Testo integrale con note e bibliografia
1.La questione salariale: non solo adeguatezza ma equità dei livelli minimi
L’ampiezza e la ricchezza del dibattito accademico sulla retribuzione adeguata – a partire dall’accurata ricostruzione della storia costituzionale del “giusto salario” sino agli studi dottrinali pionieristici e tuttora fondamentali - sono inversamente proporzionali alle resistenze sindacali e alle esitazioni del legislatore italiano rispetto all’introduzione d’una garanzia salariale minima.
Gli sviluppi legislativi che hanno caratterizzato la maggioranza dei Paesi europei non hanno influito sulla prospettazione domestica: questa, infatti, continua a fondarsi sul pilastro della tutela collettiva e sulla buona diffusione (settoriale e nazionale) della contrattazione nella sua riconosciuta funzione di autorità salariale. Tant’è vero che, di fronte all’accordo politico raggiunto sulla proposta di Direttiva n. 682/2020, si ha premura di sottolineare che non c’è alcun obbligo di adottare una tutela legale della retribuzione, semmai il legislatore europeo si rivolge ai Paesi che hanno introdotto il salario minimo legale per imporre loro il rispetto di precisi indicatori di adeguatezza (dai quali sarebbero esonerati, invece, i trattamenti retributivi fissati dalla contrattazione collettiva).
Resta il fatto che l’intesa sancita dai co-legislatori europei segna un mutamento di rotta nella politica dell’Unione: l’attenzione verso la povertà lavorativa e le disuguaglianze retributive, dopo anni di austerità e di moderazione salariale, può rendere più complicato per il sistema giuridico italiano continuare a giustificare le proprie incrollabili specificità, trascurando gli obiettivi della Direttiva in itinere.
Se è vero che le sollecitazioni del legislatore europeo hanno favorito una ripresa del dibattito domestico, sono soprattutto le debolezze e le criticità endogene dell’assetto contrattuale collettivo - accentuatesi nel corso del tempo anche a causa delle tendenze dell’economia verso settori meno sindacalizzati - a suscitare una seria riflessione sui livelli salariali . I fattori di crisi sono emersi con più evidenza durante il periodo della pandemia, quando l’emergenza sanitaria ed economica ha particolarmente inciso su alcuni settori (commercio, servizi e terziario) già caratterizzati da bassi redditi e da forme di lavoro flessibile, ma non si può negare che la polarizzazione dell’occupazione e i divari salariali siano fenomeni ormai strutturali del mercato del lavoro italiano.
I presupposti e le condizioni di partenza per un’azione di contrasto dell’erosione dei salari sono largamente condivisi da prospettive economiche e giuridiche. Del resto, i costi sociali e ordinamentali di una condizione inerziale appaiono molto elevati: da un lato, emerge un forte disorientamento della giurisprudenza per la difficile tenuta dei principi dell’art. 36 Cost. rispetto ai contratti collettivi al ribasso e al dumping salariale; dall’altro, si registra una crescente pressione legislativa per la definizione di salari minimi in determinati ambiti produttivi (come, ad es., nel lavoro cooperativo, nel terzo settore, nei contratti pubblici, nei lavori edili), oppure a favore di specifiche aree di lavoro atipico e di sottoprotezione sociale (ad es., lavoratori tramite voucher e riders autonomi).
Le riforme sinora circoscritte ad alcuni settori e alle fasce marginali del mercato del lavoro non sollevano allarmi perché non interferiscono con la dinamica sindacale. È anche vero, però, che simili interventi non risolvono, di per sé, la questione dell’adeguatezza della retribuzione ex art. 36 Cost. e non impediscono la rincorsa al ribasso persino all’interno del sistema sindacale confederale. Va aggiunto che la segmentazione del mercato del lavoro generata da interventi specifici e settoriali, privi di effetti sistematici, non contribuisce a migliorare l’equità complessiva.
Accanto al principio di adeguatezza si colloca, infatti, il tema più generale dell’equità, evocato dalla proposta europea e soprattutto dalla relazione del Parlamento ( ). Il diritto ad un’equa retribuzione sancito dalle fonti sovranazionali (spec. art. 4 Carta sociale; art. 31 Carta dei diritti fondamentali dell’Ue) viene confermato dalla Direttiva, là dove sottolinea l’essenziale finalità di tutela sociale e di prevenzione della povertà lavorativa svolta dal trattamento minimo (Cons. 7). Con l’ulteriore precisazione che «i salari minimi sono considerati adeguati ed equi se migliorano la distribuzione salariale del Paese e se consentono un tenore di vita dignitoso» (Cons. 21). Va condivisa, infatti, l’idea che la nozione introdotta dalla Direttiva assume un contenuto «sostanzialista» ( ): prescinde cioè dalla strumentazione giuridica utilizzata, ma deve comunque «garantire che tutti i lavoratori ricevano salari adeguati ed equi» (Cons. 5).
Le implicazioni in termini di equità redistributiva sono all’attenzione soprattutto della letteratura economica, che ha evidenziato la progressiva riduzione della quota salari sul PIL, a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, con effetti negativi sulla crescita oltre che sulla sostenibilità del sistema pensionistico e di welfare. Stime e analisi affidabili concordano sull’esigenza di azioni correttive per colmare il divario reddituale (e pensionistico) a svantaggio soprattutto delle donne e dei giovani, che rappresentano le categorie più colpite dalla precarietà retributiva e del lavoro ( ). In termini macro-economici si prospetta una ricaduta favorevole anche sulla domanda interna e sulla produttività, posto che i bassi salari tendono a favorire investimenti labour intensive, a scarso contenuto tecnologico e d’innovazione ( ).
Viceversa non sembrano sostenute da conferme né da verifiche empiriche le diffidenze più comuni espresse dal mondo sindacale: in termini di fuga dalla contrattazione collettiva, di svuotamento dei contenuti negoziali, o peggio, di delegittimazione e caduta del tasso di sindacalizzazione ( ). Le esperienze straniere e la letteratura comparata certificano che un intervento eteronomo in materia retributiva non penalizza il ruolo sindacale e il salario minimo «più che un sostituto, possa costituire un valido complemento alla contrattazione collettiva» ( ).
2. Sulle ipotesi regolative: un approccio combinato per la definizione del livello retributivo minimo
Dunque, come superare le diffidenze rispetto al possibile esercizio della competenza legislativa e le resistente che impediscono di allineare il nostro Paese agli obiettivi sanciti dalla proposta europea ?
Come hanno osservato i commentatori, non v’è dubbio che la Direttiva preveda un significativo sostegno alla regolazione collettiva, ritenendola essenziale per promuovere la definizione dei salari e per conseguire le finalità sociali che assumono i livelli minimi in tutti i Paesi dell’Unione (Cons. 18). Il legislatore europeo sancisce, tra le disposizioni generali, «il pieno rispetto dell'autonomia delle parti sociali, nonché il loro diritto a negoziare e concludere contratti collettivi» (art. 1, par. 1), offrendo un’indicazione di policy nel senso della prevalenza attribuita alla via contrattuale.
Ciò, peraltro, non significa che anche nei Paesi (come il nostro) che hanno un’elevata copertura contrattuale non si renda necessario un rafforzamento delle relazioni collettive per l’accesso dei lavoratori alla garanzia retributiva e per assicurare l’adeguatezza degli standard salariali. È pur vero che la proposta europea non si spinge sino a richiedere specifici requisiti di rappresentatività delle parti sociali né contratti universalmente applicabili, limitandosi a prevedere che la contrattazione sul salario minimo sia «solida e ben funzionante», «costruttiva» e «significativa» (cfr. art. 4). Al contempo, però, la sollecitazione non è neutra e non autorizza necessariamente la conservazione dello status quo, ma spinge anche gli ordinamenti nazionali che scelgono la via contrattuale a favorire il consolidamento della capacità negoziale delle parti sociali.
La base giuridica della Direttiva, che salvaguarda la libertà di scelta degli ordinamenti nazionali, consente al legislatore italiano di orientare la disciplina del trattamento minimo in chiave integrativa rispetto alla competenza sindacale. Si conferma così il ruolo di autorità salariale storicamente svolto dalla contrattazione collettiva e si apre all’ipotesi di un intervento eteronomo per sostenere la diffusione e l’efficacia dei contratti effettivamente rispondenti agli interessi collettivi.
Un simile approccio pare inserirsi senza fratture nel sistema legislativo e giurisprudenziale vigente, in sostanziale continuità con il meccanismo dell’individuazione selettiva del c.d. contratto leader, già introdotto in alcuni settori. Come ha insegnato la Corte costituzionale, il percorso più rispettoso dell’autonomia collettiva può consistere in un sostegno legislativo coerente ai principi dell’art. 36 Cost., che realizzi un rinvio mobile ai livelli minimi stabiliti dai contratti stipulati dai sindacati con una rappresentatività qualificata sul piano nazionale. Il rinvio non condiziona l’autonomia collettiva e ammette, inoltre, una differenziazione dei trattamenti di base per settori e per qualifiche professionali (mentre solleva maggiori perplessità un’eventuale differenziazione per aree negoziali o territoriali) ( ).
La proposta europea non prevede un particolare criterio di adeguatezza, come invece per il trattamento minimo stabilito ex lege (art. 5), limitandosi a stabilire che «il livello dei salari minimi e la percentuale dei lavoratori tutelati sono determinati direttamente dal funzionamento del sistema di contrattazione collettiva e dalla copertura della contrattazione» (Cons. 18). A patto, però, che si tratti di un sistema «ben funzionante»: il che presuppone (quanto meno) la capacità di esprimere genuinamente gli interessi collettivi del lavoro ( ).
Un congegno istituzionale che si fondi sulla sinergia tra legge e fonte negoziale lascia emergere le note criticità connesse all’efficacia erga omnes dei contratti nazionali, pur se circoscritta al livello retributivo di base: a partire dalla definizione degli agenti negoziali qualificati e degli ambiti nei quali s’individua il contratto al quale va attribuita la funzione di parametro del minimo generalmente applicabile.
Un tentativo di superare l’impasse è stato compiuto con la norma che attribuisce all’INPS e al CNEL il monitoraggio del campo di applicazione e del grado di rappresentatività espressa dai contratti nazionali in un determinato perimetro economico-produttivo. La procedura di deposito e indicizzazione secondo codici univoci è intesa a verificare la copertura effettiva e il collegamento con gli ambiti di applicazione (cfr. art. 16-quater, d.l. n. 76/2020, conv. in l. n. 120/2020)( ). La questione, tuttavia, resta delicata: per un verso, si denuncia il fatto che la diffusione ampia o maggioritaria del contratto collettivo in una determinata categoria non garantisce di per sé la qualità e la rappresentatività delle parti stipulanti ( ); per altro verso, non pare completamente accantonato il dubbio sul potenziale conflitto con l’art. 39 Cost.
La questione del rispetto della libertà e del pluralismo sindacale è stata affrontata dalla giurisprudenza costituzionale che ha avallato la legittimità dell’art. 7, c. 4, d.l. n. 248/2007 relativo ai minimi retributivi nel settore cooperativo (sent. n. 51/2015). Quando tuttavia il sostegno legislativo non risulti più limitato ad un particolare settore, ma preveda un’estensione del contratto in modo diretto e uniforme nella categoria, si riaffaccia il sospetto di un aggiramento del vincolo costituzionale ( ).
È probabilmente uno scrupolo eccessivo, ma serve ad introdurre un ulteriore problema, connesso al precedente e ancora più complesso, che riguarda la determinazione per legge del perimetro applicativo del contratto che stabilisce la garanzia salariale minima con effetti erga omnes: anche qui, infatti, si pone con forza il principio costituzionale dell’autonomia delle parti sociali ( ). È lecito presumere che un eventuale intervento legislativo a carattere promozionale potrebbe innescare – finalmente - un processo di razionalizzazione degli ambiti e delle aree contrattuali, così da evitare sovrapposizioni, frammentazioni e intersezioni. Tuttavia, allo stato, il disordine dell’assetto contrattuale rimane ( ).
In verità, la modifica del quadro regolativo dovrebbe indurre a rimeditare anche il raccordo tra la nozione di salario minimo e l’art. 36 Cost. Nella sua lunga storia giurisprudenziale, il tema dell’adeguatezza retributiva ha coinciso con entrambi i principi della sufficienza e della proporzionalità e, secondo questa elaborazione, il dettato costituzionale non riguarderebbe i singoli elementi della retribuzione ma l’intero trattamento economico corrisposto al lavoratore. Come dire che tra il salario minimo contrattuale e il salario costituzionalmente adeguato non esiste sempre un’esatta corrispondenza ( ).
Un’alternativa politico-legislativa, con un impatto più circoscritto e parziale, potrebbe decidere di seguire le indicazioni della proposta europea e di intervenire a sostegno delle relazioni collettive esclusivamente nei settori dove si registra un ridotto tasso di copertura contrattuale (inferiore alla percentuale fissata dalla proposta). In questa prospettiva, l’efficacia erga ommes dei contratti collettivi dovrebbe essere «ritagliata» in modo selettivo sulle esigenze proprie di ciascun settore e sulle specifiche realtà sindacali ( ).
È la scelta che viene accreditata dalle tesi che propendono per una manutenzione minima del sistema collettivo, sul presupposto che nel nostro Paese la contrattazione è praticata in tutti i settori e pertanto soddisfa già i requisiti previsti dalla Direttiva rispetto al tasso di copertura.
Ma, a parte le difficoltà di ponderare la percentuale media di diffusione della contrattazione nazionale (da rapportare a quella stabilita dalla proposta europea) - mancando proprio una chiara delimitazione degli ambiti - si deve fare i conti con un’applicazione alquanto disomogenea. La Direttiva si riferisce ad una copertura rilevante «a livello settoriale o intersettoriale», ma le indagini e i dati disponibili nell’archivio del CNEL evidenziano ampi fenomeni di frammentazione e di scarsa effettività sia sul territorio sia nelle singole categorie.
3. Salario minimo: occorre stabilire una soglia inderogabile ?
Sebbene si ritenga che il nostro ordinamento abbia già centrato l’obiettivo della copertura contrattuale richiesto dalla proposta europea, è improbabile che il sistema delle relazioni collettive riesca ad abbracciare in pari misura tutti i settori e, in particolare, le aree marginali del mercato del lavoro dove proliferano i sotto-salari. Del resto, anche nelle categorie tradizionali e nelle aree contrattuali forti, dove i contratti collettivi possono contare su una maggiore diffusione, si manifestano segnali di debolezza e di erosione della protezione salariale. Non è affatto scontato che i sindacati confederali siano in grado di assicurare ovunque una garanzia retributiva adeguata ex art. 36 Cost. ( ).
Ciò induce a interrogarsi sull’opportunità di integrare l’approccio combinato della legge e del contratto collettivo-parametro, con la previsione di un “salario di garanzia” su base oraria che agisca come una sorta di pavimento inderogabile – vincolante anche per gli attori sindacali - al di sotto del quale il trattamento economico non consente di emancipare il lavoratore dalla condizione di povertà e di marginalità sociale ( ). L’introduzione di una soglia salariale inderogabile e residuale rispetto al livello contrattuale - applicabile in modo uniforme in ragione del riferimento all’equità e alla dignità della persona che lavora - potrebbe alleggerire anche il problema della misurazione del tasso di copertura media dei contratti nazionali nei singoli settori.
La coesistenza di un meccanismo di tutela binario non pare in contrasto con il dettato dell’art. 36 Cost., sebbene ne suggerisca una nuova interpretazione diretta a scindere lo standard dell’adeguatezza retributiva sinora inteso in termini riassuntivi e sintetici. I principi fondamentali in materia risulterebbero così distinti: da un lato, quello della sufficienza, che identifica la soglia legale di garanzia e, dall’altro, quello della proporzionalità che individua il livello salariale fissato dal contratto collettivo, differenziato per categoria e per mansione. Non sembrano giustificati i timori di un appiattimento o uno svuotamento del ruolo giurisprudenziale a presidio della retribuzione costituzionalmente adeguata, perché – nonostante l’introduzione d’una soglia legale di garanzia - il parametro di riferimento salariale resterebbe comunque nella competenza della contrattazione collettiva qualificata, che tiene conto del concorrente principio di proporzionalità.
La questione più controversa, che sta suscitando un vivace dibattito politico e accademico, riguarda tuttavia la determinazione del quantum retributivo a carattere inderogabile. Come sottolinea la letteratura economica, un importo troppo basso avrebbe effetti trascurabili nel contrasto del lavoro povero, mentre un importo eccessivo rischia di avere un impatto negativo sull’occupazione e sulla competitività delle imprese.
È meno fondato, invece, il timore che più spesso viene evocato, e cioè la rincorsa al rialzo dei salari con un effetto distorsivo della scala retributiva complessiva ( ). Proprio al contrario, la relazione che si instaura tra la soglia di garanzia e i livelli retributivi definiti dalla contrattazione potrebbe avere ricadute virtuose, in quanto – precisa la proposta europea (Cons. 18) – là dove «sono previsti salari minimi legali, la contrattazione collettiva sostiene l'andamento generale dei salari e contribuisce quindi a migliorare l'adeguatezza». La soglia inderogabile fissata per legge coincide con il livello di retribuzione irrinunciabile per dettato costituzionale e costituisce la base di partenza per la determinazione della retribuzione adeguata e proporzionata, nella categoria e nella mansione, da parte del contratto collettivo ( ).
La proposta di Direttiva richiama l’utilizzo di «indicatori comunemente impiegati a livello internazionale, quali il 60 % del salario lordo mediano e il 50 % del salario lordo medio», al fine di «orientare la valutazione dell'adeguatezza dei salari minimi in relazione al livello retributivo lordo» (Cons. 21). Resta anche da stabilire quali siano le modalità più opportune per quantificare la soglia minima inderogabile: con il ricorso o meno alla valutazione di un comitato tecnico-scientifico?( ).
Ma, al di là della statistica e dell’esercizio di calcolo – indubbiamente rilevante - non va dimenticato il tema di fondo. E cioè, che la determinazione del livello salariale minimo comporta, in primo luogo, una decisione politica, così come l’eventuale scelta legislativa di fissare (anche) un pavimento retributivo inderogabile, quale garanzia unitaria di equità nel mercato del lavoro italiano.