TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA
1) Questione salariale e debolezze di sistema
Il tema del salario minimo va inserito, come fa opportunamente la proposta al nostro dibattito, nella situazione generale del nostro mercato del lavoro e della sua regolazione, in particolare da parte dei contratti collettivi, che sono, o dovrebbero essere, la autorità salariale per eccellenza.
La questione salariale, ora più che mai attuale nel nostro paese, va considerata nella sua gravità presente, ma senza dimenticare le sue radici strutturali. La diffusione di salari bassi, spesso inferiori alla soglia della povertà, e la crescita dei working poors sono fenomeni risalenti anche se aggravati dalle crisi più recenti: da quella del 2008, alla crisi dell’ emergenza Covid, agli attuali sconvolgimenti provocati dalla guerra in Ucraina e dalle tensioni geopolitiche.
La gravità dei bassi salari si radica nelle debolezze storiche del nostro sistema economico, da tempo note ma non corrette: dalla carenza ultradecennale di investimenti nei fattori decisivi per lo sviluppo, a cominciare da formazione e ricerca, alla insufficiente capacità di innovazione di parte del sistema produttivo, alla mancanza di strumenti per la diffusione e il trasferimento tecnologico alle PMI, alla presenza di larghe fasce di arretratezza nei servizi privati e pubblici.
Tali debolezze di sistema si riflettono nelle dinamiche, meglio nelle distorsioni, del nostro mercato del lavoro storicamente caratterizzato da bassi tassi di occupazione, alte percentuali di lavoro irregolare, insufficienti livelli di scolarizzazione e di conoscenze soprattutto tecniche e scientifiche, e negli ultimi anni aumento dei vari tipi di lavoro precario e del part time involontario.
L’impatto della pandemia ha messo in luce anche la fragilità del lavoro autonomo e professionale, compreso quello autentico, fino a ieri sottovalutata, oltre ad aver contribuito a “sgonfiare“ la bolla dei lavori (e lavoretti) falsamente autonomi, lasciata crescere con colpevole tolleranza ed essa stessa segno di uno sviluppo povero e distorto.
Non mi dilungo su questi aspetti strutturali che sono ampiamente esplorati, ma che vanno tenuti presenti, perché condizionano la validità delle risposte di policy. Per questo motivo, come si rileva anche nella proposta alla nostra discussione, tali risposte non possono limitarsi a misure lavoristiche, ma devono abbracciare l’intero range delle politiche industriali, economiche e sociali.
A maggior ragione la eventuale introduzione di qualche strumento di salario minimo non può essere considerata risolutiva. Per questo non va caricata di aspettative né di polemiche eccessive, come invece appare sovente nel dibattito non solo politico, ma anche fra gli osservatori esperti, giuristi e non.
2) Frammentazione delle rappresentanze e incertezza dei perimetri negoziali
Venendo al nostro ambito specifico di analisi, concordo sul fatto che il tema è collegato alle criticità attuali del sistema di contrattazione collettiva italiana.
Ma anche qui vanno distinti i diversi aspetti della questione.
La debolezza attuale del sistema contrattuale e di relazioni industriali è un fenomeno comune a molti (quasi tutti) gli ordinamenti nazionali a noi comparabili. Ha motivazioni complesse riconducibili sia a un contesto economico, nazionale e internazionale, sempre meno favorevole all’azione sindacale, sia a orientamenti degli imprenditori e spesso dei governi sempre meno accomodanti se non ostili verso sindacati e contrattazione collettiva.
In questo contesto si collocano criticità specifiche, presenti in altri paesi, ma particolarmente gravi nel nostro ordinamento.
Comincio dalla questione – conosciuta ma non abbastanza approfondita – riguardante la concorrenza, spesso al ribasso, fra contratti collettivi riferiti allo stesso settore.
Questo è un fenomeno non nuovo in assoluto, ma che in tempi recenti ha assunto in Italia crescente ampiezza e capacità di produrre effetti distorsivi nella concorrenza fra imprenditori e fra gli stessi sindacati.
Il motivo è in parte oggettivo, cioè dipende dalle trasformazioni in atto nei sistemi produttivi che hanno sconvolto e reso meno netti i tradizionali confini fra le categorie merceologiche.
Ma di questa trasformazione e incertezza dei perimetri categoriali le parti sociali hanno spesso approfittato per allargare la loro sfera di influenza associativa e contrattuale, e per sfruttare margini di negoziazione più favorevoli di quanto permettesse la contrattazione svolta nelle categorie tradizionali.
Scelte più o meno opportunistiche in questa direzione sono ascrivibili in misura e per motivi diversi sia alle imprese e alle loro associazioni sia alle organizzazioni sindacali.
Anche se non esistono ricerche specifiche, alcuni elementi desunti dall’archivio del Cnel sembrano indicare che gran parte di contratti collettivi “esorbitanti” dalle categorie tradizionali o ad esse sovrapposte sono conclusi da associazioni datoriali diverse da quelle storiche, o addirittura da gruppi di imprese costituiti ad hoc per concludere contratti di questo tipo.
Non mancano casi in cui tali iniziative datoriali anomale trovano riscontro e adesione da parte di associazioni sindacali, spesso di poca rappresentatività ma talora anche collegate al sistema confederale.
Una variante di questa anomalia della contrattazione rispetto agli schemi categoriali storici è costituita dalla diffusione di contratti collettivi aventi un campo di applicazione trasversale o onnicomprensivo. Gli esempi, menzionati nella presentazione al dibattito, del contratto collettivo multiservizi e del contratto servizi fiduciari e vigilanza, sono ben noti oltre che al Cnel anche alle cronache sindacali e giudiziarie, per i loro trattamenti retributivi e normativi al quanto bassi e al di sotto degli standard del “lavoro dignitoso”.
3) Vuoto di regolazione sulla rappresentatività
Questa rottura degli schemi categoriali provocati non solo da organizzazioni non rappresentative delle due parti ma anche da soggetti collettivi dotati di rappresentatività riconosciuta, testimonia della gravità del disordine presente nell’attuale sistema contrattuale italiano.
Tale disordine, oltre ad agevolare la diffusione dei contratti al ribasso, alimenta controversie giurisdizionali fra le stesse maggiori organizzazioni rappresentative, specie nelle aree di confine più incerte e contese: fra artigianato e piccola impresa, fra settori commerciali e industriali, e persino fra cooperazione e industria.
Sono stato personalmente testimone della criticità di tali controversie di confine e della difficoltà di promuovere soluzioni concordate, che sarebbero le più confacenti a un sistema di relazioni ordinato e maturo.
Queste guerre di confine costituiscono uno degli ostacoli, anche se non l’unico, a risolvere consensualmente la questione dei criteri di rappresentatività delle organizzazioni sindacali datoriali.
La mancanza di criteri certi per queste associazioni rappresenta un vuoto di regolazione del sistema contrattuale generalmente deprecato ma tuttora non colmato. La carenza è tanto più grave perché si somma alle difficoltà di implementazione del T.U. del 2014 contenente i criteri per la misurazione della rappresentatività delle associazioni sindacali dei lavoratori.
Ho sempre ritenuto e argomentato che questi aspetti di criticità ostacolano il buon funzionamento della contrattazione e ne indeboliscono ulteriormente la capacità di negoziare le condizioni di lavoro dei lavoratori rappresentati. E sono convinto che la soluzione più coerente con le nostre tradizioni e con la autonomia delle parti sociali non può che venire dalle intese fra le stesse parti negoziali.
4) Codice degli appalti e riapparizione della categoria “oggettiva”
Ma, a fronte di una situazione di impasse ormai ultradecennale, diventa sempre più urgente domandarsi quali possano essere le modalità per sbloccarla.
Una indicazione rilevante, ancora poco esplorata, proviene dalla normativa del codice degli appalti (legge 50/2016 art 30, co. 4), secondo la quale al personale impiegato in lavori, servizi e forniture oggetto di appalti pubblici va applicato il contratto collettivo il cui ambito di applicazione sia “strettamente connesso con l’attività oggetto dell’appalto”.
Analogo principio è stabilito in via generale dal cd patto della fabbrica del 2018 concluso fra le organizzazioni più rappresentative delle parti sociali dell’industria, in base al quale (para.4, punto a) tali organizzazioni si impegnano a garantire una stretta correlazione fra contratti collettivi applicabili e reali attività di impresa.
La norma del codice degli appalti, come quella del patto della fabbrica, smentisce il principio da sempre seguito dalla nostra giurisprudenza e approvato dalla dottrina secondo cui nell’ ordinamento sindacale di fatto vigente in Italia, la definizione della categoria contrattuale e dei suoi confini è esclusiva competenza dell’autonomia contrattuale.
A dire il vero tale principio non ha mai avuto un valore assoluto, perché la connotazione oggettiva della categoria sancita dall’ art. 2070 del Codice Civile ha mantenuto in giurisprudenza il valore di orientare l’interpretazione quando il contratto individuale opera un generico rinvio al contratto collettivo e occorre stabilire quale contratto le parti abbiano inteso richiamare nell’ipotesi di datore di lavoro che svolge più attività.
Inoltre quando si tratta di individuare i minimi contrattuali rilevanti come base dei contributi previdenziali, secondo quanto stabilito dalla legge 89/1989, spetta all’INPS di definire in ultima istanza i contratti maggiormente rappresentativi e i relativi ambiti di applicazione, anche superando eventuali incertezze e controversie relative ai perimetri categoriali.
La norma ricordata del codice degli appalti modifica il quadro ordinamentale facendo entrare (o meglio rientrare) la categoria oggettiva nel sistema contrattuale italiano.
Una tendenza paragonabile, pur in diverso contesto, si è manifestata nel diritto sindacale tedesco. La Corte Costituzionale di quel paese ha dichiarato illegittimo un primo intervento legislativo nella soluzione dei conflitti fra diversi contratti collettivi in quanto in contrasto col principio dell’autonomia sindacale. Ha confermato invece un secondo intervento, ritenendo che il legislatore può intervenire per regolare i presupposti strutturali che “consentono alla contrattazione collettiva di svolgersi in un contesto di equa parità sociale e di conseguenza di produrre adeguate condizioni di lavoro ed economiche” e che “la legge deve agire quando sopraggiungano guasti durevoli nella capacità di funzionamento del sistema di contrattazione collettiva”.
La Corte tedesca ha peraltro precisato che tali condizioni devono essere interpretate in senso restrittivo in nome della tutela della libertà sindacale e che il legislatore è tenuto a prevedere condizioni nella conclusione del contratto collettivo maggioritario, affinché questo tenga in adeguato conto gli interessi dei gruppi professionali che subiscono la regola della maggioranza.
La rilevanza della categoria oggettiva da parte del nostro legislatore, pur sancita limitatamente ai rapporti contrattuali nella esecuzione degli appalti pubblici, segna una indicazione di policy in grado di estendersi o di generalizzarsi, se non altro per la importanza quantitativa di tali appalti, che è ora esaltata dall’ impiego delle risorse eccezionali del PNRR.
Per lo stesso motivo è di estrema importanza garantire la corretta applicazione dei contratti stipulati dai soggetti maggiormente rappresentativi ed evitare contrattazioni al ribasso alle condizioni di lavoro nei settori critici delle opere pubbliche.
Inoltre la norma del codice dei contratti pubblici di riconoscere la categoria oggettiva potrebbe stimolare la giurisprudenza a dare rilievo al nuovo principio in altre direzioni anche oltre l’ambito specifico degli appalti pubblici.
Resta da vedere se le parti sociali trarranno motivo da tale indicazione normativa per dare seguito alla clausola analoga del patto della fabbrica nei loro comportamenti contrattuali, a cominciare dalla scelta dei criteri per la composizione delle controversie relative ai confini fra diverse categorie contrattuali e fra le loro aree di influenza organizzativa.
Un superamento delle incertezze sui perimetri contrattuali nel senso auspicato servirebbe a chiarire un punto importante per il funzionamento ordinato del sistema contrattuale. Potrebbe stimolare progressi nella definizione consensuale dei criteri di rappresentatività delle organizzazioni dei datori di lavoro, perché è proprio sul versante datoriale o, partendo da questo, che si sono manifestate le maggiori controversie sui perimetri negoziali.
5) Rappresentatività e sostegno legislativo
Anche ipotizzando un tale progresso, la strada per il consolidamento delle regole del sistema contrattuale rimane ancora impervia.
La individuazione di criteri certi di rappresentatività delle due parti, ancorché concordata fra le maggiori organizzazioni, avrebbe i limiti di ogni intesa contrattuale. Esprimerebbe un indubbio effetto di deterrenza, ma non sarebbe in grado di precludere comportamenti devianti da parte di associazioni o gruppi dissenzienti, ipotesi non improbabile specie in settori a bassa sindacalizzazione come le piccole imprese, molti settori di servizi e della logistica.
Per questo si ritiene da molti, me compreso, che una intesa del genere, per avere piena effettività, richiederebbe di essere accompagnata da una normativa di sostegno.
Sono peraltro consapevole che, nonostante un intervento simile sia un esempio emblematico di legislazione di sostegno, persistono forti resistenze a seguire questa strada in ambito sindacale, in specie da parte della Cisl; ma non mancano perplessità anche fra le associazioni datoriali.
A maggiore ragione mi sembra irrealistico ipotizzare allo stato attuale qualche forma – pur auspicabile - di intervento legislativo organico sul nostro sistema di relazioni industriali e contrattuale, quale è stato proposto da autorevoli colleghi.
Per venire alla questione specifica del salario minimo, le resistenze a un intervento legislativo diretto in questa direzione sono altrettanto se non più diffuse. Non mi soffermo sugli argomenti pro e contro una legge sui minimi, che sono stati ampiamente esposti, anche con qualche mio contributo.
6) Le vie alternative per il salario minimo indicate dalla Commissione europea
L’ impasse che ha impedito finora ogni iniziativa in materia di salario minimo potrebbe forse essere superata qualora fosse approvata la proposta di direttiva europea da tempo avanzata dalla Commissione e arrivata in dirittura d’arrivo.
Le due strade indicate dalla proposta per garantire salari adeguati, una legislazione sui minimi retributivi e l’utilizzo rafforzato della contrattazione collettiva, sono presentate dalla Commissione come fra loro alternative.
In realtà tali soluzioni non sono necessariamente alternative, tanto è vero che coesistono in vari paesi (Francia, Germania, Spagna). Tale compresenza riflette il fatto che esse hanno strumentazione e funzioni diverse.
Il salario minimo legale nella versione prevalente adottata in Europa serve a garantire una base retributiva uniforme ai lavoratori di tutti i settori produttivi al fine di proteggerli in egual misura dalla povertà. Il rafforzamento delle retribuzioni stabilite dai contratti collettivi, tipicamente con strumenti di estensione erga omnes della loro efficacia, garantisce trattamenti salariali ai vari livelli corrispondenti ai diversi equilibri contrattuali esistenti nei diversi settori.
La differenza degli strumenti ha anche conseguenze quantitative, perché le analisi comparate indicano che i salari minimi fissati dalla contrattazione risultano mediamente più alti di quelli fissati dal salario minimo legale. La scelta adottata dalla proposta di proporre le proposte come alternative ha carattere tattico, in quanto mira a rispondere alle diverse tradizioni di relazioni sindacali, e quindi di sensibilità, prevalenti nei vari paesi su questa delicata questione.
Tali diversità sono emerse chiaramente nei lavori preparatori della proposta e si riflettono negli schieramenti dei diversi paesi sul merito delle soluzioni. La soluzione legislativa trova opposizione a favore di una via contrattuale al salario minimo da parte di quei paesi, in primis gli scandinavi e l’Italia, che hanno una forte tradizione di contrattazione collettiva autonoma.
La scelta fra le due soluzioni proposte cui sono chiamati gli Stati membri, compreso il nostro, ha non poche conseguenze di merito.
Mi limito a ricordare che la proposta contiene indicazioni stringenti affinché i salari minimi legali siano fissati a livelli adeguati, anche perché in non pochi Stati membri tali minimi non garantiscono ai lavoratori un reddito sufficiente a raggiungere la soglia della povertà. Tant’è vero che il numero di lavoratori poveri ricordato dalla Commissione situato al di sotto di tale soglia, ha raggiunto il 10%. Per di più le rilevazioni ufficiali citati dalla relazione alla proposta indicano che un lavoratore europeo su sei è qualificabile come low wage earner, cioè riceve un salario inferiore ai 2/3 del salario mediano.
Nella ipotesi in cui l’Italia intendesse dare seguito all’iter per introdurre un salario minimo legale, dovrebbe adeguarsi ai criteri e ai livelli di adeguatezza fissati. Inoltre sarebbe opportuno prevedere la attivazione di procedure formali di coinvolgimento delle parti sociali, che la Commissione ritiene essenziale per garantire che il salario minimo sia adeguato secondo la valutazione dei principali stakeholders. Non sarebbe sufficiente quindi la attuale formulazione di alcuni progetti di legge, compreso quello a firma Catalfo (AS 658), che senza prevedere nessuna procedura di consultazione con le parti sociali, stabilisce in ogni caso una soglia minima salariale (di 9 euro).
8) Condizioni per applicare in Italia la via contrattuale al salario minimo
La approvazione imminente della direttiva europea spingerà, mi auguro, ad accelerare i tempi di decisione su questa travagliata materia, facendo tesoro della prospettiva aperta dall’Europa.
Se le maggiori organizzazioni rappresentative delle parti sociali mantengono la loro contrarietà alla introduzione del salario minimo legale, dovrebbero dare corso al percorso contrattuale indicato dalla direttiva e contribuire col governo a costruirne i presupposti fondamentali
Quanto alle condizioni necessarie richieste dalla direttiva, richiamo l’attenzione su un punto dirimente non sempre adeguatamente considerato, cioè al tasso di copertura del 70% (nell’ultima versione elevato a 80%) dei contratti collettivi nazionali che la Commissione richiede affinché la via contrattuale proposta sia considerata rispondente agli obiettivi.
Al riguardo va precisato che il riferimento al tasso medio di copertura dei contratti nazionali per valutare la idoneità del sistema non è sufficiente e può essere fuorviante. Su questo punto è pertinente il riferimento della proposta al “livello settoriale o intersettoriale” dei contratti nazionali, perché la copertura dei contratti nei singoli settori può essere alquanto diseguale e non arrivare sempre alla soglia dell80%.
Sulla diffusione e sulla copertura dei contratti nazionali non esistono in Italia indicazioni complete, perché i nostri sistemi di rilevazione non sono ancora a regime. Ma le informazioni già disponibili confermano la esistenza di non poche disparità.
Dall’archivio dei contratti gestito dal Cnel si rileva che il tasso di copertura dei contratti stipulati dalle organizzazioni più rappresentative nei principali settori è in effetti superiore alla soglia indicata dalla proposta di direttiva. Ma in altri settori non è così; una parte dei contratti minori presenti al Cnel, molti di consistenza ignota, presenta un elevato rischio di dumping salariale.
Tale rischio è confermato da diverse rilevazioni, da varie ricerche Istat e Banca d’Italia, da cui risulta che in molti settori, specie di servizi, non solo il tasso di copertura stimato dei contratti è molto basso, ma è anche alto il tasso di evasione ed erosione di questi contratti. Di conseguenza le quote di lavoratori con retribuzioni inferiori ai minimi stabiliti dai contratti collettivi più rappresentativi e di fatto non coperti dai minimi sono consistenti con punte oltre il 20% nei servizi alle imprese, agricoltura, alberghi e ristorazione alimentare, vigilanza. Questi dati sono riferiti al periodo pre-pandemia e si può presumere che non siano migliorati, anzi che possano essersi aggravati a seguito della crisi Covid. Tanto più che i fattori determinanti queste condizioni di bassi salari sono strutturali, legati in parte ai livelli di produttività di questi settori, alla dimensione delle imprese e al ridotto potere di contrattazione del sindacato.
Non si può dire allora che il nostro sistema contrattuale soddisfi del tutto i requisiti richiesti dalla ipotesi di direttiva, né che l’Italia possa essere esentata dalla necessità di intraprendere i piani di azione sollecitati dalla Commissione per rafforzare la contrattazione collettiva nei settori critici.
La proposta della Commissione non precisa con quali strumenti debba essere garantito il tasso di copertura contrattuale richiesto. Ma la estensione erga omnes dei contratti è la sola soluzione che garantisca la capacità del sistema negoziale di offrire una garanzia salariale equivalente a quella offerta dai minimi legali.
La soglia del 70% di copertura contrattuale indicata dalla Commissione non realizza lo stesso risultato, ma è stata fissata, con evidente compromesso, in base alla ipotesi che una simile diffusione permetta comunque alla contrattazione di esercitare una influenza generale di innalzamento dei salari minimi.
8) Estensione dei minimi salariali dei contratti collettivi maggiormente rappresentativi: requisiti e modalità
Come ho già sostenuto altrove, sarebbe opportuno, ed è possibile, riservare l’intervento sui minimi salariali a quei settori in cui fosse accertata la carenza di copertura contrattuale (è una ipotesi teorica) o una copertura inferiore al livello chiesto dalla direttiva oppure anche un tasso di evasione tale da pregiudicare la effettività della tutela contrattuale. Si tratta di un accertamento difficile, ma non impossibile, che andrebbe condotto con il coinvolgimento delle parti interessate e con una certificazione del Ministro del lavoro o del Cnel.
Un intervento che prevedesse l’intervento sui minimi solo nei settori dove la contrattazione collettiva non raggiunge la copertura effettiva del 80% non inciderebbe negativamente sugli equilibri del sistema contrattuale, anzi lo rafforzerebbe e sosterrebbe la azione sindacale nei settori deboli.
Una simile soluzione non trova ostacoli giuridici insormontabili e viene adottata in altri paesi.
Gli ordinamenti europei che prevedono meccanismi di estensione generale in tutti o in parte dei contratti collettivi procedono in modo selettivo; cioè tengono conto delle condizioni dei diversi settori e dei caratteri della contrattazione ad essi relativa, fra cui il grado di copertura che il contratto realizza per forza propria.
Una ipotesi di soluzione ispirata a queste considerazioni è oggetto di valutazione anche in sede ministeriale ed è prospettata nella relazione del gruppo di lavoro coordinato da Andrea Garnero sul contrasto alla povertà lavorativa. Tale ipotesi è proposta come forma di sperimentazione limitata a specifici settori, identificati dalle parti con l’ausilio delle istituzioni competenti, dove i livelli retributivi risultino particolarmente bassi.
Si tratterebbe di stabilire meccanismi legali (da precisare) che prendano a riferimento i minimi salariali (nelle voci da definire in dettaglio) stabiliti dai contratti collettivi nazionali stipulati dalle organizzazioni maggiormente rappresentative, al fine di dare loro efficacia generale.
L’ erga omnes salariale selettiva così ipotizzata non esaurirebbe gli interventi necessari, e prospettati dalla proposta di direttiva, per rafforzare la capacità negoziale delle parti sindacali.
Il rafforzamento e la estensione dei diritti del lavoratori con la sanzione di una base comune di tutele per ogni forma di lavoro, restano una parte essenziale della legislazione di sostegno anche del sindacato. Ma resta da riscrivere soprattutto la parte sindacale della normativa, sia precisando le regole fondamentali del sistema, sia promuovendo condizioni di contesto economiche e sociali favorevoli (e non ostative, quali oggi spesso prevalenti), all’attività sindacale e alla piena espressione della voce dei lavoratori nell’arena sociale e politica.
Sottolineo il fatto che questi strumenti di promozione del sindacato, per essere adeguati alle sfide del momento presente, non possono limitarsi all’ambito delle imprese, tanto meno delle grandi fabbriche, perché questo non è più l’unico terreno dove si confrontano oggi le forze sociali ed economiche e si determinano le condizioni da cui dipende l’esito.
Le politiche utili per promuovere l’azione collettiva e in generale la causa del lavoro devono misurarsi su obiettivi che tengano conto degli interessi di costituencies più ampie di quelli espressi dal lavoro dipendente e che sappiano interloquire con le istituzioni non solo negli ambiti lavoristici, ma in tutte le sfere pubbliche influenti sul lavoro e sull’occupazione.
Ma soprattutto occorre ribadire che il presupposto per dare seguito alle indicazioni della Commissione, in particolare alla estensione selettiva erga omnes dei minimi contrattuali, è che siano individuati criteri univoci e condivisi di rappresentatività di ambedue le parti negoziali.
I criteri fin qui utilizzati sulla base di generiche indicazioni legislative, in particolare quelle della legge istitutiva del Cnel, sono alquanto incerti e di difficile applicazione, come mostrano le oscillanti decisioni della giurisprudenza chiamata a esprimersi in proposito e le difficoltà incontrate dalla stessa Presidenza del Consiglio nella selezione delle organizzazioni titolate a designare i consiglieri del Cnel.
Come ho già accennato, la definizione di tali criteri spetta in primis all’accordo fra le parti interessate. La strada seguita dalle organizzazioni sindacali con il Testo Unico del 2014 andrebbe condivisa più ampiamente sul versante sindacale e dovrebbe essere seguita per ricercare criteri di rappresentatività anche delle organizzazioni datoriali.
Ma come ho già rilevato, la capacità di tali accordi di imporsi per forza propria esiste nei settori dove le organizzazioni delle parti sono sufficientemente consolidate per farle rispettare da tutti, ma non in altri settori dove queste regole possono essere contestate da altre organizzazioni interessate a negoziare termini diversi, spesso fuori dalle regole e al ribasso.
In tale contesto, ben riscontrabile nelle nostre relazioni industriali, non vedo altro modo se non quello di intervenire per legge e, vorrei precisare, con una legge che dia efficacia generale ai criteri di rappresentatività in coerenza con le indicazioni concordate fra le parti.
9) Tutele per il lavoro autonomo ed equo compenso
Le considerazioni fin qui svolte, come tutto il dibattito sul salario minimo, si riferiscono al lavoro dipendente. Ma gli anni recenti, da ultimo la crisi Covid, hanno mostrato la vulnerabilità anche dei vari tipi di lavoro autonomo, specie quelli di tipo tradizionale, che in Italia hanno raggiunto dimensioni maggiori delle medie europee, coprendo anche forme di attività falsamente autonome.
Lo confermano varie ricerche, fra cui quella svolta da Cnel e Istat su richiesta della Commissione lavoro della Camera dei Deputati. Ne dà conto anche la relazione del gruppo di lavoro presso il Ministero del lavoro coordinato da Andrea Garnero sulle misure di contrasto alla povertà lavorativa, uno sviluppo in parte anomalo della povertà.
La relazione testimonia come i rischi di povertà lavorativa siano strettamente connessi alla forma contrattuale del lavoro, in particolare come la incidenza di tale povertà salga dal 12,1% per chi lavora prevalentemente come dipendente, al 17,1% per chi è in prevalenza autonomo (dati 2017).
A tale situazione hanno dato risposta una serie di misure varate dal governo nel corso della pandemia di tipo emergenziale (bonus vari) fra cui un iniziale forma di sostegno al reddito per i lavoratori autonomi iscritti alla gestione separata dell’INPS (il cd. ISCRO).
L’esigenza più urgente è di mettere a regime questo tipo di sostegno, perché va incontro a una debolezza tipica dei lavoratori autonomi che è quella di rimanere senza alcuna protezione di reddito a fronte di crisi di mercato, oltre che dei fallimenti dei committenti quando questi sono i fornitori prevalenti di lavoro, come spesso capita per i lavoratori autonomi economicamente dipendenti.
Inoltre occorre riconoscere anche ai lavoratori autonomi il diritto di associarsi e di contrattare collettivamente che è stato finora negato dalla Corte di giustizia europea, in quanto ritenuto contrario al principio della libera concorrenza.
Una simile posizione è stata criticata in quanto basata su una visione distorta della posizione di questi lavoratori che hanno in comune con i lavoratori dipendenti la esigenza di essere tutelati dalla legge nei loro diritti fondamentali e di disporre di strumenti di autotutela contrattuale a sostegno degli stessi diritti.
La necessità di porre rimedio a questa situazione di debolezza e di riconoscere il diritto a negoziare collettivamente anche ai lavori autonomi, a cominciare da quelli economicamente dipendenti, è riconosciuto dalla legge di altri paesi (ad es. Germania) ed è ora affermato anche dalla Commissione europea che sta predisponendo al riguardo un apposito provvedimento.
Per quanto riguarda la normativa italiana essa è alquanto carente nella tutela al lavoro autonomo. La normativa della legge 81 /2017, pur innovativa, risulta insufficiente per molti aspetti, a cominciare dalla tutela dei compensi di questi lavoratori, per i quali secondo la giurisprudenza prevalente non vale il principio dell’art 36 Cost. sulla retribuzione equa e sufficiente.
Una prima regolazione in proposito è stata introdotta per gli onorari degli avvocati con la normativa sull’equo compenso, sulla cui spinta si stanno moltiplicando le proposte di estendere un’analoga tutela ad altre categorie di professionisti.
La contrattazione collettiva ha cominciato a operare, ma marginalmente e con scarsa diffusione, per alcune categorie di lavoratori autonomi economicamente dipendenti da committenti forti (i cd. riders in primis).
In attesa che si sviluppi e venga promossa per questi lavoratori la contrattazione collettiva, il legislatore potrebbe intervenire anzitutto stabilendo anche per i lavoratori autonomi il diritto a un equo compenso, eventualmente per quelli economicamente dipendenti, parametrandolo ai minimi stabiliti dai contratti collettivi di settori affini, sul modello previsto dalla normativa inglese per i workers.
In conclusione merita sottolineare che la sanzione di minimi salariali adeguati, pur essenziale, non è tuttavia sufficiente a sollevare dalla povertà i lavoratori, subordinati e autonomi.
Come rileva bene la relazione della Commissione Garnero sopra citata, a questo fine serve una serie di politiche in grado di influenzare gli equilibri del mercato: politiche macroeconomiche per migliorare la composizione strutturale del nostro sistema produttivo, politiche di istruzione e formazione per aumentare la occupabilità, politiche attive per facilitare l’incontro fra domanda e offerta di lavoro, politiche di sostegno alla contrattazione collettiva e di regolazione del lavoro, in particolare delle forme di lavoro atipico.