TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA
1.- Premessa.
A dieci anni dall’introduzione del rito c.d. Fornero, di cui all’art. 1, 47° comma ss., l. 28 giugno 2012, n. 92, si torna a discutere di alcune delle questioni processuali che hanno generato maggiori dubbi di interpretazione oltre che problemi applicativi. Pensato per creare una corsia privilegiata, e pertanto più rapida, per la risoluzione delle controversie aventi ad oggetto l’impugnativa del licenziamento intimato ai sensi dell’art. 18 l. n. 300/1970 – all’uopo modificato dalla stessa legge – ha assecondato il (lodevole) scopo di assicurare al lavoratore che avesse ingiustamente subito il provvedimento ablativo, una tutela più efficiente ed efficace. Ciò nonostante, fin dal principio, ha tradito più di un punto debole .
Trattandosi, come è noto, di un nuovo e ulteriore procedimento speciale, la sua stessa immissione nell’ordinamento processuale è parsa quanto meno distonica rispetto ai fini, di semplificazione e di riduzione dei riti speciali già esistenti, perseguiti dal d.lgs. n. 150, entrato in vigore soltanto l’anno precedente. Questa situazione, unitamente alle molteplici problematicità che ha generato, tali da non consentirgli di ottenere i risultati sperati dal legislatore, ne hanno segnato fin da subito il suo destino. Solo pochi anni più tardi, infatti, il d.lgs. n. 23 del 4 marzo 2015 – Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183, il c.d. Jobs Act – è intervenuto per ridimensionare il suo ambito di applicazione, seppur con una manovra abbastanza maldestra. L’art. 11 ha stabilito che ai licenziamenti intimati ai lavoratori, assunti, ai sensi dell’art. 1 del medesimo decreto, con contratto di lavoro subordinato o convertiti in lavoratori con contratto a tempo indeterminato, dopo il 7 marzo del 2015, «non si applicano le disposizioni dei commi da 48 a 68 dell’articolo 1 della legge 28 giugno 2012, n. 92» .
Da ultimo, la legge delega del 26 novembre del 2021, n. 206, ne ha previsto l’implicita abrogazione. In questo senso deve leggersi da una parte, il primo periodo dell’art. 1, 11° comma, che enuncia l’obiettivo di «unificare e coordinare la disciplina dei procedimenti di impugnazione dei licenziamenti», e dall’altra, le lett. b) e c) dello stesso comma, che richiamano espressamente il solo rito ex artt. 409 ss. c.p.c., allo stesso tempo ribadendo alla lettera a), l’intento di mantenere fermo l’originario «fast track» previsto per questo tipo di controversie proprio grazie al rito Fornero.
Ciò detto, l’ambito applicativo descritto dall’art. 1, 47° comma, l. 92/12, che rinvia alle controversie sull’impugnativa dei licenziamenti «anche quando devono essere risolte questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro» , ha delineato un rito che si presenta obbligatorio , ma pure esclusivo in quanto possono essergli assoggettate solo quelle stesse ipotesi espressamente previste. Ne rimangono escluse, quindi, le domande diverse anche se proposte in via subordinata, a meno che non siano «fondate sugli identici fatti costitutivi» (art. 1, 48° e 51° comma, l. 92/12) . Le domande proposte al di fuori di questi ristretti limiti sono destinate alla declaratoria di inammissibilità o improponibilità ovvero, più ragionevolmente, al mutamento del rito in quello ordinario del lavoro ex artt. 414 ss. c.p.c.
Tra le questioni suscitate dall’applicazione del rito Fornero viene in rilievo in questa sede quella relativa alla cumulabilità della domanda di tutela reintegratoria ex art. 18 Stat. lav. e della domanda di tutela obbligatoria.
2.- Stato della giurisprudenza.
Chiarito che con la locuzione «identici fatti costitutivi» della domanda si allude alla (pre)esistenza del rapporto di lavoro a tempo indeterminato – essendo infatti escluse le controversie aventi ad oggetto la risoluzione anticipata dei rapporti di lavoro a tempo determinato o relative all’accertamento dell’illegittimità del termine – e alla sua interruzione a seguito del provvedimento che si assume illegittimo, si è arrivati, non senza decisioni di segno opposto, anche alla ragionevole conclusione che debba trattarsi di una coincidenza necessariamente parziale . Ciò significa che le ulteriori domande cumulabili possono fondarsi anche su fatti costitutivi ulteriori rispetto al quelli posti alla base dell’impugnativa del licenziamento. I dubbi interpretativi, però, non si sono limitati al significato da riconoscere alla predetta locuzione; anzi, si è trattato di capire in concreto quali domande non fossero ricomprese in questo ristretto ambito applicativo.
Non tutte le ipotesi idonee a generare un cumulo (condizionale) di domande connesse da un rapporto di subordinazione sono uguali. È infatti pacificamente ammessa e non genera dubbi in termini di applicazione del rito speciale, la possibilità – molto diffusa nella pratica – di impugnare il licenziamento chiedendo in via principale il riconoscimento della tutela più forte di reintegrazione nel posto di lavoro, e in via subordinata la tutela meno intesa di tipo indennitario. Il motivo risiede nella circostanza che si tratta di un regime sanzionatorio per il datore di lavoro che pur avendo natura differente, è comunque previsto dall’art. 1, 47° comma, l. 92/12, motivo per cui l’istanza del lavoratore è ammissibile in quanto finalizzata ad ottenere un grado diverso della medesima tutela .
Invece, altro è il caso in cui, ferma restando l’impugnazione del licenziamento, si chiedano in via principale le tutele riconosciute dall’art. 18 Stat. lav., e in via subordinata quelle previste dall’art. 8, l. n. 604/1966 secondo cui «quando risulti accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, il datore di lavoro è tenuto a riassumere il prestatore di lavoro entro il termine di tre giorni, o in mancanza, a risarcire il danno versandogli un’indennità». Il potere di scegliere se procedere alla riassunzione del lavoratore o alla corresponsione in suo favore di un’indennità a titolo di risarcimento, è attribuito al datore di lavoro che non rientri nei requisiti dimensionali contemplati dai commi 8° e 9° dell’art. 18.
La fattispecie appena descritta si distingue dalla precedente proprio perché l’oggetto della domanda subordinata non è compreso nell’ambito di applicazione del rito Fornero, così come su descritto.
Varie sono state le posizioni assunte nella giurisprudenza di merito e di legittimità.
In alcune decisioni è stata disposta la separazione delle domande e ordinato, per quella subordinata, il mutamento del rito speciale ex art. 1, 47° comma ss., l. 92/12 in quello ordinario del lavoro ex art. 414 ss. c.p.c., in applicazione analogica degli artt. 426 e 427 c.p.c. .
Altre, in maniera più drastica, hanno dichiarato l’improponibilità della domanda subordinata di cui all’art. 8, l. 604/1966 in virtù della differenza del requisito dimensionale e della natura del datore di lavoro, chiarendo che «le domande diverse da quella avente ad oggetto la reintegra del posto di lavoro, devono basarsi su “fatti costitutivi” identici a quelli fondanti la richiesta nel giudizio di tutela reale» .
Infine, ulteriori pronunce hanno affermato che se il giudice rigetta la domanda principale per la mancanza dei requisiti dimensionali minimi previsti ai fini dell’applicabilità dell’art. 18 Stat. lav., è tenuto a decidere nel merito la domanda subordinata di tutela obbligatoria, la quale rientra «per trascinamento nel rito speciale, dovendosi altrimenti ipotizzare un’assurda separazione tra domanda principale e domanda subordinata relative allo stesso licenziamento perfino, in ipotesi, per lo stesso vizio di ingiustificatezza» .
Ed è quest’ultimo l’orientamento oramai prevalente, di recente confermato dalla Corte di cassazione . Infatti, se è vero che la domanda di tutela obbligatoria è di regola sottratta dal rito speciale se proposta in via principale, può rientravi là dove proposta in via subordinata non solo per le innegabili e opportune ragioni di economia processuale, nonché di semplificazione e di effettività della tutela giurisdizionale, ma anche perché, contrariamente agli indirizzi su riportati, tali domande sono fondate sugli «identici fatti costitutivi» come stabilito dall’art. 1, 48° comma, l. n. 92/2012 , consistenti nell’esistenza del rapporto di lavoro subordinato e nell’illegittimità dell’atto espulsivo. La diversità che attiene al requisito dimensionale dell’impresa, piuttosto, rappresenta un fatto impeditivo (e non costitutivo) dell’impugnazione del licenziamento da parte del lavoratore, il cui onere probatorio ricade sul datore di lavoro .
Secondo la giurisprudenza di legittimità, stabilita la comunanza dei fatti costitutivi delle domande di tutela reale e obbligatoria, è opportuno che sia lo stesso giudice adito con il procedimento speciale ad esaminare anche la subordinata, senza la necessità di disporre il mutamento di rito e ciò indipendentemente dallo stato, avanzato o meno, dell’istruttoria. Le opposte soluzioni in base alle quali la domanda subordinata dovrebbe essere dichiarata inammissibile o improponibile causerebbero una inutile duplicazione dei giudizi ogniqualvolta, essendo incerta la sussistenza del requisito dimensionale, il lavoratore intraprendesse più azioni per impugnare il medesimo provvedimento ablativo.
La trattazione congiunta con la principale, invece, lungi dal determinare aggravi istruttori, è proprio in grado di evitare in radice quella superflua «rinnovazione dell’attività processuale oltre al frazionamento dei processi cui accede il rischio di giudicati contrastanti» . Si converrà inoltre, che la pendenza di diversi procedimenti riguardanti domande che condividono gli stessi fatti costitutivi «sarebbe contraria ad elementari esigenze di effettività della tutela giurisdizionale» , senza considerare il dispendio di attività processuali, a sua volta connesso alla lesione del principio della ragionevole durata del processo e del non meno importante diritto di difesa del lavoratore .
Per la stessa ragione, la suprema Corte ha ritenuto ammissibili e quindi valutabili con il rito speciale, in quanto fondate sul comune presupposto della vicenda estintiva del rapporto, anche altre domande subordinate del lavoratore aventi ad oggetto la condanna al pagamento di somme a titolo di trattamento di fine rapporto e dell’indennità sostitutiva di preavviso , quelle finalizzate ad ottenere una pronuncia sul difetto di giusta causa ovvero ingiustificatezza del recesso datoriale , o ancora, di pagamento della retribuzione dovuta ai sensi dell’art. 2126 c.c. per l’arco temporale compreso tra il provvedimento espulsivo e la sua esecuzione .
Di contro, rimangono ancora oggi escluse dall’assoggettabilità del rito Fornero le domande: 1. di inquadramento del lavoratore in un livello superiore e volte ad ottenere il pagamento delle differenze retributive ; 2. aventi ad oggetto il versamento della differenza del premio di risultato riguardante un periodo specifico e il risarcimento del danno dovuto al mancato o ritardato conferimento degli obiettivi da raggiungere . Con riferimento a tali domande, quindi, rimane l’onere di proporle autonomamente nelle forme del rito ordinario del lavoro, poiché se comunque cumulate a quelle cui si applica il rito speciale, il giudice sarà tenuto a disporre il mutamento di rito.
3.- Conclusioni.
Dalla breve disamina appena svolta, è emerso che l’evoluzione giurisprudenziale si è orientata nel senso di ampliare, seppur sensibilmente, le maglie dell’applicabilità del rito Fornero anche alle domande subordinate di tutela obbligatoria, se riconducibili agli stessi fatti costitutivi. Questo trend, di recente riconfermato in Cassazione, appare senz’altro condivisibile. Si è trattato, là dove possibile, di accogliere una lettura estensiva, e più ragionevole, della locuzione «identici fatti costitutivi» e dall’altro, di salvare le attività processuali compiute quanto meno quando la trattazione congiunta oltre a determinare un’accelerazione della soluzione di certe controversie, non determina un aggravio in termini di tempo e attività processuali.