Testo integrale con note e bibliografia
1. Premessa.
La direttiva 2008/104/CE è certamente la cenerentola delle direttive in campo sociale, in particolare di quelle che mirano a restringere l’area del “lavoro atipico” e che condividono l’obiettivo di confinare questo tipo di attività pur di natura subordinata, ma “deviante” rispetto ai principi generali rispetto ad uno o più profili, in limiti quantitativi ragionevoli evitando abusi, discriminazioni e soprattutto la stabilizzazione di una situazione giudicata pericolosa ed allarmante dal Legislatore europeo per le condizioni generali di reddito e di sicurezza esistenziale dei lavoratori. La sua trama normativa è notoriamente molto leggera, a tratti ambigua ( ), varata in un momento di crisi economica internazionale e che non gode dell’autorità che deriva ad altre direttive dell’essere stata predisposta dalle parti sociali; è decisamente orientata ad accordare diritti minimali soprattutto antiabusivi e antidiscriminatori che diano concretezza a quell’art. 31 della Carta dei diritti che nel suo titolo, come norma di chiusura del Bill of rights dell’Unione in ambito sociale, stabilisce “condizioni di lavoro eque e giuste” per l’universo dei lavori. A lungo ha giocato, prima dell’indubbia proliferazione di contratti in somministrazione nel nostro paese, la convinzione che alla fine fosse poco rilevante l’opera di limitazione legislativa posto che una funzione antiespansiva veniva assolta dal carattere ontologicamente più costoso di questa attività visto l’aggio dovuto all’agenzia da parte dell’utilizzatrice. Eppure sotto le competenti mani dei Giudici della Corte del Lussemburgo persino questo testo normativo sembra dare oggi qualche risultato nello stabilire un qualche limite nell’utilizzazione sistematica di questo istituto di triangolazione “estrema” del rapporto di lavoro, stigmatizzando legislazioni nazionali troppo permissive.
In una condivisibile, recente, ricostruzione delle dinamiche lavoristiche nel nostro paese e nell’Unione degli ultimi anni ( ) si è sottolineato come la stessa impostazione di filosofia regolativa degli organi di Bruxelles, per anni attestati sui principi cosidetti di flexicurity più aperti verso le modalità “atipiche di lavoro” ritenute spesso forme provvisorie di transizione necessarie verso rapporti più stabili se doverosamente supportate da garanzie di parità di trattamento e misure di sostegno (come quelle di formazione o di tutela del reddito, come negli schemi del minimun income, nei passaggi verso la security), sarebbe progressivamente mutata nel tempo in favore di rapporti pleno iure e, soprattutto, continuativi (con lo SURE l’Unione ha, fra l’altro, assunto la cassa integrazione come uno strumento di sostegno valido per tutti i paesi membri superando l’idea che le casse ove previste fossero forme mascherate di aiuti di stato) nel tempo si da evitare l’incertezza e la fragilità propria dei rapporti a termine distruttivi, se reiterati sine die, per qualsiasi progetto di autorealizzazione individuale e collettivo. Forse è troppo presto per ritenere che sia stata definitivamente archiviata la filosofia regolativa della flexicurity anche perché di questa, come ribadisce anche il Volume già citato, gli stati membri hanno privilegiato la componente derogatoria di una maggiore flessibilità nelle relazioni di lavoro indotta da scelte aziendali orientate alla produttività su quella “soggettiva”, su richiesta dei soggetti, per una migliore armonizzazione dei tempi di vita (anche per perseguire progetti di studio e formazione) e di lavoro. Ma è certamente vera la constatazione che, nel quadro di un rilancio complessivo delle politiche sociali dell’Unione con l’ambizioso piano di attuazione del Pilastro sociale, la Commissione è parsa molto più attenta a sorvegliare e contenere la proliferazione delle modalità lavorative diverse da quelle standard visto che il Pilastro sottolinea, in molti dei suoi principi, la necessità di retribuzioni decorose e di sistemi pensionistici adeguati, difficilmente compatibili con una estrema frammentazione delle biografie lavorative ( ). Si tratta di una maggiore severità di principio verso il lavoro atipico che sembra alla fine orientare anche la Corte di giustizia non solo nella sua ormai dilagante giurisprudenza sui contratti a termine, ma nel settore dei distacchi (investito anche dalla forza d’urto dell’ultima legislazione garantista sovranazionale riguardante anche le più sofisticate forme di distacco “a catena”) ed in quello, sul quale ci soffermeremo nel presente contributo, del lavoro interinale. Verrà’ pertanto presa in considerazione nel successivo paragrafo l’ ultima sentenza della Corte di giustizia del 17 marzo 2022 ( ) che ha, sulla scia della decisione del 14.ottobre 2020 C-681/2018, JH, ma con qualche precisazione in più, valorizzato la nozione di “temporaneità” della prestazione.
Se vogliamo niente di davvero nuovo sub soli, ma la riaffermazione netta di orizzonti interpretativi che dovrebbero suggerire agli stati una maggiore attenzione alle prescrizioni della direttiva, così come ricostruita dai Giudici della Corte del Lussemburgo con una giurisprudenza che oggi pare consolidata e piuttosto chiara ; si vaglieranno poi nell’ultimo paragrafo i plausibili effetti nel nostro ordinamento ( ).
2. La sentenza del 14 marzo del 2022: repetita iuvant
La sentenza del Marzo scorso, su rinvio pregiudiziale del Tribunale superiore del lavoro del Land Berlino-Brandeburgo, riguarda un rapporto di lavoro interinale protrattosi (salvo due mesi di congedo parentale) ininterrottamente e non in sostituzione di altro lavoratore dal 1.11.2014 sino al 31.5.2019 presso la Daimler quale impresa utilizzatrice, quindi per un periodo di 55 mesi. Nell’ambito del procedimento principale il lavoratore contesta che la sua attività, proseguita per un così lungo periodo attraverso il rinnovo delle missioni, possa essere considerata “temporanea” ai sensi dell’art. 1 par. 1 e dell’art. 5 par. 5 chiedendo la trasformazione in un rapporto ordinario trattandosi di un uso abusivo della fattispecie in parola per eluderne le finalità. Questo è certamente il vero thema decidendi, cioè se vi siano limiti alla reiterazione dei contratti, anche in ordine alla loro durata complessiva, se siano idonei quelli introdotti dalla legislazione tedesca, se sia legittimo non tenere in considerazione i periodi precedenti la restrittiva normativa interna e se la contrattazione collettiva del settore delle aziende utilizzatrici possa derogare, ove autorizzata per legge, alla durata massima delle missioni, ma il giudice tedesco solleva anche la preliminare questione se il termine “temporaneo” precluda di per sé l’utilizzazione del lavoratore somministrato per coprire un posto permanente che non viene occupato a titolo di sostituzione. Cominciamo da quest’ultimo problema: la soluzione negativa raggiunta dalla Corte sembra in realtà piuttosto scontata ma porta a chiarire ulteriormente il significato che va attribuito al termine “ temporaneo” che viene individuato in senso strettamente letterale in quanto collegato alla mera durata complessiva delle missioni e non connesso in alcun modo con le condizioni e le esigenze di natura produttiva e/o organizzativa che invece hanno avuto un importante rilievo nella giurisprudenza sulla reiterazione dei contratti a termine. In altri termini non è l’attività che deve essere ontologicamente temporanea o per esigenze non a carattere stabile dell’impresa ma la durata complessiva che deve alla fine risultare ragionevolmente temporanea; l’ approccio letterale al termine “temporaneo”, nel suo significato primario, viene però addolcito- come si dirà esaminando le successive questioni - da un riferimento alle circostanze pertinenti del caso, come quelle riferibili al settore in cui avviene la missione. Viene, quindi, indubbiamente privilegiata la dimensione del tempo in sé delle missioni ma accompagnata dal rilievo extratemporale del settore produttivo in una sorta di bilanciamento che potrebbe portare, se mal interpretata, ad una certa equivocità della decisione . Sul punto la Corte dell’Unione osserva che l’art. 1 della direttiva si applica << ai lavoratori che hanno un contratto di lavoro o un rapporto di lavoro con un’agenzia interinale e che sono assegnati a imprese utilizzatrici per lavorare temporaneamente e sotto il controllo e la direzione delle stesse>> ( punto 31). La Corte rileva che nessuna norma della direttiva riguarda la natura del lavoro o il tipo di posto da coprire presso l’impresa utilizzatrice e che gli stati membri godono di ampia discrezionalità nella definizione delle situazioni che giustificano il ricorso al lavoro interinale ( punto 33) e che nel precedente del 2020 (14 ottobre 2020, KG, C-681/2020) si è già evidenziato come il termine “temporaneamente” utilizzato anche all’art. 3 par.1 per le definizioni di “agenzia interinale””impresa utilizzatrice” e di “ missione” deve riferirsi al rapporto di lavoro con l’impresa utilizzatrice per sua natura a carattere temporaneo (punto 34) . L’art. 5 della direttiva che pone a carico degli stati l’adozione di misure necessarie per evitare il ricorso abusivo all’istituto in parola con lo scopo di eludere le finalità della disciplina sovranazionale non implica voler subordinare la scelta contrattuale del lavoro interinale all’indicazione di ragioni tecniche, produttive ed organizzative e neanche a voler limitare il suo utilizzo a coprire soltanto posti di natura temporanea ( punto 36); pertanto è legittimo il reclutamento anche per coprire posti di carattere permanente e non occupati per sostituzione. La tutela dei lavoratori interinali passa quindi per altre vie differenziate da quelle offerte ai lavoratori a termine, quest’ultime spesso collegate più strettamente alle esigenze che hanno determinato l’assunzione.
La seconda questione è quella certamente di maggiore rilevanza: ci si interroga sulla qualificazione giuridica della durata della messa a disposizione tramite agenzia interinale alla luce del requisito secondo cui una siffatta messa a disposizione debba avvenire “temporaneamente”. Il giudice del rinvio dubita che, ai sensi dell’art. 1 della direttiva (e su integrazione d’ufficio della Corte, dell’art. 5 della stessa), possa considerarsi compatibile con il diritto dell’Unione un sistema interno che consente di arrivare a 55 mesi di adibizione attraverso il rinnovo delle missioni sullo stesso posto di lavoro. La Corte di giustizia osserva che nessuna disposizione della direttiva specificamente impone una durata massima nella messa a disposizione del lavoratore (punto 53), né un numero massimo di missioni successive presso la stessa impresa utilizzatrice, né l’adozione di specifiche misure di prevenzione degli abusi. Ma l’art. 5 par. 5 impone agli stati di adottate le misure necessarie per evitare che si eludano gli scopi della direttiva e << in particolare gli stati membri devono adoperarsi affinché il lavoro tramite agenzia presso la stessa azienda utilizzatrice non diventi una situazione permanente>> (come già affermato nel precedente del 2020) (cfr. punto 57). Quindi gli stati possono stabilire una durata precisa oltre la quale la messa a disposizione non può essere più considerata temporanea in particolare attraverso il meccanismo del rinnovo sistematico delle missioni. Una siffatta durata aggiunge la Corte (punto 57) deve necessariamente avere natura temporanea, vale a dire secondo il significato di tale termine nel linguaggio corrente, essere limitata nel tempo; se ciò sia avvenuto o meno spetterà accertarlo ai giudici nazionali, alla luce di tutte le circostanze pertinenti che comprendono anche le specificità del settore, onde garantire che l’assegnazione di missioni successive non sia rivolta ad eludere gli obiettivi della direttiva. Pertanto << supponendo che le missioni successive del medesimo lavoratore tramite agenzia interinale presso la medesima impresa utilizzatrice conducano ad una durata complessiva … più lunga di quella che si possa ragionevolmente qualificarsi come “temporanea” alla luce di tutte le circostanze pertinenti, che comprendono in particolare le specificità del settore, ciò potrebbe denotare un ricorso abusivo a missioni successive ai sensi dell’art. 5 della direttiva>> (punto 60). Una reiterazione abnorme delle missioni di oggetto identico può costituire un abuso di questa tipologia di attività perché compromette <<l’equilibrio realizzato nella direttiva tra la flessibilità per i datori di lavoro e la sicurezza dei lavoratori>>; ed il giudice dovrà, quindi, tenere conto anche della mancata giustificazione di questa reiterazione di contratti. La risposta sul punto è quindi << L’articolo 1, paragrafo 1, e l’articolo 5, paragrafo 5, della direttiva 2008/104 devono essere interpretati nel senso che costituisce un ricorso abusivo all’assegnazione di missioni successive a un lavoratore tramite agenzia interinale il rinnovo di tali missioni su uno stesso posto presso un’impresa utilizzatrice per la durata di 55 mesi, nell’ipotesi in cui le missioni successive dello stesso lavoratore tramite agenzia interinale presso la stessa impresa utilizzatrice conducano a una durata dell’attività, presso quest’ultima impresa, più lunga di quella che può essere ragionevolmente qualificata «temporanea», alla luce di tutte le circostanze pertinenti, che comprendono in particolare le specificità del settore, e nel contesto del quadro normativo nazionale, senza che sia fornita alcuna spiegazione obiettiva al fatto che l’impresa utilizzatrice interessata ricorre a una serie di contratti di lavoro tramite agenzia interinale successivi, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare>>. All’ulteriore domanda del giudice del rinvio di valutazione della compatibilità sovranazionale della normativa tedesca che introduceva nel 2017 il limite di durata di 18 mesi nelle missioni (ben sei anni dopo la scadenza del termine per recepire la direttiva) ma escludeva dal computo complessivo di durata i periodi di missione precedenti la sua entrata in vigore la Corte dell’Unione risponde che l’articolo 9, paragrafo 1, della direttiva 2008/104 lascia impregiudicato il diritto degli Stati membri di applicare o introdurre disposizioni legislative più favorevoli ai lavoratori, tra le quali figura una normativa nazionale, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, che fissa una durata massima oltre la quale la messa a disposizione di un lavoratore tramite agenzia interinale presso un’impresa utilizzatrice non è più considerata di natura temporanea, ma che così facendo gli Stati membri non possono violare le disposizioni della direttiva 2008/104. Pertanto, da un lato, al momento della fissazione di una durata massima di messa a disposizione di un lavoratore temporaneo presso un’impresa utilizzatrice, uno Stato membro non può fissare tale durata in modo tale che essa ecceda il limite dato dal carattere temporaneo di una tale messa a disposizione o consenta l’attribuzione di missioni successive a un lavoratore tramite agenzia interinale così da eludere le disposizioni di tale direttiva, conformemente all’articolo 1, paragrafo 1, e all’articolo 5, paragrafo 5, prima frase, di quest’ultima. Dall’altro lato, come risulta dall’articolo 9, paragrafo 2, della direttiva 2008/104, in nessun caso l’attuazione di tale direttiva costituisce un motivo sufficiente per giustificare una riduzione del livello generale di protezione dei lavoratori nei settori rientranti nell’ambito d’applicazione di tale direttiva. Poiché, conformemente all’articolo 11, paragrafo 1, della direttiva 2008/104, gli Stati membri erano tenuti a conformarsi a tali disposizioni entro il 5 dicembre 2011, si deve ritenere che, a partire da tale data, essi avessero l’obbligo di assicurarsi che la messa a disposizione dei lavoratori tramite agenzia interinale non superasse una durata qualificabile come «temporanea» (punti 70, 71, 72) Una disposizione transitoria non può avere la conseguenza di privare di effetto utile la tutela offerta dalla direttiva 2008/104 ad un lavoratore tramite agenzia interinale che, a causa della durata della sua missione presso un’impresa utilizzatrice, considerata nel suo complesso, sia stato oggetto di una messa a disposizione che non può più essere considerata avvenuta «temporaneamente», ai sensi di tale direttiva. Pertanto la direttiva 2008/104 deve essere interpretata nel senso che osta ad una normativa nazionale che fissa una durata massima di messa a disposizione del medesimo lavoratore tramite agenzia interinale presso la stessa impresa utilizzatrice, nell’ipotesi in cui tale normativa privi di effetto utile la tutela offerta dalla direttiva 2008/104 ad un lavoratore tramite agenzia interinale che, a causa della durata della sua missione presso un’impresa utilizzatrice, considerata nel suo complesso, sia stato oggetto di una messa a disposizione che non può più essere considerata avvenuta «temporaneamente», ai sensi di tale direttiva. Spetta al giudice nazionale stabilire se tale ipotesi effettivamente ricorra.
Tuttavia sulla base di considerazioni di teoria generale del diritto dell’Unione, rese negli ultimi anni particolarmente rigide riguardo le direttive a carattere sociale, la Corte esclude che la sola contrarietà al diritto dell’Unione della disposizione transitoria di cui si è detto possa condurre alla sua disapplicazione. Una direttiva non può, di per sé, creare obblighi nei confronti di un singolo e non può quindi essere fatta valere in quanto tale nei confronti di quest’ultimo dinanzi ad un giudice nazionale. Infatti, ai sensi dell’articolo 288, terzo comma, TFUE, il carattere vincolante di una direttiva, su cui si fonda la possibilità di invocarla, sussiste solo nei confronti dello «Stato membro cui è rivolta», in quanto l’Unione ha il potere di sancire, in modo generale e astratto, con effetto immediato, obblighi a carico dei cittadini solo ove le sia attribuito il potere di adottare regolamenti. Pertanto, anche se chiara, precisa e incondizionata, una disposizione di una direttiva non consente al giudice nazionale di disapplicare una disposizione del suo diritto interno ad essa contraria se, in tal modo, venisse imposto un obbligo aggiuntivo a un soggetto di diritto; conseguentemente un giudice nazionale, investito di una controversia che vede opposti esclusivamente privati, non è tenuto, sulla sola base del diritto dell’Unione, a disapplicare una disposizione transitoria contraria al diritto dell’Unione che, ai fini dell’applicazione di una normativa che fissa una durata massima di messa a disposizione di un lavoratore tramite agenzia interinale, esclude il computo dei periodi di messa a disposizione precedenti l’entrata in vigore di una siffatta normativa. Non può peraltro costituirsi un rapporto stabile con l’impresa utilizzatrice attraverso l’applicazione del diritto dell’Unione perché nel caso di specie, l’articolo 10, paragrafo 1, della direttiva 2008/104 impone agli Stati membri di disporre misure idonee in caso di inosservanza di tale direttiva da parte di agenzie interinali o imprese utilizzatrici. In particolare, tali Stati devono adoperarsi affinché sussistano procedure amministrative o giudiziarie appropriate intese a fare rispettare gli obblighi derivanti da detta direttiva. Il paragrafo 2 di tale articolo aggiunge che gli Stati membri determinano il regime delle sanzioni applicabili a violazioni delle disposizioni nazionali di attuazione della direttiva 2008/104 e adottano ogni misura necessaria a garantirne l’attuazione, precisando che le sanzioni previste devono essere effettive, proporzionate e dissuasive. Come risulta inequivocabilmente dal tenore letterale dell’articolo 10 della direttiva 2008/104, tale disposizione non contiene norme precise per quanto riguarda la definizione delle sanzioni ivi previste, ma lascia agli Stati membri la libertà di scegliere tra quelle idonee a realizzare il suo obiettivo. Ne consegue- conclude sulla questione la Corte di giustizia- che un lavoratore tramite agenzia interinale la cui missione presso un’impresa utilizzatrice non abbia più carattere temporaneo, in violazione dell’articolo 1, paragrafo 1, e dell’articolo 5, paragrafo 5, prima frase, della direttiva 2008/104, non può trarre dal diritto dell’Unione un diritto soggettivo alla costituzione di un rapporto di lavoro con tale impresa. Un’interpretazione contraria condurrebbe, in pratica, all’eliminazione del potere discrezionale conferito ai soli legislatori nazionali, ai quali spetta predisporre un adeguato regime sanzionatorio, nel quadro definito all’articolo 10 della direttiva 2008/104.
E’ inibito, quindi, al Giudice nazionale disapplicare una disposizione interna per raggiungere la conformità dell’ordinamento interno a quello sovranazionale per la duplice ragione del carattere non self-executing delle disposizioni che riguardano la violazione degli obblighi della direttiva ed inoltre perché si tratta di una direttiva e non di un regolamento e cioè di una fonte (salvo la materia antidiscriminatoria) non idonea a costituire rapporti orizzontali tra cittadini ( ). Rimangono le altre strade: l’interpretazione conforme (purché non contra legem) della norma interna in modo da raggiungere gli obiettivi antiabusivi della direttiva o la richiesta del risarcimento del danno subito (punti 97,98,99) .
Da ultimo la Corte risponde ai giudici del rinvio anche attraverso i contratti collettivi stipulati dalle imprese utilizzatrici si può derogare ai limiti legali fissati per le missioni successivi nonostante la direttiva indichi testualmente solo i contratti delle imprese fornitrici. Sembra ovviamente di capire che tale deroga non può di certo travolgere il limite in sé della “temporaneità” della prestazione e cioè che si potrebbero autorizzare limiti così abnormi da travolgere gli scopi della direttiva, posto che la Corte ha già chiaramente affermato che su tali limiti comunque spetta al giudice ordinario vigilare.
3. Il rilievo della sentenza nell’ordinamento italiano
Riassumendo: il termine “temporaneità” delle missioni nella direttiva del 2008 è riferito al suo significato primario e cioè alla durata complessiva dell’adibizione alla medesima attività presso lo stesso utilizzatore, considerato però anche le specificità del settore; questo limite però non chiama in gioco in alcun modo i rapporti contrattuali con l’agenzia e/o le esigenze che hanno determinato la scelta della tipologia contrattuale. Gli stati spossono stabilire dei limiti massimi che comunque devono essere idonei a salvaguardare il “pre-requisito” della temporaneità”, su cui in ogni caso (anche se non sia previsto un limite complessivo di natura legale) sussiste il controllo del giudice nazionale, il quale può valutare, soprattutto in base a questo dato oggettivo di natura temporale, l’esistenza di un abuso e quindi la violazione degli obblighi posti agli stati dalla direttiva. Per far valere il rispetto del diritto dell’Unione il Giudice nazionale , secondo i principi generali, non può disapplicare norme nazionali, ma può procedere all’interpretazione conforme di queste e il lavoratore chiedere il risarcimento del danno.
Ci sembra che la sentenza fin qui descritta abbia una duplice rilevanza per l’ordinamento italiano, nei casi di ricorso abnorme al contratto di somministrazione nel periodo che precede il cosidetto “decreto dignità” (che- come sappiamo- ha comunque fissato dei limiti nelle plurime reiterazioni delle missioni, anticipando la giurisprudenza della Corte di giustizia) e per dare una risposta alla molto discussa (soprattutto in sede parlamentare o nelle pagine dei giornali economici) questione se debbano sussistere necessariamente, alla luce della direttiva del 2008, limiti complessivi di durata anche per la reiterazione delle missioni dei lavoratori che godono di un rapporto a tempo indeterminato con le agenzie di lavoro.
Cominciamo dal primo punto. La legislazione permissiva del 2015 sul contratto di somministrazione come noto non ha introdotto alcun limite massimo alla reiterazione delle missioni presso lo stesso utilizzatore tanto che questa carenza è stata già oggetto della decisione della Corte di giustizia già ricordata del 14 ottobre del 2020 nel senso che questa radicale carenza non consente al sistema italiano di assicurare che le prestazioni rese rispettino il requisito della “temporaneità”, nel significato primario e strettamente letterale di una durata non abnorme. Nella sentenza del Marzo del 2022 qui in commento si sostiene, ci pare, che sono illegittime le disposizioni nazionali che impediscono un computo complessivo della durata delle missioni perché gli stati hanno il dovere di evitare abusi sin dal momento in cui è scaduto il termine per recepire la direttiva e che ciò che viene in rilievo non è il periodo singolo delle missioni (in Italia comunque sino al “decreto dignità”) ma il carattere di una prestazione necessariamente temporanea che, quindi, non può perdurare tale e quale per anni ed anni. L’abuso risulta da una valutazione complessiva che opera il giudice nazionale sulla base degli obblighi della direttiva e della sua ratio che è quella (punto 56 ) di <<evitare che il lavoro tramite agenzia diventi una situazione permanente per un lavoratore tramite agenzia interinale>>, poco importa se alcuni rapporti che compongono la durata totale non siano stati impugnati e messi in discussione dal lavoratore perché la direttiva vuole evitare tassativamente che l’adibizione superi la dimensione della “temporaneità”. Ora per arrivare a rendere compatibile l’ordinamento nazionale con quello sovranazionale il Giudice non gode della dworkiana “trump card” della disapplicazione della norma interna, ma solo di quella, meno drastica, dell’interpretazione conforme. Nella sentenza qui in commento viene ribadito che l’obbligo della interpretazione conforme coinvolge l’attento esame da parte del giudice ordinario “dell’insieme delle norme del diritto nazionale “ applicabili , non solo di quelle che hanno una connessione immediata con la materia ( ad es. il decreto 81/2015), in modo da trovare una soluzione immediamente satisfattiva del diritto fatto valere dal cittadino dell’Unione. Pertanto sembra coerente e logicamente fondata la tesi di Stefano Giubboni ( ) che l’art. 1344 cod. civ. offra una strada civilistica del tutto razionale per risolvere i casi in cui l’adibizione nelle missioni successive superi l’orizzonte della temporaneità, in quanto si tratterebbe di contratti in frode alla “legge comunitaria”, secondo un orientamento già anticipato dalla giurisprudenza di legittimità nei casi di abuso del ricorso al lavoro interinale sotto l profilo della frode alla “legge nazionale” ( )
Nell’ultimo periodo si è sviluppata, anche nei media, un’ intensa discussione in ordine alla possibilità per le agenzie di somministrazione di poter inviare in missione quei lavoratori che sono stati da queste assunti a tempo indeterminato presso lo stesso utilizzatore anche oltre i limiti fissati dal “decreto dignità” e cioè per periodi oltre i 24 mesi, anche non continuativi, senza che vi sia il rischio della conversione del rapporto in contratto a tempo indeterminato in capo all’utilizzatore. Questa possibilità è attualmente prevista, ma solo sino al 30 settembre, dal D.L. n. 148/2021 (convertito dalla legge n. 215 del 2021) che ha prorogato il precedente termine stabilito dal Decreto n. 104 del 2020 per esigenze di carattere emergenziale di salvaguardia occupazionale derivanti dall’epidemia ancora in corso.
Non vogliamo qui affrontare la questione (che appare controversa in Dottrina) se i limiti del decreto dignità nella durata complessiva delle missioni operassero sin dalla sua entrata in vigore anche per i dipendenti a tempo indeterminato delle agenzie (come contestato da una non molto argomentata circolare del Ministero del lavoro- in realtà di una sua Direzione- del 2018) posto che per due volte il Parlamento ha ritenuto che tali limiti operassero rimuovendoli pro-tempore per ragioni di ordine eccezionale connesse alla pandemia in corso, con il che, dal punto di vista ricostruttivo della legislazione oggi vigente, ogni dubbio sembra ormai archiviato. La questione riguarda invece il “che fare” dopo il 30.9.2022. Per quanto si è sin qui detto l’assenza di un limite complessive renderebbe il sistema italiano non coerente con il diritto dell’Unione quale interpretato dalla Corte di giustizia non solo nella decisione del 14.10.2020 JH, C-681/18 ma anche nella sentenza che abbiamo sin qui commentato. Come abbiamo già sottolineato per la Corte dell’Unione rileva, in sostanza, ai fini del non abuso del lavoro tramite agenzia, la durata dei rapporti lavoratori in missione e non gli aspetti contrattuali tra lavoratore ed agenzia (il che fra l’altro comporta anche il dovere di interpretare in modo conforme anche le norme del “decreto dignità” emesse prima delle decisioni della Corte di giustizia) . L’esistenza di un limite di 24 mesi della durata complessiva dei contratti di somministrazione a termine anche per coloro che hanno con l’agenzia un rapporto a tempo indeterminato è una misura razionale e necessaria per impedire quell’abuso che la Corte di giustizia paventa perché contraria all’esigenza di “preservare la natura temporanea del lavoro tramite agenzia” (punto 71 della sentenza del 14.10.2020): diversamente per un gruppo di lavoratori ( a quanto si apprende piuttosto consistente) si aprirebbe un futuro di missioni sempre rinnovate senza alcuna certezza di prospettiva e di carriera professionale; un’alterazione per dirla con il punto 71 della sentenza della Corte di giustizia del 2020 <<dell’equilibrio realizzato dalla direttiva tra la flessibilità dei datori di lavoro e la sicurezza dei lavoratori, a discapito di quest’ultima>> (ribadito al punto 61 di quella del 17 marzo 2022 ). Eliminato il limite dei 24 mesi il legislatore dovrebbe predisporre qualche altro strumento per ristabilire una coerenza tra ordinamento interno e diritto dell’Unione; tale limite rappresenta, infatti, una misura determinante per rispondere alle preoccupazioni espresse dalla Corte di giustizia sul sistematico ricorso a contratti successivi nel tempo presso uno stesso utilizzatore con le stesse mansioni, fonte anche di un’abnorme e discriminatoria (se troppo prolungata) differenziazione con il personale subordinato dell’impresa presso cui si opera, spesso “fianco a fianco”, rendendo permanente ciò che i Legislatori sovranazionali hanno ritenuto, piacerà o meno, dovesse essere necessariamente “temporaneo”