’interprete può essere chiamato ad assicurare la rispondenza del rimprovero penale al riparto di competenze interno alla compagine aziendale .
Più in particolare, con riferimento alla fattispecie di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, le incertezze originano dalla tendenza della grande impresa a segmentare il ciclo produttivo, attuando strategie di decentramento ed esternalizzazione : dal momento che questo processo comporta una “frammentazione” dei poteri di direzione e coordinamento che tradizionalmente consentono di identificare la figura del datore di lavoro, può risultare concretamente difficile individuare il soggetto responsabile della violazione. Tanto più che alcuni comparti produttivi tendono a configurarsi come una “rete orizzontale” , anziché in modo gerarchico e verticale, così revocando in dubbio la stessa esistenza di un unico centro decisionale, al quale imputare la commissione del reato . Mentre in presenza di imprese multinazionali si fa forte il rischio che la territorialità del diritto penale finisca per implementare forme di deresponsabilizzazione: è noto, infatti, che la scelta del luogo della produzione non di rado risponde anche all’intento di aggirare l’applicazione delle norme poste a tutela del lavoratore .
Trascurando per il momento tale ultimo problema, la cui soluzione chiama in causa il tema della responsabilità da reato degli enti , si deve preliminarmente rammentare che la l. n. 199 del 2016 ha puntato ad ampliare la tutela penale, sanzionando tutti i soggetti che partecipano allo sfruttamento del lavoratore: per questa ragione l’art. 603-bis c.p. oggi punisce al numero 1) colui che «recluta manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizione di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori», e al numero 2) chi «utilizza, assume o impiega manodopera, anche mediante l’attività di cui al numero 1), sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno». Soffermandoci su quest’ultimo punto, mentre i verbi “assume” e “impiega” rimandano all’esistenza di un formale contratto di prestazione d’opera, l’espressione “utilizza” sembra individuare la condotta di colui che, al di là di qualsivoglia inquadramento formale, si avvantaggia dell’altrui attività lavorativa; ne discende la possibilità di svincolare la tutela penale dall’ «assetto formale-regolatorio dei rapporti di lavoro» e attribuire un rilievo decisivo all’effettivo esercizio del potere di direzione e coordinamento del lavoratore.
Dati questi presupposti, sembrerebbe corretto affermare che in presenza di fenomeni di outsourcing l’interprete non sia esonerato dal compito di verificare la natura e l’intensità dei poteri esercitati dall’imprenditore titolare, ad esempio, del contratto di appalto o di somministrazione : anche trascurando la possibilità che l’appalto abbia un carattere illecito, si deve infatti sottolineare che in tutti questi casi l’ “utilizzatore” viene chiamato ad esercitare alcune delle prerogative tipiche del datore di lavoro, oltre che a dettare tempi e costi dell’attività del prestatore . In linea con l’impostazione funzionale adoperata all’interno della disciplina di settore , l’individuazione degli autori del reato dovrebbe perciò prendere le mosse dall’analisi delle violazioni in cui si annida lo sfruttamento del lavoratore, per poi risalire fino ad individuare i soggetti responsabili della scelta imprenditoriale che ha determinato la configurazione del reato; ferma restando la possibilità di sanzionare a titolo di concorso di persone colui che dolosamente agevola la realizzazione dell’illecito .
Vero ciò, si deve peraltro osservare che la complessità dei meccanismi contrattuali mediante i quali possono essere in concreto implementate strategie di esternalizzazione risulta in grado di creare schermi difficili da superare in sede di imputazione del rimprovero penale. Così non sorprende che, in presenza di imprese caratterizzate da una forte frammentazione del processo produttivo, la prassi abbia optato per la qualificazione di società appaltatrici e agenzie di somministrazione alla stregua di “utilizzatori” di manodopera, direttamente responsabili dell’integrazione dell’art. 603-bis c.p., e abbia applicato invece al beneficiario finale della prestazione la misura di prevenzione dell’amministrazione giudiziaria, teoricamente riferita al terzo che svolge un’attività di mera agevolazione in vantaggio di soggetti imputati del reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro (art. 34 d. lgs. 6 settembre 2011, n. 159) . Senza poterci soffermare adesso sul fondamento di quest’ultimo istituto , sia sufficiente osservare che, sul piano politico-criminale, l’impostazione appena descritta probabilmente risponde al condivisibile intento di realizzare un approccio gradualista nell’applicazione delle misure patrimoniali collegate alla configurazione dell’art. 603-bis c.p., al fine anche di assicurare la salvaguardia dell’occupazione. D’altra parte, però, in linea generale il fatto di considerare come mero “agevolatore” colui che beneficia della prestazione resa in condizioni di sfruttamento rischia di legittimare meccanismi di deresponsabilizzazione in capo agli operatori ai quali di fatto si deve la scelta di ottimizzare costi e tempi della prestazione; con l’ulteriore conseguenza di attuare una distribuzione del “rischio-reato” diseguale, perché tendente a diradare in presenza di grandi società, per addensarsi invece sulle medio-piccole realtà imprenditoriali .
Restando sul tema dell’allocazione della responsabilità penale, è opportuno infine osservare che la scelta di sanzionare colui che utilizza il lavoratore potrebbe apparire insoddisfacente in presenza di sistemi di produzione strutturati secondo lo schema della “rete verticale” . Al fine di chiarire il significato di questa affermazione, può citarsi l’esempio della filiera agro-alimentare, in cui lo sfruttamento di manodopera spesso configura l’esito di un processo non governato dall’agricoltore, finalizzato a mantenere il profitto sotto la pressione di un altro operatore collocato sul gradino più alto della catena: in particolare, non è raro che il prezzo di vendita dei singoli prodotti venga stabilito dal canale di distribuzione, che in alcuni casi arriva ad imporre perfino una cifra inferiore al costo di produzione . A ben vedere, tale situazione di asimmetria contrattuale non è di per sé in grado di impattare sui criteri di allocazione della responsabilità penale; in ogni caso, la sua conoscenza configura un punto di partenza ineliminabile per qualsivoglia intervento diretto a contrastare il fenomeno dello sfruttamento dei lavoratori .
3. Premessa allo studio delle condotte tipiche: il concetto di “sfruttamento”;
Per individuare le condotte penalmente rilevanti è giocoforza doversi interrogare sul fondamento dell’attuale incriminazione e sulle implicazioni derivanti dalla sua contemporanea finalizzazione alla tutela di beni di carattere collettivo ed individuale . Infatti, la determinazione del fatto tipico ruota attorno ai concetti di “sfruttamento” e “stato di bisogno” del lavoratore: mentre, però, il primo elemento sembra enfatizzare l’illiceità del complessivo sistema di produzione, conferendo alla tutela penale una funzione essenzialmente regolatoria e proiettandola verso il bene della concorrenza, l’approfittamento dello stato di bisogno tende a spostare il disvalore della fattispecie sulla lesione alla dignità del singolo lavoratore. Per tali ragioni, risulta utile iniziare l’esame del fatto tipico svolgendo una riflessione intorno al significato delle suddette locuzioni, quindi indagare la fisionomia delle condotte attualmente oggetto di incriminazione.
Nell’uso comune la parola sfruttamento richiama l’idea di una mercificazione del lavoratore attuata al fine di realizzare un ingiusto vantaggio patrimoniale ; inteso in quest’accezione, l’elemento presenta un forte carattere valutativo e pone l’accento sull’intrinseca iniquità dell’altrui strumentalizzazione . Tuttavia, se la verifica relativa alla ricorrenza di una simile situazione non solleva particolari problemi all’interno dei reati di schiavitù e tratta di persone, essendo questi caratterizzati dall’esercizio di forme gravi di coercizione, il discorso si fa più complesso con riferimento all’art. 603¬¬-bis c.p., giacché la norma trova usualmente applicazione in presenza di condotte realizzate approfittando di uno stato di ben più tenue compressione della libertà del singolo prestatore. Alla luce di tale osservazione, non sorprende che sin dal 2011 il legislatore abbia tentato di specificare il significato del concetto di sfruttamento, facendo riferimento a una serie di indici plasmata sulla regolamentazione del rapporto di lavoro: in conseguenza di questa impostazione, nell’art. 603-bis c.p. l’espressione individua un elemento normativo, consistente nell’impiego del lavoratore con modalità connotate da un apprezzabile scostamento da quelle previste dalla disciplina di settore . Il risultato finale di questa impostazione è che, per stabilire l’esistenza di uno sfruttamento penalmente rilevante, il giudice dovrebbe non tanto indagare l’obiettivo squilibrio delle prestazioni, quanto inquadrare l’attività di volta in volta esercitata dal singolo prestatore e poi verificare la rispondenza del suo trattamento al correlativo modello legale; con una conseguente utilizzazione dell’art. 603-bis c.p. in chiave precipuamente conservativa, come strumento immediatamente inteso a presidiare il rispetto della normativa posta a tutela del lavoratore .
Senonché, una volta giunti a questa conclusione occorre fare i conti con tre possibili obiezioni. Anzitutto, la valorizzazione in chiave definitoria della disciplina giuslavoristica impone all’interprete di puntualizzare il bene giuridico tutelato dall’incriminazione: infatti, alcune locuzioni utilizzate nella descrizione degli indici di sfruttamento presentano un carattere elastico (si pensi ad espressioni come “palese difformità” e “reiterata violazione”), sicché la loro individuazione in buona parte dipende dalla ratio attribuita alla disposizione . Si pensi, ad esempio, alle violazioni relative all’orario di lavoro: assumendo che il bene tutelato dall’incriminazione risieda nella concorrenza, si potrebbe affermare che il reato è integrato anche in presenza di inosservanze di modesta entità che, riguardando però un’ampia cerchia di lavoratori, siano in grado di determinare un notevole vantaggio per l’imprenditore .
Secondariamente, alla luce della complessità del mercato del lavoro e del generale principio di autonomia sindacale, gli indicatori richiamati dalla legge potrebbero risultare insufficienti ad assicurare il rispetto del principio di legalità. Senza volerci dilungare sull’analisi dell’art. 603-bis co. 3 c.p., si prenda in considerazione il primo indice, che, in seguito alla l. n. 199 del 2016, consiste ne «la reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato» . Non v’è dubbio che, richiamandosi ai contratti collettivi stipulati dalle “organizzazioni più rappresentative”, il legislatore abbia perseguito lo scopo di individuare un punto di riferimento obiettivo e al contempo maggiormente coerente con il canone della giusta retribuzione stabilito dall’art. 36 Cost. ; tuttavia, dato il principio dell’autonomia sindacale, ben può accadere che a un’identica qualità e quantità del lavoro segua la corresponsione di una diversa retribuzione . Inoltre, la realtà attuale si caratterizza per una «accentuata disgregazione del fronte associazionistico datoriale» e una conseguente proliferazione dei contratti collettivi nazionali , che giocoforza tende a valorizzare il ruolo del giudice nella determinazione della disciplina retributiva applicabile al singolo lavoratore .
Infine, non si può trascurare che, nella prassi giurisprudenziale, il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro trova applicazione anche in comparti caratterizzati da una notevole frammentazione normativa ovvero dalla mancanza di un consolidato standard regolamentare. Si pensi, per tutti, al procedimento per “caporalato digitale” che ha interessato la piattaforma Uber : come noto, in relazione all’inquadramento dei lavoratori impiegati in questo settore si erano espresse già dottrina e giurisprudenza, prospettando una pluralità di possibili soluzioni .
A un esame più approfondito, però, le suddette obiezioni non risultano insuperabili.
Quanto al bene giuridico, limitandoci ad alcune brevi osservazioni, si può affermare che la collocazione della fattispecie e l’entità della relativa sanzione spingono a individuare l’oggetto immediato della tutela penale nella dignità del singolo lavoratore ; per questa ragione, non v’è dubbio che la configurazione del reato vada limitata alle violazioni che sono di un’entità tale da determinare una mercificazione della persona, “usata” alla stregua di un semplice mezzo di produzione . Vero è che – come si avrà modo di osservare – la previsione di una pena pecuniaria proporzionata al numero dei soggetti passivi impone di ritenere che l’illecito presenti un carattere unitario anche in presenza di condotte poste in essere in danno di più persone e un simile esito interpretativo mal si concilia con la natura del bene protetto dall’incriminazione. Tuttavia, questa apparente contraddizione si risolve considerando che nell’art. 603-bis c.p., a differenza della schiavitù e tratta di persone, il mancato esercizio di una vera e propria forma di coercizione conduce a enfatizzare il disvalore d’azione insito nello sfruttamento, lasciando sullo sfondo la produzione di un pregiudizio ai danni del singolo lavoratore.
Soffermandoci invece sul principio di legalità, occorre preliminarmente osservare che «i concetti valutativi [sono] l’unico strumento per il cui tramite il legislatore possa intervenire in materie particolarmente complesse» ; assunta questa prospettiva, risulta che un minimo deficit di determinatezza è il prezzo da pagare per poter assicurare l’operatività della tutela penale davanti alle più gravi distorsioni del mercato del lavoro. Peraltro, sul piano comparato, la tecnica utilizzata dal nostro legislatore trova avallo nel codice penale tedesco, che al § 232 stabilisce che «lo sfruttamento mediante un’attività lavorativa […] si ha qualora l’attività, per ragioni di spietata ricerca del profitto, avviene in condizioni lavorative tali da essere evidentemente sproporzionate rispetto a quelle di lavoratori che svolgono un’attività uguale o comunque comparabile» . Così, mentre in Germania l’interprete viene chiamato ad adottare un parametro precipuamente sociologico, in Italia l’accento ricade soprattutto sul modello di disciplina delineato dal legislatore; in ogni caso, però, legandosi di fatto la tutela penale a una consistente deviazione dal modo in cui “di norma” viene regolata una determinata prestazione .
Quanto, infine, alla scelta della giurisprudenza di applicare l’art. 603-bis c.p. anche in settori privi di un preciso standard regolamentare, dal punto di vista politico-criminale essa risulta fondata alla luce della necessità di assicurare l’operatività della tutela penale nei comparti che, fuoriuscendo dallo schema della subordinazione, sono maggiormente esposti ai rischi di sopraffazione . Ciò precisato, a compensare le incertezze proprie della disciplina extra-penale provvede la tendenza del diritto pretorio ad applicare l’art. 603-bis c.p. solamente a situazioni caratterizzate da un’evidente violazione dei diritti fondamentali e dalla concorrenza di una pluralità di indicatori: casi come questi sicuramente ricadono all’interno dell’area semantica della nozione di sfruttamento del lavoratore.
Riassumendo, si può dunque affermare che le incertezze sopra evidenziate sono una conseguenza ineliminabile della scelta di sanzionare le più gravi pratiche di mercificazione dell’essere umano. Giunti a questa conclusione, sembra peraltro possibile puntualizzare che l’art. 603-bis c.p. punisce lo sfruttamento insito nel trattamento del lavoratore in modo fortemente deteriore rispetto a quanto previsto dalla legge; l’accertamento del reato, pertanto, avviene tramite l’apposizione di un “filtro” al sindacato giudiziale in ordine all’illiceità dell’altrui strumentalizzazione. Una simile impostazione, chiaramente mirata ad assicurare il rispetto del principio di determinatezza, di per sé non contrasta con la possibilità di identificare il bene giuridico tutelato nella dignità del lavoratore; semmai, la corretta individuazione del fondamento del reato induce a limitarne l’applicazione ai casi di significativo scostamento dallo standard previsto dalla disciplina di settore.
4. (segue) e quello di “stato di bisogno” del lavoratore.
Passando ad esaminare il concetto di stato di bisogno, la premessa è che, in seguito alla espunzione da parte della l. n. 199 del 2016 delle condotte di violenza, minaccia e intimidazione, esso configura il secondo polo dell’incriminazione: lo sfruttamento viene sanzionato a prescindere dall’esercizio di una forma diretta di coercizione, in quanto però sia realizzato approfittando della condizione di debolezza del lavoratore.
Ciò precisato, il punto di partenza della riflessione non può che risiedere nell’osservazione secondo cui il legislatore si è astenuto dal fornire indicazioni in ordine al significato di questo elemento; peraltro, l’esame delle diverse disposizioni ove ricorre il termine “bisogno” rivela che esso può essere utilizzato con differenti accezioni. Più in particolare, siffatta nozione viene talora adoperata per individuare una condizione psicologica di insoddisfazione, fondata sul desiderio di conseguire un bene o una prestazione; il termine può però essere impiegato anche in chiave obiettiva, per evocare uno stato di concreta indigenza del lavoratore . A livello politico-criminale, l’accoglimento della prima soluzione sembra comportare un allargamento del perimetro operativo del reato, conducendo a sanzionare anche lo sfruttamento realizzato in danno di soggetti che non siano in una situazione di povertà, bensì agiscano mossi dalla necessità di fronteggiare una spesa superiore alle proprie possibilità . Non si deve però dimenticare che, a causa dell’intreccio tra sfruttamento lavorativo e immigrazione, ben può accadere che persone in stato di obiettiva indigenza accettino di farsi sfruttare vedendovi un’opportunità per migliorare la propria posizione: in situazioni come quella in esame, solo l’accoglimento di una prospettiva obiettiva consente di assicurare l’operatività della tutela penale . Peraltro, le due prospettive non sono in un rapporto di reciproca esclusione, dal momento che la mancanza dei mezzi vitali normalmente determina un’apprezzabile compromissione della libertà di scelta del lavoratore. In ogni caso, l’importanza della questione risulta evidente, ove solo si consideri che il lavoro configura il principale strumento di liberazione dal bisogno e, in sistemi strutturalmente caratterizzati da un elevato tasso di disoccupazione, tale ultima condizione giocoforza arriva ad interessare una cerchia molto ampia di persone .
Così inquadrato il problema, sembra utile passare brevemente in rassegna le posizioni espresse in giurisprudenza e in dottrina. Iniziando dal diritto pretorio, superati alcuni orientamenti inclini a identificare lo stato di bisogno con lo sfruttamento del lavoratore, esso perlopiù tende ad individuare il suddetto elemento nella condizione di precarietà economica ed esistenziale del soggetto passivo del reato , utilizzando parametri che si fanno più o meno stringenti in base anche all’entità dello sfruttamento del lavoratore .
In dottrina, invece, un primo indirizzo ritiene rilevante «qualsiasi condizione esistenziale» in grado di limitare «la capacità di resistenza alla prevaricazione» ; poiché tale situazione è implicita nello sfruttamento del lavoratore, lo stato di bisogno finisce per configurare un elemento privo di un’autonoma capacità di selezione. Una seconda e prevalente impostazione propone di utilizzare i criteri enucleati dalla giurisprudenza relativa al reato di usura; quindi, individua lo stato di bisogno in una condizione di difficoltà materiale, meno intensa della necessità, ma tale da incidere comunque sulla capacità di autodeterminazione del soggetto passivo . Infine, un’ultima opinione sostiene che il suddetto elemento consiste in una obiettiva mancanza dei mezzi necessari a soddisfare le esigenze primarie della persona; in maniera coerente con questa ricostruzione, tende a limitare l’operatività del reato alle condotte perpetrate in danno di soggetti posti in stato di forte emarginazione .
Soffermandoci sulle singole posizioni, alla prima soluzione si può obiettare che essa produce un eccessivo ampliamento dell’ambito di operatività della tutela penale; inoltre, l’idea di subordinare la configurazione del reato all’accertamento di uno stato di bisogno inteso in senso puramente immateriale appare fortemente problematica dal punto di vista dei principi di tassatività-determinatezza e di personalità della responsabilità penale . Quanto alla seconda impostazione, si è già evidenziato che il codice utilizza il termine “bisogno” con una pluralità di accezioni; per tale ragione, non sembra possibile ricavare dall’interpretazione sistematica i contenuti della suddetta locuzione. A questo rilievo generale si aggiunge inoltre che nell’usura l’adozione di un’impostazione soggettiva si legittima alla luce della obiettiva pericolosità dell’operazione economica realizzata dal soggetto in stato di minorata libertà di autodeterminazione ; per converso, un’analoga giustificazione non ricorre all’interno del reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoratore, giacché la vittima mantiene sempre la possibilità di recedere dal contratto e così sottrarsi al proprio sfruttatore. D’altra parte, però, la terza ricostruzione sembra non considerare che, una volta individuato lo stato di bisogno in una condizione di estrema povertà e conseguente annichilimento della libertà di autodeterminazione, diviene veramente difficile evitare una sovrapposizione tra l’art. 603-bis c.p. e i delitti di schiavitù e tratta di persone ; né si può trascurare che, alla luce dell’attuale quadro di valori, pare riduttivo identificare il concetto di bisogno nella mancanza di ciò che è indispensabile alla sola sopravvivenza fisica del lavoratore .
Riassumendo, è possibile affermare che nessuna delle soluzioni proposte risulta pienamente convincente. Al fine di uscire da questa impasse, sembra utile osservare che l’accoglimento di un’impostazione obiettiva di per sé non impone di limitare la configurazione del reato alle condotte realizzate in danno di persone totalmente indigenti. In questo senso, invero, depone l’ampiezza della nozione di bisogno, astrattamente in grado di abbracciare anche esigenze attinenti alla sfera morale; quindi, la necessità di adattare l’ambito operativo del reato al quadro di valori e al livello di benessere raggiunto dall’odierno sistema sociale . Vero è che, una volta assunta una prospettiva obiettiva, occorre precisare il perimetro della nozione e una simile operazione è ostacolata dall’attitudine dei bisogni a variare secondo le aspirazioni e abitudini del singolo lavoratore. Tuttavia, al fine di assicurare il rispetto del principio di determinatezza, sembra possibile considerare la nozione di bisogno in chiave normativa, valorizzando per la sua definizione le indicazioni contenute all’interno della Costituzione: in effetti, la lettura congiunta di disposizioni come gli artt. 32, 34 e 38 Cost. legittima l’idea di individuare il bisogno nella mancanza di ciò che consente di esercitare diritti fondamentali quali quello alla salute o all’istruzione .
Più in particolare, nella prospettiva in esame, per accertare il suddetto elemento il giudice non si dovrebbe limitare a verificare la situazione patrimoniale del soggetto passivo del reato, bensì dovrebbe prendere in considerazione anche circostanze come la sua condizione familiare ovvero il suo status legale; così attribuendo rilevanza, ad esempio, alla necessità per la vittima di provvedere al sostentamento dei figli o di legittimare la propria permanenza nel territorio nazionale. Rispetto a un’impostazione soggettiva, resterebbero fuori dall’area della tipicità quelle forme di “sfruttamento” che, rispondendo al desiderio del lavoratore di realizzare un vantaggio di tipo formativo o professionale, configurano un’autentica espressione della sua libertà di autodeterminazione ; la norma troverebbe invece applicazione alle condotte commesse in danno di migranti disposti a considerare lo sfruttamento come un’opportunità per migliorare la propria condizione . Come si vede, l’accoglimento di una prospettiva obiettiva sembra potersi conciliare tanto con il rispetto del principio di determinatezza quanto con le esigenze di completezza della tutela penale.
A questo punto, prima di passare ad analizzare le condotte tipiche, è opportuno svolgere alcune brevi puntualizzazioni relative al fondamento dell’incriminazione. Si è già evidenziato che la finalizzazione della fattispecie alla tutela della dignità del lavoratore spinge a limitare la configurazione del reato alle condotte di mercificazione della persona che sono insite nel suo impiego tramite applicazione di un trattamento apprezzabilmente deteriore rispetto allo standard regolamentare; nella medesima direzione opera il requisito dello stato di bisogno, limitando la punibilità alle violazioni realizzate strumentalizzando la situazione di fragilità economico-sociale del lavoratore. Rispetto a tale conclusione, si deve peraltro precisare che l’accoglimento di una nozione obiettiva di bisogno giocoforza conduce a enfatizzare la funzione regolatoria dell’incriminazione e relega in un secondo piano lo scopo di tutela della libertà di autodeterminazione: in effetti, il risultato finale della suddetta impostazione è che, una volta riscontrata una situazione di sfruttamento, il giudice si dovrebbe domandare se il soggetto passivo era in una posizione tale da potersi opporre all’altrui prevaricazione, applicando l’art. 603-bis c.p. ogniqualvolta gli ordinari strumenti del diritto e dell’azione sindacale non sono in grado di assicurare il rispetto della dignità del lavoratore.
5. Le condotte tipiche e la relativa sanzione.
Una volta chiarito il significato dei concetti di sfruttamento e stato di bisogno, è agevole individuare la fisionomia delle condotte sanzionate dall’art. 603-bis c.p.: come già ricordato, esse consistono nel reclutamento di manodopera ovvero nella sua assunzione, impiego o utilizzo in condizioni di sfruttamento, tramite approfittamento dello stato di bisogno del lavoratore.
Iniziando dal reclutamento, per chiarire il significato di questa espressione è possibile richiamare la giurisprudenza formatasi in tema di prostituzione: in maniera non dissimile da quanto accade all’interno dell’art. 3 co. 4 l. 20 febbraio 1958, n. 75, nell’art. 603-bis c.p. il termine allude all’ingaggio della persona, mediante la stipula di un accordo avente ad oggetto il futuro svolgimento di una prestazione . Per quel che attiene invece alle ipotesi dell’utilizzo e dell’assunzione, l’ampiezza delle formule adoperate dal legislatore consente di sanzionare ogni condotta afferente alla costituzione o esecuzione del rapporto illecito; in particolare, non v’è dubbio che all’interno della disposizione rientri anche il mero impiego “di fatto” del lavoratore.
Sul piano del disvalore, si può osservare che, mentre il reclutamento dà luogo a una condotta di pericolo, l’impiego comporta la produzione di un danno effettivo al bene della dignità personale; se poi si considera che gli indicatori elencati all’interno dell’art. 603-bis co. 3 c.p. perlopiù presuppongono il carattere reiterato delle violazioni alla disciplina giuslavoristica, è agevole affermare che la fattispecie di impiego, a differenza di quella di reclutamento, si connota per il carattere prolungato della relativa esecuzione . Alla luce di tali osservazioni, risulta difficile giustificare la scelta compiuta dal legislatore di equiparare a livello sanzionatorio le fattispecie di cui ai numeri 1) e 2) della disposizione . D’altra parte, a mitigare l’irragionevolezza di tale configurazione soccorre la considerazione per cui la fattispecie di reclutamento trova usualmente applicazione in casi in cui ha luogo un effettivo impiego del lavoratore: in ipotesi come queste la possibilità di qualificare il caporale alla stregua di un agevolatore dell’altrui sfruttamento rende perfino superflua la previsione di un’autonoma norma incentrata sulle condotte di semplice intermediazione.
Soffermandoci brevemente sul momento consumativo del reato, la fattispecie di cui all’art. 603-bis co. 1 numero 1) c.p. si perfeziona allorché l’agente procura al datore di lavoro la persona destinata a operare in condizioni di sfruttamento, a prescindere dalla sua effettiva utilizzazione. Come già evidenziato, invece, l’integrazione dell’illecito di cui al numero 2) richiede che l’impiego sia protratto per un tempo apprezzabile, sufficiente a determinare l’affermazione di una situazione di vero e proprio sfruttamento del lavoratore; mentre l’ulteriore prolungamento della condotta, lungi dal configurare un post factum penalmente irrilevante, determina lo spostamento in avanti della consumazione, con effetti ad esempio sul dies a quo della prescrizione .
Con riferimento ad entrambe le incriminazioni, ci si deve peraltro domandare se il reato mantenga un carattere unitario nell’ipotesi in cui le condotte siano realizzate in danno di più persone; in effetti, la natura personalistica del bene tutelato, nonché la prossimità dei fenomeni di sfruttamento, schiavitù e tratta di persone indurrebbe ad affermare che in casi come quello in esame ricorra una pluralità di violazioni, con conseguente applicazione dell’art. 81 co. 2 c.p. . Né si può trascurare che un diffuso orientamento giurisprudenziale ritiene punibile a titolo di estorsione colui che, minacciando il licenziamento, ottiene l’accettazione da parte del lavoratore di condizioni economiche deteriori rispetto a quelle stabilite dalla legge . Invero, posto che l’art. 629 c.p. commina la pena della reclusione da cinque a dieci anni e della multa da 1.000 a 4.000 euro, la soluzione dell’unità del reato conduce a sanzionare lo sfruttamento di più persone – ricondotto all’interno dell’art. 603-bis c.p. – con una pena inferiore a quello posto in essere in danno del singolo lavoratore e punito a titolo estorsione. In senso contrario alla tesi della applicabilità della continuazione è però sufficiente rammentare che l’art. 603-bis c.p. commina una pena proporzionata al numero dei soggetti reclutati: per tale ragione, non v’è dubbio che rispetto all’ingaggio o impiego di più persone il legislatore abbia inteso affermare la ricorrenza di un’unica violazione .
A ben vedere, la soluzione appena riferita risulta coerente con la centralità che il disvalore d’azione ricopre all’interno della vigente incriminazione; nemmeno si può inoltre dimenticare la differenza, ben nota a livello internazionale, tra lavoro forzato e sfruttamento del lavoratore . Tale osservazione peraltro non esclude l’inadeguatezza della pena minacciata dall’art. 603-bis c.p. e la necessità di realizzare, de iure condendo, un maggior coordinamento col reato di estorsione; in ogni caso, nell’attesa di un intervento del legislatore, sembra opportuno mitigare le suddette incongruenze valorizzando gli strumenti di commisurazione offerti dall’art. 603-bis c.p., come, in particolare, le circostanze aggravanti speciali previste dal terzo comma della disposizione.
Soffermandoci brevemente sul tema, nell’ipotesi in cui lo sfruttamento sia realizzato tramite violenza o minaccia, trova applicazione la pena della reclusione da cinque a otto anni e della multa da 1.000 a 2.000 euro per ogni lavoratore; data la genericità della formula utilizzata dal legislatore, non v’è dubbio che l’aggravante possa trovare applicazione tanto nelle ipotesi di c.d. violenza-fine, quanto in quelle in cui l’esercizio della coazione è strumentale a piegare la volontà del lavoratore . Inoltre, il comma 5 dell’art. 603-bis c.p. prevede un aumento della pena da un terzo alla metà se «il numero di lavoratori reclutati sia superiore a tre», se «uno o più dei soggetti reclutati siano minori in età non lavorativa», nonché se il fatto sia commesso «esponendo i lavoratori sfruttati a situazioni di grave pericolo, avuto riguardo alle caratteristiche delle prestazioni da svolgere e delle condizioni di lavoro»: come si vede, le circostanze speciali consentono comunque di adeguare la pena alla gravità dello sfruttamento e alle relative dimensioni.
A questo punto, non resta che completare l’analisi delle conseguenze sanzionatorie derivanti dalla commissione del reato. Sempre con riferimento alle circostanze, merita di essere rammentata l’attenuante prevista dall’art. 603-bis.1 c.p.: in base ad essa, «la pena è diminuita da un terzo a due terzi nei confronti di chi, nel rendere dichiarazioni su quanto a sua conoscenza, si adopera per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori ovvero aiuta concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di prove decisive per l’individuazione o la cattura dei concorrenti o per il sequestro delle somme o altre utilità trasferite». La norma presenta alcuni difetti di formulazione, che accentuano i dubbi attinenti al suo fondamento politico-criminale : essa, infatti, accomuna condotte dirette a determinare una regressione dell’offesa a forme di collaborazione caratterizzate da una finalità precipuamente processuale. Mentre però nella prima eventualità si persegue un obiettivo coerente con lo scopo di tutela dell’incriminazione , la stessa considerazione non vale con riferimento alla seconda previsione: in tale ultima eventualità risulta dunque difficile legittimare una così cospicua riduzione della pena principale .
Per terminare il quadro, si deve infine osservare che, come già anticipato, il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro esibisce la propria severità soprattutto allorché si passa a considerare il complesso delle sanzioni accessorie e delle misure patrimoniali connesse alla sua integrazione. Sotto il primo profilo, l’art. 603-ter c.p. prevede che la condanna per il delitto di cui all’art. 603-bis c.p. comporta l’interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche o delle imprese nonché il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione; peraltro, data l’assenza di una specifica indicazione e di limiti edittali generalmente riferiti alla prima forma di interdizione, dovrebbe trovare applicazione il principio sancito dall’art. 37 c.p. di equivalenza temporale della sanzione accessoria alla pena principale . Quanto invece alle misure patrimoniali, in seguito alla l. n. 199 del 2016, il reato dà luogo all’applicazione della confisca allargata nonché di un’ipotesi speciale di confisca disciplinata dall’art. 603-bis.2 c.p. ; quindi, determina la configurazione della responsabilità amministrativa degli enti. Data la complessità del quadro normativo e la particolare problematicità di tali ultime due previsioni, sembra indispensabile dedicare ad esse un’apposita riflessione.
6. L’ipotesi speciale di confisca di cui all’art. 603-bis.2 c.p. e la misura di prevenzione dell’amministrazione giudiziaria di cui all’art. 34 d. lgs. 6 settembre 2011, n. 159.
Con riferimento alla confisca, si deve sin da subito precisare che l’istituto pone problemi interpretativi che riguardano sia la determinazione del relativo ambito di applicazione, sia la disciplina processuale; rinviando tale ultimo profilo ad altra indagine, nelle pagine che seguono ci limiteremo a trattare del primo ordine di questioni.
L’art. 603-bis.2 c.p. stabilisce che, in caso di condanna o di patteggiamento, è «sempre obbligatoria, salvi i diritti della persona offesa alle restituzioni e al risarcimento del danno, la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto o il profitto, salvo che appartengano a persona estranea al reato»; prevede inoltre la confisca per equivalente, nell’ipotesi in cui non sia possibile l’acquisizione del prezzo, prodotto o profitto del reato.
La portata innovativa della previsione, introdotta dalla l. n. 199 del 2016, essenzialmente risiede nella obbligatorietà della confisca del prodotto e del profitto del reato, nonché di quella dei beni strumentali, dal momento che prima della novella l’applicazione del provvedimento ablatorio risultava discrezionale, secondo i principi generali stabiliti dall’art. 240 c.p. Vero è che una forma di obbligatorietà era già contemplata dall’art. 600-septies c.p. con riferimento a tutti i delitti contro la personalità individuale; tuttavia, ragioni di carattere storico suggerivano di limitare l’ambito di operatività della disposizione, escludendo il delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro dal relativo raggio di azione .
Nella cornice delineata, una particolare attenzione deve essere riservata all’ipotesi della confisca dei beni strumentali: la previsione risulta invero problematica, non tanto per la sua possibile estensione ai veicoli utilizzati dal caporale, giacché normalmente si tratta di oggetti di modesto valore , quanto per l’astratta possibilità di confiscare il complesso dei beni aziendali in cui si inserisce lo sfruttamento del lavoratore . Invero, anche volendo adottare un’impostazione restrittiva, tesa a limitare il provvedimento ablatorio agli oggetti posti in un rapporto di connessione non meramente occasionale , risulta difficile negare la strumentalità dei beni mobili e immobili impiegati per lo sfruttamento del lavoratore. Senonché, alla luce dell’ampiezza dell’incriminazione, una sì lata applicazione della confisca avrebbe conseguenze economico-sociali di non poco momento; soprattutto, essa si porrebbe in forte tensione coi fondamentali principi garantistici sanciti dalla Costituzione.
Al fine di meglio comprendere il significato di questa affermazione, occorre svolgere una breve riflessione intorno alla natura dell’istituto disciplinato dall’art. 603-bis.2 c.p. Secondo la tesi più tradizionale, la confisca degli instrumenta delicti in linea generale configura una misura di sicurezza, fondata sull’intrinseca pericolosità della cosa utilizzata per la realizzazione del reato . In senso critico, si può però osservare che la suddetta impostazione, se appare plausibile in relazione ad oggetti aventi una chiara destinazione criminale, stenta a trovare giustificazione allorché la commissione del reato avviene mediante l’impiego di beni privi di una simile caratterizzazione; a ciò si aggiunga che l’obbligatorietà della previsione di cui all’art. 603-bis.2 c.p. mal si concilia con la necessità di subordinare l’applicazione delle misure di sicurezza a un giudizio di pericolosità sociale. Né si può infine trascurare che, sulla scorta di analoghe considerazioni, già da tempo una parte della dottrina ha prospettato l’opportunità di considerare la confisca dei beni strumentali alla stregua di una comune sanzione penale e nella medesima direzione si è da ultimo orientata la Corte costituzionale in relazione all’art. 187-sexies d. lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, nell’originaria formulazione introdotta dall’art. 9 co. 2 lett. a) l. 18 aprile 2005, n. 62 . Da una simile impostazione discende la necessità di assoggettare la confisca dei beni strumentali ai fondamentali principi garantistici di tassatività e proporzionalità della sanzione; così dovendosi dubitare della legittimità dell’interpretazione che estende il provvedimento ablatorio all’azienda in cui ha luogo lo sfruttamento del lavoratore.
In breve, per assicurare la compatibilità con la Costituzione dell’art. 603-bis.2 c.p., sembra indispensabile limitare l’applicazione della confisca dei beni strumentali ai casi in cui l’attività imprenditoriale risulta ab origine destinata alla realizzazione dello scopo criminale: solo in casi come quello in esame si potrebbe infatti formulare una presunzione di pericolosità del bene e così legittimare il correlativo provvedimento di ablazione . Del resto, soltanto un’interpretazione restrittiva dell’art. 603-bis.2 c.p. è in grado di garantire un autonomo spazio di operatività all’istituto del controllo giudiziario dell’azienda, introdotto dall’art. 3 l. n. 199 del 2016: anche sotto il profilo in esame, emerge dunque la necessità di ridimensionare l’ambito operativo della previsione .
Prima di passare ad analizzare la responsabilità da reato degli enti, un breve cenno merita la misura di prevenzione dell’amministrazione giudiziaria, introdotta dall’art. 5 l. 17 ottobre 2017, n. 161 e disciplinata dall’art. 34 d. lgs. n. 159 del 2011; come già ricordato , la norma trova applicazione allorché sussistono «sufficienti indizi» che il libero esercizio di un’attività imprenditoriale «possa comunque agevolare l’attività di persone […] sottoposte a procedimento penale» per il delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro. Alla base della suddetta previsione, originariamente pensata per contrastare la penetrazione delle organizzazioni mafiose all’interno del mercato legale , probabilmente si trova la connessione tra il fenomeno del caporalato e quello della criminalità organizzata, ricorrente soprattutto nelle campagne del meridione; senonché, data l’ampiezza dell’attuale art. 603-bis c.p., l’amministrazione giudiziaria non sembra presentare un unico fondamento politico-criminale. Mentre, infatti, nel caso di illeciti riconducibili a un’associazione criminale si può ritenere che l’istituto consenta di eliminare “zone grigie” comunque caratterizzate da un inquinamento dell’attività imprenditoriale, eventualmente preludendo all’applicazione della confisca di prevenzione, rispetto a un’impresa lecita la misura sembra semmai eliminare i vantaggi derivanti dalle forme più spregiudicate di dumping salariale. Con riferimento a tale ultima eventualità ci si deve perciò interrogare in ordine alla proporzionalità della previsione, la quale comporta un’apprezzabile limitazione alla libertà d’iniziativa economica di operatori teoricamente estranei alle condotte di sfruttamento e intermediazione . Se la forza di una simile osservazione è attualmente mitigata dalla tendenza del diritto pretorio ad applicare l’art. 34 d. lgs. n. 159 del 2011 ad imprese caratterizzate per una forte frammentazione del processo produttivo, in cui è possibile dubitare della reale terzietà al reato del destinatario dell’amministrazione , il problema non potrà che affiorare nell’ipotesi di una sua più lata configurazione.
7. La responsabilità da reato degli enti.
Una delle novità più significative introdotte dalla l. n. 199 del 2016 consiste nella inclusione dell’art. 603-bis c.p. fra i reati presupposto della responsabilità amministrativa dell’ente, ai sensi dell’art. 25-quinquies d. lgs. 8 giugno 2001, n. 231 ; d’altra parte, la novella ha determinato l’attrazione della fattispecie all’interno della criminalità economica, così rendendo non procrastinabile la scelta di responsabilizzare la società nell’interesse o a vantaggio della quale abbia luogo la commissione del reato.
Ciò premesso, le caratteristiche dell’attuale sistema di produzione impongono di riflettere sulla possibilità di applicare il d. lgs. n. 231 del 2001 alle violazioni commesse nell’ambito di un’impresa multinazionale. Per inquadrare correttamente il tema, occorre anzitutto rilevare la genericità della nozione di “impresa multinazionale”, che può essere utilizzata per individuare tanto una società che opera in un ordinamento diverso da quello originario, per il tramite ad esempio di una succursale, quanto un vero e proprio gruppo attivo su scala globale ; peraltro, a una simile realtà si dovrebbe oggi accostare il fenomeno delle “catene globali del valore”, in cui l’interdipendenza economica dei soggetti coinvolti nella filiera di produzione fa da contraltare alla loro completa autonomia sul piano legale .
Nella cornice delineata, si può iniziare considerando l’eventualità in cui il reato venga commesso nel territorio nazionale dai rappresentanti di una società avente all’estero la propria sede principale. A questo proposito, la premessa è che il d. lgs. n. 231 del 2001 tace in ordine alla possibilità di sanzionare gli enti costituiti in un altro ordinamento; ciò nondimeno, nel silenzio del legislatore, in dottrina come in giurisprudenza prevale l’opinione secondo cui, dati i principi di territorialità e obbligatorietà della legge penale, anche la persona giuridica straniera può essere chiamata a rispondere degli illeciti commessi da un suo dipendente all’interno del territorio nazionale . È chiaro, peraltro, che un simile esito presuppone la verifica in ordine alla sussistenza della c.d. colpa di organizzazione: nell’impossibilità di pretendere la puntuale osservanza delle regole delineate dal d. lgs. n. 231 del 2001, si è affermato che il giudice dovrebbe adottare un parametro di tipo funzionale, incentrato sull’adeguatezza del modello di compliance implementato dal singolo operatore ; così bilanciando le esigenze di protezione con la libertà di stabilimento dell’imprenditore.
Ferma restando la validità di questa conclusione, sembra peraltro opportuno precisare che l’accertamento giudiziale non si dovrebbe limitare all’adozione da parte della società di un sistema di prevenzione, bensì dovrebbe prendere in considerazione anche l’individuazione e gestione dello specifico rischio-reato concernente le condotte di intermediazione e sfruttamento del lavoratore ; per questa ragione, data la mancanza di un quadro normativo comune, l’impostazione appena delineata necessariamente conduce ad addossare sull’ente un dovere di prevenzione più pregnante rispetto a quello che trova applicazione in settori normativi caratterizzati per un più alto livello di armonizzazione (si pensi, per tutti, alla corruzione). Se poi si considerano le incertezze inerenti al suddetto parametro funzionale, risulta evidente l’importanza di realizzare un avvicinamento fra le diverse legislazioni, anche al fine di evitare la produzione di «svantaggi concorrenziali» in danno agli ordinamenti caratterizzati per un maggiore avanzamento della tutela penale .
Ancor più delicata pare poi la questione relativa alla possibilità di sanzionare la società estera posta al vertice di un gruppo multinazionale: se da un lato non può escludersi che il gruppo configuri uno schermo utilizzato per preservare la holding dal rischio di responsabilità penale , dall’altro l’autonomia delle singole componenti preclude un avanzamento verso l’alto nell’applicazione del d. lgs. n. 231 del 2001. Nel dettaglio, per affermare la responsabilità della holding, il giudice dovrebbe accertare la riconducibilità dell’illecito al cattivo esercizio dei poteri di direzione e coordinamento; quindi, verificare l’esistenza di un corrispondente difetto di organizzazione : come si vede, la punizione della capogruppo rappresenta un’eventualità del tutto residuale. Infine, nessuno spazio sembra potersi riconoscere all’idea di sanzionare le imprese situate alla sommità di una “catena verticale”: l’assoluta indipendenza dei soggetti coinvolti nel sistema di produzione sbarra la strada a qualsivoglia tentativo di risalita nel processo di responsabilizzazione.
Passando adesso a considerare la diversa questione della punibilità dei reati realizzati al di fuori dal territorio nazionale, il problema trova un’espressa soluzione nell’art. 4 d. lgs. n. 231 del 2001, che come noto riconosce la competenza dell’autorità giudiziaria a conoscere degli illeciti realizzati all’estero dalla società che abbia nel nostro Paese la sua sede principale . Anche in questo caso, però, la configurazione dell’illecito in capo all’ente sembra incontrare alcuni impedimenti: al di là delle incertezze proprie del criterio imputativo delineato dal legislatore , viene in rilievo la difficoltà per il giudice di accertare il reato-presupposto realizzato al di fuori del territorio nazionale. È, infatti, sì vero che l’art. 604 c.p. estende la giurisdizione ai reati contro la personalità individuale commessi all’estero, così derogando alle condizioni stabilite dagli artt. 9 e 10 c.p. ; tuttavia, la tecnica normativa utilizzata dal legislatore conduce a dubitare della effettiva praticabilità di un’applicazione extraterritoriale della fattispecie di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro. In proposito si deve invero rammentare che nell’art. 603-bis c.p. il termine sfruttamento configura un concetto normativo, la cui concreta individuazione presuppone un confronto fra il trattamento subito dal lavoratore e il relativo standard regolamentare: pur ammettendo l’utilizzabilità in chiave integratrice delle fonti di carattere non statuale , la diversità della disciplina giuslavoristica rende difficile immaginare che si proceda per condotte di sfruttamento interamente realizzate al di fuori dal territorio nazionale.
In breve, nell’attuale economia globale l’applicazione delle sanzioni comminate dal d. lgs. n. 231 del 2001 trova un duplice ostacolo nella territorialità del diritto penale e nella complessità del sistema di produzione: alla luce di tale osservazione, non sorprende che alcuni ordinamenti abbiano creato autonomi illeciti incentrati sul mancato rispetto da parte della società di doveri di prevenzione, possibilmente estesi a tutto l’arco della catena di produzione . Poiché in questa sede non è possibile prendere in esame le singole soluzioni, ci limitiamo conclusivamente ad affermare che, allo scopo di assicurare un’effettiva responsabilizzazione degli enti, risulta indispensabile ripensare gli attuali meccanismi di imputazione applicabili al reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro.
8. Conclusioni.
Alla luce dell’analisi condotta nei paragrafi che precedono, è possibile svolgere adesso alcune puntualizzazioni in ordine alla fondatezza dei rilievi enucleati nel paragrafo introduttivo, quindi articolare una riflessione sul ruolo giocato dal diritto penale nel contrasto alle pratiche di sfruttamento del lavoro.
Con riferimento al primo profilo, si è anzitutto osservato come la complessità empirica ed assiologica del fenomeno dello sfruttamento renda disagevole definire in modo puntuale le condotte oggetto di incriminazione; rispetto ad altri settori del diritto penale economico, a ciò si aggiunge l’impossibilità di fondare l’individuazione del fatto tipico su parametri normativi rigidi e di fonte esclusivamente legale. Al contempo, però, l’importanza dei beni oggetto di aggressione offre un’indubbia legittimazione alla scelta di adoperare il diritto penale per sanzionare le più gravi forme di mercificazione del lavoratore; assunto questo punto di partenza, non sembra che la tecnica normativa adoperata dal legislatore impedisca di bilanciare adeguatamente esigenze garantistiche e di protezione. Invero, la valorizzazione quale canone interpretativo del bene della dignità personale, unita alla ricostruzione in chiave normativa dei concetti di “sfruttamento” e “stato di bisogno” del lavoratore, permette di selezionare condotte che sono caratterizzate da un marcato disvalore e che, per questa ragione, sicuramente ricadono all’interno del nucleo essenziale dell’incriminazione.
Un discorso un po’ più articolato s’impone, invece, allorché si passa a considerare il complesso delle conseguenze sanzionatorie collegate alla commissione del reato: non si può infatti negare che misure come la confisca, nelle forme di cui all’art. 603-bis.2 c.p., e l’amministrazione giudiziaria, essendo sorte sul terreno della lotta alla criminalità organizzata di stampo mafioso, stentano a trovare legittimazione con riferimento a forme di responsabilità «per modo di produzione» . Vero è che in linea generale il nostro sistema sanzionatorio non distingue fra condotte poste in essere nel quadro di un’impresa lecita e condotte riferibili a un’organizzazione criminale ; tuttavia, sotto il profilo in esame deve riconoscersi l’opportunità di una riforma diretta quantomeno ad eliminare gli automatismi presenti negli artt. 603-bis.2 e 603-ter c.p. e così adeguare il trattamento punitivo all’effettiva gravità delle condotte poste in essere dall’autore.
Passando a considerare il ruolo del diritto penale nel contrasto allo sfruttamento del lavoro, non si può fare a meno di rimarcare subito la strutturale inidoneità di questa branca del diritto a governare forme di devianza che assumono una «dimensione sociale» ; a tale annotazione si aggiunge inoltre che l’approfondimento sopra svolto in relazione ai criteri di allocazione del rimprovero penale ha evidenziato la difficoltà, nell’odierno sistema economico, di sanzionare i soggetti realmente responsabili della scelta di risparmiare i costi e i tempi della produzione. D’altra parte, però, nella prassi l’art. 603-bis c.p. trova applicazione anche a forme particolarmente gravi di sfruttamento del lavoratore, con riferimento alle quali sarebbe tutt’altro che azzardato invocare le fattispecie di schiavitù e tratta di persone. Inoltre, rispetto all’impresa lecita, l’esperienza giudiziaria sta rivelando un possibile utilizzo dell’art. 603-bis c.p. in chiave di leva volta ad innalzare le tutele giuslavoristiche, mediante fra l’altro l’applicazione della misura di prevenzione di cui all’art. 34 d. lgs. n. 159 del 2011 . Una simile tendenza va senz’altro salutata con favore, nella misura in cui consente di assicurare una protezione efficace dei diritti dei lavoratori; al contempo, però, non possono sottacersi gli effetti destabilizzanti di una simile enfatizzazione del ruolo del giudice penale in un sistema tradizionalmente governato dal principio dell’autonomia sindacale. In ogni caso, dato il suo carattere territoriale, il diritto penale non è in grado di intervenire su fenomeni di portata globale; sotto questo profilo, non si può che conclusivamente ribadire la necessità di adottare strategie di contrasto allo sfruttamento condivise sul piano internazi