Testo integrale con note e bibliografia
1. Premessa: garanzia dei minimi e contrattazione pirata.
L’assenza, da un lato, tanto di una contrattazione collettiva con efficacia erga omnes, quanto di una legislazione sui minimi e, dall’altro, l’esponenziale crescita negli ultimi anni della quantità di contratti collettivi di primo livello, sono caratteristiche che rendono l’ordinamento italiano probabilmente unico nello scenario globale. Peculiarità che stanno mettendo a serio rischio la tenuta del sistema di garanzia dei minimi, ancora affidato a quella creativa operazione giurisprudenziale interpretativa, fondata sul presupposto della diretta precettività dell’art. 36 Cost. Operazione che ha ricavato, come noto, un diritto del lavoratore ad una remunerazione minima per il lavoro prestato, saldata dai giudici ai minimi tabellari di cui ai contratti collettivi selezionati ricorrendo al criterio dell’attività effettivamente esercitata dal datore di lavoro .
Si tratta di un’operazione che ha fin da subito presentato diversi limiti e incontrato numerose ed autorevoli voci critiche , ma che nei fatti è stata in grado di garantire il diritto ad una giusta retribuzione (quasi) erga omnes, per lo meno fintanto che nelle diverse categorie si è registrata la presenza di un unico contratto di riferimento, stipulato dalle tre grandi confederazioni sindacali unitariamente .
Rotta l’unità sindacale e, soprattutto, emersa la contrattazione c.d. pirata, il meccanismo giudiziale di garanzia dei minimi retributivi ha incontrato nuove difficoltà: collegate, anzi tutto, al venir meno di un univoco parametro di riferimento di retribuzione costituzionalmente adeguata; ma, soprattutto, all’applicazione al rapporto di lavoro di contratti collettivi che prevedono retribuzioni largamente inferiori a quelle previste dalla contrattazione collettiva mainstream. Difficile, in quest’ultimo caso, per il giudice sconfessare scelte salariali comunque prodotto di una genuina autonomia collettiva. Il rischio è quello di porsi in contrasto con il principio di libertà sindacale, senza trovare adeguato supporto nel mandato ricavabile sull’art. 36 Cost.; un mandato che, diversamente, ad esempio, di quello indirizzato al legislatore, riguarda soltanto l’implementazione del nucleo precettivo minimo della norma costituzionale e che, quindi, solo in casi estremi può portare a cancellare le scelte della contrattazione collettiva. Tant’è che, a quanto consta, quando la giurisprudenza ha aperto ad una revisione al rialzo dei minimi contrattuali, lo ha fatto nella diversa ipotesi dell’applicazione di un contratto collettivo destinato ad un settore diverso da quello riferito all’attività prevalente del datore di lavoro; peraltro, non circoscrivendo il riferimento al parametro dei soli contratti stipulati dai sindacati più rappresentativi .
L’emergere della contrattazione collettiva pirata ha quindi spiazzato l’operazione giurisprudenziale condotta sull’art. 36. Non esistono dati precisi sul vero rilievo della contrattazione pirata. L’impressione delle organizzazioni sindacali più rappresentative è quello di un rilievo tutto sommato molto marginale. In realtà i dati CNEL suggeriscono un quadro meno rassicurante, come anche è stato notato dalle istituzioni dell’Unione Europea . Basti pensare che secondo l’ultima rilevazione del CNEL, al 31 dicembre 2020 erano presenti nell’archivio dei contratti collettivi nazionali di lavoro ben 933 accordi, con un aumento del 170% negli ultimi dieci anni . Aumento che ha riguardato soprattutto il terziario, distribuzione e servizi; settori nei quali tradizionalmente i salari sono più bassi.
Quanto alla loro copertura, sempre secondo le stime del CNEL , un numero molto ridotto di CCNL – circa 60, quelli siglati dai sindacati più rappresentativi - si applica al 89% di tutti i lavoratori dipendenti; mentre i restanti (quasi 800 contratti) risultano applicati all’11% della platea dei lavoratori subordinati. Tra questi ultimi, gli accordi c.d. pirata rimpiazzano, soprattutto nel settore dei servizi i contratti firmati dai sindacati più rappresentativi per un numero non trascurabile di lavoratori.
Scopo del presente contributo è quello di evidenziare come la soluzione del problema appena sopra evidenziato potrebbe giungere da una legislazione sui minimi (par. 2); ed un importante stimolo alla sua approvazione potrebbe giungere dalla proposta di Direttiva in tema di salari adeguati nell’Unione, ormai in dirittura di arrivo (par. 3). Certo, rimangono da superare i dubbi e le resistenze che, specie sul fronte sindacale, ma anche scientifico, stanno ostacolando il percorso legislativo dei disegni di legge in tema di salario minimo attualmente pendenti di fronte al Parlamento (par. 4). Il quadro comparato è in grado di fornire indicazioni utili in questo senso (par. 5).
2. I vantaggi di una legislazione sui minimi.
Come anticipato, una soluzione al far west contrattuale potrebbe passare attraverso una legge sul salario minimo . Una legge che, come anche previsto dal DDL “Catalfo” , anche nella sua versione aggiornata , sia in grado di combinare una valorizzazione della contrattazione collettiva salariale ad opera delle organizzazioni sindacali e datoriali più rappresentative ad una misura salariale minima inderogabile di legge.
Il riferimento sotto il primo aspetto è a quelle soluzioni già rodate in specifici ambiti settoriali, con diverse varianti. Un esempio è l’abrogato art. 63, comma 1, d.lgs. n. 276/2003 dedicato al lavoro a progetto; ancora l’art. 30, comma 4 del c.d. codice degli appalti pubblici (d.lgs. n. 50/2016); l’art. 3, d.lgs. n. 136/2016 in tema di distacco transnazionale in territorio italiano; o ancora al comma 4 dell’art. 7 del d.l. n. 248/2007 (convertito in legge n. 31/2008) avente ad oggetto il lavoro nelle società cooperative. Proprio quest’ultima disposizione - a tenore della quale «in presenza di una pluralità di contratti di contratti collettivi della medesima categoria, le società cooperative che svolgono attività ricomprese nell’ambito di applicazione di quei contratti di categoria applicano ai propri soci lavoratori […] i trattamenti economici complessivi non inferiori a quelli dettati dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria» - è di gran lunga più interessante: perché prevede una soluzione espressamente finalizzata a contrastare il dumping salariale promosso dagli accordi pirata, che ha il vantaggio di essere stata abbastanza di recente vagliata e promossa dalla Corte Costituzionale . Nell’ottica della garanzia di un salario minimo universale, si tratterebbe semplicemente di generalizzare il modello “cooperative” a tutti i settori e combinarlo con disposizioni sulla rappresentatività per superare il problema, non banale, dell’identificazione dei contratti collettivi di riferimento.
Quanto, invece, al saggio minimo legale di salario, l’opzione dovrebbe andare verso un salario orario minimo intercategoriale. Il processo di determinazione della sua misura non sarebbe rimesso, se non in minima parte e per l’atto formale di emanazione, nelle mani dell’esecutivo o del parlamento, ma dovrebbe coinvolgere le parti sociali. Coinvolgimento richiesto non tanto per garantire la legittimità costituzionale della soluzione , quanto la sua affidabilità ed effettività, in relazione ai vantaggi che la stessa potrebbe produrre. Vantaggi che coinvolgono complesse valutazioni circa gli effetti, desiderati ed indesiderati, che il salario minimo è in grado di produrre, oltre che sull’adeguatezza delle retribuzioni, anche su occupazione, competitività delle imprese, spesa sociale ad integrazione dei bassi redditi, gap salariali che coinvolgono i gruppi più vulnerabili (donne, giovani, migranti, disabili, ecc.).
Attribuendo efficacia vincolante erga omnes ai minimi stabiliti dalla contrattazione collettiva mainstream, si costruirebbe un argine efficace contro la concorrenza al ribasso esercitata dalla contrattazione pirata, valorizzando il ruolo della contrattazione collettiva del sindacato più rappresentativo. Resterebbero, però, aperti alcuni problemi, primo fra tutti quello di sostenere la dinamica interna delle negoziazioni salariali collettive che, come i dati certificano, rimane in diversi settori piuttosto fiacca. A quest’ultimo potrebbe, quindi, ovviare la concomitante presenza di un salario minimo di legge che, anche secondo le valutazioni delle parti sociali coinvolte nel processo di fissazione, fungerebbe da pungolo dal basso rispetto alle contrattazioni salariali nei settori più “poveri”.
3. Le opportunità offerte dalla proposta di Direttiva in tema di salari minimi adeguati.
Una spinta verso una legge sul salario minimo, nella possibile versione appena descritta, potrebbe giungere dalla trasposizione della direttiva su salari adeguati nell’Unione, ormai in fase di approvazione finale . Non per via delle obbligazioni direttamente imposte in questo senso dalla Direttiva . Al contrario, per evitare di incappare nel vuoto di competenza dell’Unione in ambito di retribuzione previsto dall’art. 153.5 TFUE , viene espressamente escluso un obbligo per i paesi membri di introdurre tanto un salario minimo legale quanto un meccanismo per l’estensione dell’efficacia soggettiva dei contratti collettivi. Bensì, attraverso il vincolo a sviluppare strumenti efficaci di raccolta dei dati per monitorare la copertura e l'adeguatezza dei salari minimi, da comunicare annualmente alle istituzioni europee. Si tratta di un adempimento coessenziale all’implementazione della direttiva, tale da permettere di individuare gli interventi necessari su salari e contrattazione collettiva . Il monitoraggio dovrebbe, inoltre, permettere alle istituzioni europee un controllo sulla situazione salariale dei Paesi membri, conducendo in ultima istanza a linee integrate per la crescita e l’occupazione incanalate nel Semestre Europeo.
Più nel dettaglio, per gli ordinamenti dove non è presente un salario minimo legale, quale appunto il nostro, le situazioni da monitorare riguardano essenzialmente il tasso di copertura della contrattazione collettiva ed i livelli dei salari per i lavoratori non coperti. Ne consegue che i paesi membri dovranno dotarsi di meccanismi ufficiali – allo stato inesistenti, non solo in Italia - di misurazione della copertura della contrattazione collettiva. Tanto permetterà da noi di cogliere finalmente il vero rilievo della contrattazione pirata . Ma non solo. Potrebbe, appunto, rappresentare l’occasione per un intervento legislativo sulla rappresentatività, combinato ad una legge sul salario minimo che, nei termini sopra evidenziati, faccia riferimento alle misure salariali previste dai contratti di categoria siglati dai sindacati comparativamente più rappresentativi.
4. Le resistenze verso una legge sul salario minimo.
Per quanto la situazione di contesto paia dunque essere favorevole ad una legislazione sui minimi, resta l’ostacolo, forse il più rilevante, rappresentato dalle perplessità dei sindacati maggioritari verso un intervento del legislatore sui salari. Opposizione che sicuramente include una sottovalutazione del problema della contrattazione pirata. Ma che è soprattutto motivata dalle preoccupazioni circa il pericolo di fuga dalla contrattazione collettiva e indebolimento del sindacato che una misura salariale minima di legge potrebbe causare. Pericolo, questo, temuto anche dai sindacati dei paesi nordici dove, al pari del nostro, un salario minimo legale non esiste .
Il ragionamento dei sindacati italiani maggioritari parte dall’idea che qualora il legislatore prevedesse un salario minimo questo diventerebbe immediatamente il nuovo riferimento obbligato della retribuzione costituzionalmente adeguata, in luogo del salario, più alto, previsto dai contratti collettivi . La contrattazione nazionale di categoria si ritroverebbe così di colpo svuotata di quella che è la sua principale funzione, appunto la determinazione di minimi salariali inderogabili . Il che si riverbererebbe immediatamente sul campo di applicazione del contratto collettivo di categoria, la cui applicazione (quasi) generalizzata è stata fin qui in buona parte garantita dall’impossibilità per il datore di lavoro di svincolarsi dal rispetto dei minimi tabellari, in ragione dell’operazione giurisprudenziale condotta sull’art. 36 Cost. Così. L’effetto diretto ed immediato sarebbe una “decostituzionalizzazione” dei minimi previsti dai contratti collettivi, che rischierebbe di risolversi in una fuga dal suo ambito di applicazione, bastando al datore di lavoro, per essere in regola con la Costituzione, garantire il solo salario minimo legale . Per arginare tale fenomeno, le parti sociali dovrebbero, a loro volta, cercare di negoziare retribuzioni più basse, vicine al minimo di legge, così da mantenere il contratto collettivo “competitivo” .
Il disturbo recato dal salario minimo si spingerebbe, poi, fino a coinvolgere la dinamica interna delle negoziazioni collettive salariali anche sotto un ulteriore aspetto: il saggio minimo di legge rischierebbe di rappresentare un benchmark per la delegazione datoriale, utile a contenere le rivendicazioni sindacali . Situazione che condurrebbe in ultima istanza ad un danno all’immagine delle parti sociali, con un declino inesorabile del tasso di adesione sindacale.
In altra sede si è evidenziato come i rischi appena descritti appaiano ampiamente sopravvalutati ed in buona parte ingiustificati . E’ sufficiente qui aggiungere che la soluzione legislativa sopra prospettata opererebbe in senso contrario a quello temuto, valorizzando il ruolo del sindacato. Rendendo vincolanti i minimi di categoria negoziati dalle organizzazioni più rappresentative verrebbe di fatto escluso un pericolo di fuga dalla contrattazione collettiva verso l’applicazione del minimo di legge. E quanto a quest’ultimo, il coinvolgimento delle parti sociali nella sua determinazione restituirebbe alle stesse un ruolo di primo piano nelle politiche macro-economiche e consentirebbe di supportare le negoziazioni salariali nei settori a basse retribuzioni.
Quanto poi al disturbo degli accordi pirata, la combinazione di soluzioni prospettata è in grado di ridurre, se non addirittura azzerare, il dumping salariale prodotto da tali accordi.
5. Gli spunti dal quadro comparato.
Il laboratorio rappresentato dal diritto comparato può fornire qualche indicazione utile a valutare la fondatezza dei timori avanzati dai sindacati italiani e circa i prevedibili effetti che l’introduzione di un salario minimo legale potrebbe produrre sotto i vari aspetti coinvolti: adeguatezza dei salari e disparità salariali, occupazione, competitività delle imprese.
Un’avvertenza preliminare è però d’obbligo. Abbiamo già anticipato la peculiarità del sistema di garanzia dei minimi utilizzato dall’ordinamento italiano. Tanto suggerisce molta cautela nel valutare le esperienze di altri ordinamenti, specie, laddove, si cerchi di utilizzarle in una chiave per così dire predittiva, in un’ottica de iure condendo. Nel senso, cioè di scartare a priori certe soluzioni che potrebbero replicare da noi problemi già emersi altrove, ovvero di proporre l’adozione di esperienze virtuose. Esiste, infatti, il rilevante pericolo di rigetto che un trapianto di istituti tra ordinamenti nazionali diversi può incontrare. Pericolo che, nell’ambito delle politiche salariali, è forse ancora più accentuato che altrove, andandosi ad inserire in sistemi di relazioni industriali tra loro molto diversi. Secondo il celebre insegnamento di Otto Khan Freund, proprio il rigetto da parte di gruppi organizzati, tra cui ovviamente anche le organizzazioni sindacali, in grado di influenzare il law-making o decision-making process può rappresentare il primo fattore di insuccesso del trapianto .
Tenendo a mente questa premessa, si ritiene comunque possibile ricavare qualche indicazione utile innanzi tutto dall’ordinamento svedese. La Svezia è, infatti, il paese che sulla carta si presenta più simile all’Italia, mancando tanto un salario minimo legale, quanto una contrattazione collettiva munita di efficacia erga omnes. E’, inoltre, presente una forte opposizione di principio del sindacato verso un’interferenza del legislatore sulla regolazione delle retribuzioni. Tutto questo nell’ambito di un sistema di relazioni industriali autonomo per eccellenza, fondato su un alto tasso di densità sindacale (circa il 70%) e da una parallela significativa organizzazione dei datori di lavoro (circa l’87% è iscritto ad un’associazione datoriale). Tanto si riflette positivamente sulla copertura della contrattazione collettiva, stimata intorno al 90%, favorita dall’obbligo per i datori di lavoro di applicare a lavoratori sindacalizzati e non il contratto collettivo, pur in assenza, si diceva, di un meccanismo di estensione della sua efficacia soggettiva .
L’alto grado di organizzazione delle relazioni industriali svedesi coinvolge anche la fissazione dei minimi salariali. Le parti sociali hanno cercato di garantire competitività alle imprese svedesi rispetto ai principali partner commerciali stranieri, Germania in primis, impostando le negoziazioni salariali su un “decentramento coordinato” . In questo modo, la contrattazione collettiva salariale riesce a tenere d’occhio la competitività delle imprese, garantendo al contempo salari tradizionalmente molto alti, i cui minimi si collocano abbondantemente al di sopra della soglia del lavoro povero (60% del salario mediano) . Al vertice del sistema si colloca un accordo interconfederale (Industriavtalet), diretto a prevedere un limite massimo agli incrementi salariali (una sorta di wage norm). I contratti di categoria nel settore privato e, soprattutto, per i colletti blu garantiscono quindi i minimi di retribuzione. A livello locale, ma anche individuale, sono invece negoziate le retribuzioni per il settore pubblico e per una buona fetta dei colletti bianchi .
In un sistema che funziona bene, il sindacato svedese è comprensibilmente storicamente contrario all’introduzione di una misura legale di salario minimo. Come per le controparti italiane, la preoccupazione principale è quella di mantenere a favore del sindacato il ruolo di principale attore rispetto alla tutela del lavoro. Soluzioni che ne offuscassero in qualche modo il ruolo sono inevitabilmente viste come un potenziale ostacolo al mantenimento di un’alta sindacalizzazione. E’ ancora fresca nella memoria dei sindacati svedesi l’esperienza di fine anni ’90, quando la riforma del sistema di assicurazione sociale contro la disoccupazione, scollegata da quel momento all’adesione sindacale, provocò un crollo repentino di circa 15 punti percentuali del tasso di densità sindacale .
E’ anche, però, vero che la maggior parte dei sindacati nordici – quindi non solo quelli svedesi – si dichiara favorevole ad un salario minimo basato sui contratti collettivi ; soluzione sopra proposta e che non metterebbe in discussione il ruolo di principale autorità salariale della contrattazione collettiva.
Altro caso che appare significativamente rilevante per il dibattito italiano è indubbiamente quello tedesco, alla luce del quadro di contesto entro cui l’introduzione del salario minimo legale in Germania è andata di recente ad inserirsi . Quando è entrato in scena (gennaio 2015), la copertura della contrattazione collettiva era scesa sotto il 50%, a valle di una continua e costante diminuzione iniziata con la riunificazione tedesca . Le ragioni di tale declino sono ricollegabili, innanzi tutto, ad un indebolimento del sindacato, con un tasso di adesione sceso intorno al 18%, complice la diffusione dei c.d. mini-jobs e, più generale, di quel processo di flessibilizzazione del mercato del lavoro, prodotto delle riforme Hart intervenute tra gli anni 2003-2005. Da qui, l’incapacità del sindacato tedesco, particolarmente pronunciata nei settori dei servizi, di portare i datori di lavoro al tavolo della contrattazione collettiva o di costringerli all’applicazione di un contratto collettivo .
Esiste sin dal 1949 in Germania un meccanismo per l’estensione dell’efficacia dei contratti collettivi che passa per un atto del Ministro del lavoro. Un’opportunità usata molto di rado per via degli stringenti requisiti (soprattutto di copertura dei contratti collettivi) .
Tutto questo ha condotto ad una situazione dei salari che, all’indomani dell’entrata in vigore della legge sul salario minimo, si presentava piuttosto desolante e preoccupante. A metà del decennio scorso la Germania presentava una delle proporzioni di lavoratori poveri più alta d’Europa: circa un lavoratore su quattro aveva una retribuzione al di sotto della soglia del 60% del salario mediano, con disparità salariali macroscopiche tra lavoratori coperti dalla contrattazione collettiva e l’altra metà invece non inclusi .
Anche in Germania i giudici hanno cercato colmare la mancanza di prescrizioni legali sui minimi, tamponando il problema dei bassi salari attraverso un meccanismo simile a quello elaborato dalla nostra giurisprudenza sull’art. 36 Cost. L’appiglio normativo è rappresentato da una norma del codice civile (BGB), riferita ai negozi giuridici contrari al buon costume o a contenuto usuraio. Tuttavia, gli spazi di manovra per i giudici tedeschi si sono rivelati alquanto limitati, di fatto riservati solo ai casi più eclatanti . Tanto che poco hanno potuto nella prevenzione della diffusione dei bassi salari, certificata dai dati sulla povertà lavorativa sopra menzionati.
Ed è dunque nel quadro appena delineato che nel 2014 viene approvata la “legge di sostegno alla contrattazione collettiva” (Tarifautonomiestärkungsgesetz). Oltre a regole volte a rivitalizzare il meccanismo di estensione dell’ambito di efficacia dei contratti collettivi , si è qui prevista, appunto, l’istituzione e la regolamentazione del salario minimo (Gesetz zur Regelung eines allgemeinen Mindestlohns Mindestlohngesetz, in acronimo MiLoG). Un minimo intercategoriale, destinato a tutti i lavoratori subordinati, con poche eccezioni, fissato per la prima volta direttamente dalla legge in euro 8,50 orari. Il meccanismo di adeguamento periodico del saggio minimo di salario previsto dalla legge coinvolge la presenza di una commissione consultiva tripartita, composta da tre commissari indipendenti e sei membri nominati dalle maggiori confederazioni (tre di provenienza sindacale, tre datoriale) . La proposta della Commissione deve bilanciare diverse esigenze, garantendo, da un lato, un’ “appropriata protezione minima ai lavoratori”, senza recare, dall’altro lato, danno all’ “occupazione”, garantendo “la competitività delle imprese” e “tenendo in adeguata considerazione gli sviluppi precedenti dei salari negoziati dalla contrattazione collettiva”. Il Governo è libero di accettare o meno la proposta della Commissione. Non può tuttavia modificarla e, pertanto, in caso di disaccordo, si limiterà a respingerla al mittente.
A sette anni di distanza dalla sua prima introduzione si possono già trarre alcune indicazioni utili circa gli effetti prodotti dal salario minimo legale su povertà, occupazione ed economia. In primissima battuta si è registrato un immediato innalzamento dei salari che ha riguardato circa il 15% dei lavoratori tedeschi, con una conseguente riduzione delle disuguaglianze retributive . Effetto che si è riprodotto in qualche misura ad ogni revisione verso l’alto del saggio minimo di salario, per quanto il livello del salario minimo si sia finora assestato, anche al netto delle diverse revisioni al rialzo, intorno al 43% del salario medio e 48% di quello mediano, confermando la Germania tra i Paesi dell’Europa occidentale con il livello relativo più basso dei salari minimi . Certamente, l’innalzamento secco a 12 euro prospettato dall’attuale governo cambierà completamente la situazione . Nel frattempo, quanto agli effetti sull’occupazione, nonostante le previsioni puntassero in senso contrario, i dati ne hanno evidenziato una crescita, anche tra i lavoratori poco qualificati, primi beneficiari della misura. Effetto probabilmente collegato ad un incremento dei consumi, specie da parte dei lavoratori più poveri . Non solo. Si è anche registrato uno spostamento di molti lavoratori precari verso impieghi di maggiore qualità, stabiliti ed in imprese di dimensioni grandi .
6. Conclusioni
Si sono sopra evidenziate le difficoltà della c.d. via italiana al salario minimo a garantire retribuzioni adeguate a fronte del dirompente e dilagante fenomeno della contrattazione pirata. Si è prospettata l’efficacia che un salario minimo di legge, riferito in prima battuta ai minimi negoziati dai sindacati più rappresentativi, potrebbe dispiegare rispetto al fenomeno. Si è anche evidenziato come la soluzione prospettata debba, però, confrontarsi con la forte avversione sindacale verso un intervento eteronomo del legislatore sui salari. Il quadro comparato, che si è avuto cura di illustrare, ci mostra come l’atteggiamento del sindacato italiano non possa trovare supporto sull’analogo atteggiamento del sindacato svedese. Nonostante le analogie tra gli ordinamenti, soprattutto sotto il profilo dell’assenza di un salario minimo legale, il caso svedese si distingue da quello italiano sotto aspetti di non poco conto. In particolare, per la presenza di un solido e coeso sistema di relazioni industriali e contrattazione collettiva, dove non esiste di fatto il problema dei bassi salari e nemmeno il fenomeno del dumping salariale recato dalla contrattazione pirata. Insomma, due delle patologie, probabilmente le principali, che invece da noi sembrano suggerire l’opportuna introduzione di un salario minimo di legge.
Il caso tedesco appare ancora più significativo nel senso di suggerire la necessità di andare oltre i timori che contornano la misura del salario minimo nel dibattito nazionale. Infatti, anche se il dato sulla copertura della contrattazione collettiva italiana (stimata intorno all’80-85% dall’OCSE) è indubbiamente migliore di quello tedesco, quindi con una garanzia più diffusa dei minimi contrattuali collettivi, la situazione è solo apparente migliore. La presenza di tanti contratti collettivi pirata inquina il dato sulla copertura della contrattazione collettiva in Italia. Non esistono indicazioni certe sulla reale diffusione dell’applicazione dei contratti pirata, ragione per cui, si diceva, è da accogliere con favore l’introduzione del meccanismo di monitoraggio sulla copertura della contrattazione collettiva previsto dalla Direttiva sui salari minimi in fase di approvazione. Tuttavia, la costante crescita del numero degli accordi di primo livello, unitamente ai risultati di alcune indagini empiriche sopra citate, paiono suggerire che il fenomeno non sia proprio marginale. Altro elemento da tenere in considerazione, perché emerso da parecchie analisi sulle retribuzioni, è una notevole difformità in Italia dei livelli salariali tra settori, toccando in alcuni di questi punte molto basse. Una situazione, dunque, che tra bassi salari e copertura probabilmente decrescente della contrattazione collettiva mainstream, all’atto pratico è abbastanza simile a quella che ha spinto il legislatore tedesco all’introduzione di minimi di legge. E gli effetti positivi che l’introduzione del minimo salariale legale ha prodotto in Germania sembrerebbero incoraggiare una scelta analoga da parte del nostro legislatore.