Testo integrale con note e bibliografia
1. Una (conclusiva) premessa
Rovistando nei cassetti del mio studio, nel matto e disperatissimo tentativo di metterli un po’ in ordine, ho rinvenuto il volantino della Biennale di Venezia del maggio-novembre 2019 (non so perché l’avessi conservato non essendoci neanche andato) e sono trasalito davanti al titolo della rassegna: “May You Live in Interesting Times”.
Non c’è che dire: l’innocente auspicio (che ho poi scoperto essere la traduzione di un’ironica maledizione cinese) si è abbondantemente realizzato (troppa grazia…) se si pensa che di lì a poco si sarebbe accanita la pandemia da coronavirus, conclamata l’emergenza climatica, scatenata la guerra ucraina, assestata la stangata energetica e inflattiva. E chissà cos’altro ci aspetta, visto che qualcuno ha persino evocato l’Armageddon nucleare.
Tempi interessanti, senz’altro; anzi, più che gli “Interesting Times” sono arrivati gli “Hard Times” di dickensiana memoria, con il loro carico d’inquietudine, insofferenza, incertezza. Tra l’altro, a onor del vero, è almeno da quindici anni che, di fatto, versiamo in una situazione di crisi, dai tempi del crack della Lehman Brothers e del collasso dei subprime americani (2007-08) e da quelli della crisi dell’euro e del nostro debito sovrano (2010-11) con i suoi strascichi socio-economici ancora non del tutto sopiti.
Questo per dire che, comunque declinata, la condizione di crisi – nella nostra “società del rischio” (Risikogesellschaft) come Ulrich Beck, in tempi non sospetti, l’aveva definita – sembra essere non più una condizione patologica passeggera e transeunte, una semplice congiuntura o, parafrasando Carl Schmitt, uno “stato di eccezione”, bensì una condizione fisiologica, latente, strutturale, durevole, pressoché permanente (o immanente), innanzi alla quale appaiono valide non più le tradizionali ricette economiche ordinate al suo superamento, bensì strategie “adattive” di lungo periodo miranti a conviverci e, tutt’al più, a mitigarne gli effetti più perniciosi.
A tal proposito, sono convinto che, in un certo senso, le riforme del diritto concorsuale degli ultimi anni e, segnatamente, il sofferto varo del Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza (c.c.i.i.) e il suo ampio rimaneggiamento (specie di quella che era l’originaria disciplina della procedura di allerta) siano eloquenti “segni dei tempi” ed emblematici frutti di questa inedita contingenza storica; in particolare, la sconcertante messe di istituti ristrutturativi in favore delle imprese in odore d’insolvenza orientati all’emersione tempestiva della crisi, alla conservazione competitiva dell’azienda e al suo possibile fresh start (si pensi alla variegata costellazione di concordati, alla composizione negoziata della crisi, agli accordi di ristrutturazione dei debiti, alla convenzione di moratoria, alle procedure di sovraindebitamento, ai piani di ristrutturazione soggetti a omologazione, ecc.) si colloca proprio in questa direttrice epocale, di crisi strutturale e generalizzata, ove, per forza di cose, si rivitalizzano il favor debitoris e la “cultura del debito”, per dirla con Ralf Dahrendorf (e non so se questo sia un bene, o non un sintomo di nietzschiana decadenza); di conseguenza – esagero un po’ (ma non poi tanto) – il “vecchio” fallimento (o l’attuale, eufemistica, liquidazione giudiziale) residua in un’opzione tra le tante, neanche la più importante, se è vero, per dirne una, che, in caso di proposizione di più domande di accesso agli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza e alle relative procedure, “il tribunale esamina in via prioritaria quella diretta a regolare la crisi o l’insolvenza con strumenti diversi dalla liquidazione giudiziale” (art. 7, comma 2, c.c.i.i.).
In questo peculiare contesto, la premura del legislatore della crisi di impresa, di fronte all’inevitabile, rinnovata e amplificata dialettica tra creditori e debitori (affinché, in accordo con Stefania Pacchi, gli uni non si convertano negli altri), appare rivolta più che al collaudato versante (statico) della garanzia patrimoniale ex art. 2740 c.c. (basta accennare, ad esempio, alla deroga all’absolute priority rule nel concordato in continuità) a quello (dinamico) della composizione contrattuale dei rispettivi interessi economici (“Qui dit contractuel, dit juste”, avrebbe ripetuto Alfred Fouillée); più che al versante dei trattamenti solutori del credito a quello della loro praticabilità negoziale.
E non c’è ragione alcuna per ritenere che questo non debba valere per tutti gli stakeholder e, in special modo, per i lavoratori, incolpevolmente travolti dagli (e coinvolti negli) effetti destabilizzanti del dissesto datoriale.
O almeno così avrebbe dovuto essere, ma non è stato.
La previsione contenuta nell’art. 4, comma 3, c.c.i.i. di una procedura informativa (e solo eventualmente consultiva e concertativa) tra i “soggetti sindacali” e l’imprenditore impegnato nelle trattative della composizione negoziata o nella predisposizione del piano concordatario o ristrutturativo rappresenta forse un’occasione mancata per fare dell’accordo sindacale, nella logica della meritevolezza negoziale di cui si è appena detto, un valido e ineludibile strumento gestionale della crisi dell’impresa datrice di lavoro.
Forse non si è imparata fino in fondo l’amara lezione dei “tempi del colera”, quando è stato proprio il diritto del lavoro a ricordare e riaffermare la priorità dei diritti sulle logiche della produzione e del mercato, e proprio il ricorso agli accordi sindacali (si pensi al blocco dei licenziamenti, ai diffusi interventi di sostegno del reddito, ai protocolli di sicurezza aziendale contro il contagio da coronavirus, allo smart working, ecc.) è stata la strada maestra per il contenimento sui luoghi di lavoro dell’emergenza epidemiologica, altrimenti foriera di chissà quali più gravi e incontrollabili conseguenze economiche, sociali e di ordine pubblico.
Forse non è riuscita a imporsi l’(ancora audace) idea di un sindacato, come direbbe Oronzo Mazzotta, più partecipativo e meno conflittuale – si tratterebbe, detto per inciso, di un’innocua applicazione del negletto art. 46 della Costituzione, sul modello della Mitbestimmung della prassi delle relazioni industriali tedesche – nonché più propenso, secondo il coraggioso auspicio di Tiziano Treu, Bruno Caruso e Riccardo Del Punta e del loro “Manifesto per un diritto del lavoro sostenibile”, a farsi coinvolgere nella governance imprenditoriale (specie in tempi critici) e a farsi carico dei relativi obiettivi.
2. Bella e incompiuta
Provo a spiegare meglio e a soffermarmi su taluni particolari della procedura informativa in questione. Vladimir Nabokov amava ripetere che sono “i particolari di particolari” a trasformare una storia insignificante in una storia meritevole d’essere narrata; è dunque mia intenzione verificare se la ‘storia’ contenuta nell’art. 4, comma 3, c.c.i.i. – il dire del legislatore, come quello del letterato, è performativo – meriti d’essere felicemente narrata, o non sia piuttosto una storia mediocre, magari bella ma incompiuta.
Penso che la procedura in rassegna sia in sé meritoria e opportuna, e mi piacerebbe assurgesse a virtuosa e generale consuetudine, al di là della mera compliance aziendale, anche presso le imprese in liquidazione giudiziale (quando, in vista della cessione dell’azienda, ne sia stata disposta la prosecuzione dell’esercizio e il curatore sia subentrato ex art. 189, comma 1, c.c.i.i. nei contratti di lavoro pendenti) e persino presso le imprese non in crisi e non insolventi.
La norma ex art. 4, comma 3, c.c.i.i. risulta prima facie coerente con la direttiva 2019/1023/UE (c.d. direttiva “Insolvency”) sui quadri di ristrutturazione preventiva (e, questo, d’altronde, era esattamente lo scopo del d.lgs. n. 83/22), anche se una delle più serie questioni che essa ha dovuto affrontare (e, prima di lei, l’art. 4, comma 8, d.l. n. 118/21, di cui l’attuale versione è poco di più di un copia-incolla) è stata proprio quella concernente le modalità con le quali le trattative compositive possono darsi in relazione ai rapporti di lavoro e modularsi in domo prestatoris. E il legislatore si è tanto posto il problema, che ha preferito scansarlo – per quanto, come ricorda Giovanni Soriano, non comprendere un problema può anche essere il miglior modo di risolverlo.
E dunque: qualora il piano industriale predisposto dall’imprenditore in crisi (anche nell’ambito di un concordato preventivo) preveda l’assunzione di “rilevanti determinazioni che incidono sui rapporti di lavoro di una pluralità di lavoratori”, l’art. 4, comma 3, c.c.i.i. prescrive che, prima della loro adozione, se ne dia informazione ai soggetti sindacali individuati dall’art. 47, comma 1, l. n. 428/90. Niente di più e niente di meno.
Ma procedo con ordine. Innanzitutto, tale obbligo informativo non è imposto a qualunque imprenditore ma solo a quello che al momento della presentazione dell’istanza di accesso a uno degli strumenti regolativi della crisi e dell’insolvenza “occupa complessivamente più di quindici dipendenti”; in proposito, la Suprema Corte ha chiarito che tale margine occupazionale dev’essere verificato “con riguardo all’occupazione media dell’ultimo semestre” (cfr., ad esempio, Cass. n. 5240/20), e questa indicazione, benché formulata in materia di licenziamenti collettivi e di cassa integrazione guadagni, può comunque costituire un saldo e utile criterio orientativo di portata generale.
L’avverbio “complessivamente” sa un po’ di pleonastico se, com’è lecito ipotizzare, rimanda implicitamente e indicativamente all’art. 18, comma 8, dello Statuto dei lavoratori, secondo cui i quindici dipendenti rilevano qualora occupati “in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo” in cui si articola l’impresa interessata, oppure quando quest’ultima li occupa “nell’ambito dello stesso comune […], anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti” – e osservo che tale soglia occupazionale vale anche per l’impresa agricola, per la quale, invece, il dato rilevante è di solito quello dei cinque dipendenti.
Peraltro, il baluardo “totemico” dei quindici dipendenti – qualora abbia ancora un futuro a fronte della sentenza n. 183/22 della Corte Costituzionale, per cui “in un quadro dominato dall’incessante evoluzione della tecnologia e dalla trasformazione dei processi produttivi, al contenuto numero di occupati possono fare riscontro cospicui investimenti in capitali e un consistente volume di affari [sicché] il criterio incentrato sul solo numero degli occupati non risponde, dunque, all’esigenza di non gravare di costi sproporzionati realtà produttive e organizzative che siano effettivamente inidonee a sostenerli” – non è una semplice espressione numerica come può sembrare, perché bisogna tenere presente la biodiversità negoziale dei rapporti di lavoro e ricordarsi, ad esempio, che gli apprendisti e i lavoratori in regime di somministrazione sono esclusi dal computo occupazionale e che i lavoratori part time e “terministi” vi rientrano ma secondo il calcolo proporzionale illustrato agli artt. 9, 18 e 27 d.lgs. n. 81/15.
Ciò precisato, si tratta ora di mettere a fuoco i “particolari di particolari” e l’esatta portata dell’informazione dovuta alle organizzazioni sindacali. Il fatto stesso che ne sia previsto l’obbligo è cosa assai piacevole e perfettamente in linea con i princìpi della direttiva “Insolvency”; peraltro, rammento che un obbligo del tutto simile è già sancito dal (misconosciuto) d.lgs. n. 25/07 (recante l’attuazione della direttiva 2002/14/CE), che impone alle imprese con più di cinquanta dipendenti di informare i sindacati delle decisioni “che siano suscettibili di comportare rilevanti cambiamenti dell’organizzazione del lavoro [e] dei contratti di lavoro” – per cui, in verità non si è di fronte a nulla di radicalmente nuovo.
Risulta abbastanza chiaro che i soggetti sindacali destinatari dell’onere informativo, secondo il richiamo all’art. 47, comma 1, l. n. 428/90 (dettato nella tutt’altra materia di trasferimento d’azienda), sono le r.s.u. o le r.s.a. ex art. 19 dello Statuto dei lavoratori costituite presso le unità produttive interessate, nonché i sindacati di categoria che hanno stipulato il contratto collettivo applicato dall’impresa – mentre “in mancanza delle predette rappresentanze aziendali, resta fermo l’obbligo di comunicazione nei confronti dei sindacati di categoria comparativamente più rappresentativi”.
Non è altrettanto chiaro, invece, quali debbano essere le “rilevanti determinazioni” da comunicare alla parte sindacale.
L’ambito del possibile intervento determinativo dell’imprenditore è definito, in prima battuta, in maniera ‘negativa’ e residuale, trattandosi di quelle materie per le quali non sono previste altre e diverse procedure informative e consultive, sicché ne rimane escluso un larghissimo spettro che spazia – ma l’elenco sarebbe lungo – dalla cessione d’azienda ai licenziamenti collettivi (le cui specifiche procedure di consultazione sindacale sono quelle disciplinate, rispettivamente, dal citato art. 47 l. n. 428/90 e dagli artt. 4 e 24 l. n. 223/91), dalla cassa integrazione guadagni ai contratti di solidarietà, dal distacco collettivo alle delocalizzazioni, fino ai licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo “economico”, la cui irrogazione dev’essere assistita dalla procedura di cui all’art. 7 l. n. 604/66.
Non devono essere necessariamente procedure di fonte legislativa, potendo esse discendere anche dai contratti collettivi “di cui all’articolo 2, comma 1, lettera g, del [riesumato] decreto legislativo 6 febbraio 2007, n. 25”, rinvio stereotipico ai contratti stipulati dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative sul piano nazionale; a dire il vero, il richiamo a tale norma appare un tantino anacronistico, poiché, invece, sarebbe stato più sensato rinviare all’art. 51 d.lgs. n. 81/15, il quale – e il dato è estremamente rilevante e, per certi aspetti, anche grave – richiama non solo i contratti collettivi nazionali ma anche quelli aziendali stipulati dalle r.s.u. o dalle r.s.a., che invece, ai sensi dell’altra norma, resterebbero esclusi.
3. Cos’è la “rilevante determinazione” datoriale?
Considerato, pertanto, che l’obbligo informativo ex art. 4, comma 3, c.c.i.i. non s’avventura (provvidenzialmente) nel vasto oceano del trasferimento d’azienda e della gestione degli esuberi, e neppure nel non meno vasto ambito delle assunzioni (intuitivamente poco compatibile con un’impresa in difficoltà), restano in ‘positivo’ le determinazioni datoriali riguardanti “l’organizzazione del lavoro o le modalità di svolgimento delle prestazioni”, in termini, ad esempio, di allocazione dei lavoratori, di regolazione dei turni, di assegnazione di mansioni e, più in generale, di rinegoziazione di qualche clausola del contratto di lavoro – sempre, come si è detto, che non siano previste aliunde analoghe procedure di consultazione.
Riguardo allo ius variandi mansionale, è lo stesso l’art. 2103, comma 2, c.c. a prevedere, conformemente, che, in costanza “di modifica degli assetti organizzativi aziendali [e, quindi, nelle ipotesi di cui sto parlando] che incide sulla posizione del lavoratore”, questi possa venire assegnato a mansioni inferiori, purché rientranti nella medesima categoria legale e a parità di trattamento retributivo (eccezion fatta per quegli emolumenti causalmente connessi alla precedente prestazione).
Faccio notare, fra l’altro, come le determinazioni dell’imprenditore sulle quali insiste l’obbligo informativo debbano incidere “sui rapporti di lavoro”, non propriamente (e formalmente) sui contratti di lavoro in sé considerati – e, tra l’altro, anche oltre l’eventuale perimetro creditorio e a prescindere da esso; devono, cioè, essere idonee a incidere apprezzabilmente sul quotidiano ménage lavorativo e, pertanto, anche iniziative su aspetti non regolamentati contrattualmente con i lavoratori (si pensi, ad esempio, alla soppressione di un certo servizio aziendale, alle modifiche strutturali apportate al capannone industriale o agli uffici, alla cessazione di un appalto endoaziendale) ritengo dovrebbero essere oggetto della previa informazione sindacale.
In questo senso, l’espressione “rilevanti determinazioni”, oltre a richiedere uno sforzo interpretativo non da poco (l’aggettivo andava rimosso), è comunque di scarsissimo aiuto, perché è arduo dire cosa sia irrilevante nei rapporti di lavoro, ove tutto, in verità, è importante e cose anche di trascurabile valore oggettivo possono nondimeno rivestire e assumere un intenso significato simbolico; se non fosse azzardato, mi verrebbe da dire che nel mondo del lavoro vale il principio paretiano degli effetti che sopravanzano le loro stesse cause, e la qualità delle relazioni sindacali – com’esse, ad esempio, si siano in concreto atteggiate nella storia e nella tradizione di una determinata impresa, avuto riguardo anche all’approccio personale e ‘confidenziale’ – prevalgono sovente sul mero dato quantitativo. Forse non si è voluto, in parte comprensibilmente, introdurre elementi di eccessiva rigidità nel testo normativo, ma ciò non toglie che si tratti di un’espressione insidiosa e troppo generica, che si presta facilmente a malintesi hinc et inde o a ingenerare interpretazioni e prassi tendenziose, quando non ricattatorie.
Se, in una celebre lettera del 1840, Stendhal poteva scrivere a Balzac che “En composant la Chartreuse, pour prendre le ton, je lisais de temps en temps quelques pages du Code civil, afin d’être toujours naturel”, dubito assai che un qualsiasi scrittore sano di mente possa oggi pensare di “prendere il tono narrativo” e la “naturalezza stilistica” leggendo, invece che il Code Napoléon, il Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza (si parva licet…) e di ravvisarvi un pregevole modello letterario.
E segnalo in proposito l’altrettanto infelice espressione “pluralità di lavoratori”, che – oltre a negare un sicuro riferimento oggettivo e a offrire, invece, un criterio numerico simile a quello usato da quelle popolazioni amazzoniche che contano solo con la scansione “uno-due-molti” – non chiarisce se la pluralità vada intesa in senso assoluto, per cui varrebbe anche solo per due lavoratori (e, francamente, mi sembra un po’ poco) o in senso relativo (nel senso, cioè, di parte maggiore di un quantum determinato), per cui varrebbe per la maggioranza dei lavoratori occupati nel settore aziendale interessato dalla determinazione datoriale (e, francamente, mi sembra un po’ troppo).
La norma, come se non bastasse, tace anche sul contenuto della comunicazione da far pervenire ai soggetti sindacali. Poiché, secondo le prescrizioni ‘etiche’ indicate all’art. 4, comma 1, c.c.i.i., le parti impegnate nelle trattative compositive devono fare le brave e comportarsi secondo buona fede e correttezza, e poiché grava sull’imprenditore un preciso obbligo di parresia, essendo tenuto ex art. 4, comma 2, lett. a, c.c.i.i. a “illustrare la propria situazione in modo completo, veritiero e trasparente”, la comunicazione alle parti sociali non può evidentemente risolversi in una mera indicazione di stile della determinazione da compiersi, ma deve fornirne una descrizione esaustiva e analitica ed esplicitare, in riferimento pseudo-analogico all’art. 47, comma 1, l. n. 428/90 (cui l’art. 4, comma 3, c.c.i.i. dimostra d’ispirarsi), la data in cui ne è prevista l’attuazione, l’eventuale durata, le conseguenze giuridiche, economiche e sociali che essa comporta sui lavoratori interessati e le eventuali misure previste per questi ultimi – senza perdere di vista che nel piano di concordato devono essere espressamente indicate “le modalità di informazione e consultazione dei rappresentanti dei lavoratori nonché gli effetti della ristrutturazione sui rapporti di lavoro, sulla loro organizzazione o sulle modalità di svolgimento delle prestazioni” (art. 87, comma 1, lett. o, c.c.i.i.).
Peraltro, anche questo non sarebbe in sé sufficiente (e, soprattutto, non sarebbe serio e non consentirebbe un’adeguata verifica critica e un adeguato monitoraggio delle intenzioni datoriali) se i rappresentanti dei lavoratori non fossero stati “a monte” informati (a prescindere, perciò, dalla specifica determinazione che li riguarda) dello stato delle trattative in corso con gli altri creditori (nei limiti di quanto l’imprenditore non ritenga di assoggettare a vincolo di riservatezza, che, in ogni caso, non può sopravanzare diritti costituzionalmente garantiti), non avessero potuto visionare la documentazione allegata all’istanza di accesso a uno degli strumenti regolativi della crisi e non avessero ricevuto complete e aggiornate informazioni sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria del datore e sul complessivo piano industriale e finanziario che questi intende adottare.
In altre parole, quello che bisogna assolutamente evitare, come avrebbe esortato Guido Rossi, è qualunque asimmetria conoscitiva, in grado di compromettere il buon esito della procedura e l’intera tenuta dell’accordo compositivo o del piano concordatario.
4. L’eventuale iniziativa dei sindacato
Ricevuta la comunicazione, le organizzazioni sindacali destinatarie possono chiedere un incontro con il datore; anche se il legislatore usa il plurale, si deve ritenere che la relativa richiesta possa essere inoltrata anche da un solo sindacato tra quelli firmatari del contratto collettivo, eventualmente estendendo l’invito anche agli altri (e non solo per mera correttezza istituzionale), così come nulla vieta che gli incontri, se del caso, avvengano separatamente.
La conseguente consultazione ha inizio non oltre cinque giorni dopo il ricevimento della comunicazione datoriale e non può durare più di dieci giorni, salve diverse intese. Degno di nota che, nell’ambito della composizione negoziata della crisi, il relativo verbale, da redigersi in forma sintetica e con la sola sottoscrizione dell’imprenditore e dell’esperto (e non, inspiegabilmente, dei rappresentanti sindacali intervenuti, ai quali, dunque, il verbale potrebbe anche non essere dato in lettura), vale ai soli fini (contenitivi) del compenso orario previsto per l’esperto dall’art. 25-ter, comma 5, c.c.i.i.
Tutto qui. Nient’altro.
Né si prevedono – vera lex imperfecta – sanzioni a carico dell’imprenditore che non provveda a inviare la comunicazione sindacale, che vi provveda in maniera formalistica e incompleta, che non si presenti all’incontro e che, pur presentandosi, non dia, senza giustificato motivo, i chiarimenti richiesti. È lecito supporre che ciò integri condotta antisindacale meritevole di repressione ai sensi dell’art. 28 dello Statuto dei lavoratori (con conseguente nullità della determinazione assunta), ma è strano che non vi si accenni minimamente – in sensibile differenza rispetto all’art. 47, comma 3, l. n. 428/90, ove la formula di deterrenza è esplicitamente declamata.
Ma, al di là di questo, non è indicato, neanche di sfuggita o per sbaglio, quale sia l’effettivo scopo dell’incontro: la scelta lessicale è nel senso che l’”incontro”, una volta richiesto, diventa “consultazione”, ossia qualcosa di più di un semplice incontro, qualcosa che assomiglia piuttosto (se le parole hanno un senso) a un esame congiunto; tuttavia, non si dice se questa consultazione (o quest’esame congiunto che dir si voglia) sia fine a sé stessa o preordinata al raggiungimento di un accordo.
Ovviamente, quest’ultima possibilità non è vietata (ci mancherebbe!) e, anzi, è certamente sottotraccia auspicata, ma appare in ogni caso poco comprensibile che la prospettiva di un accordo non venga proprio nominata, neppure in termini di mera opportunità ed eventualità. Un’eventualità solo immaginata, che – quasi un puro distillato di logica giansenista – non viene negata ma neppure affermata; un’eventualità che, in ipotesi, potrebbe ritrovarsi assorbita nelle previsioni della proposta concordataria o coincidere con uno degli accordi ‘tipici’ cui possono approdare ex art. 23, comma 1, c.c.i.i. le trattative per la composizione negoziata, se, però, i lavoratori fossero puri e semplici creditori del loro datore.
Ma non è necessariamente così, poiché non è affatto detto che il lavoratore sia anche creditore, e i due ruoli non devono per forza sussistere contestualmente o sovrapporsi: non è senza significato che il d.lgs. n. 83/22 non abbia pedissequamente recepito il 43° considerando della direttiva “Insolvency” – per cui “Il concetto di parti interessate [dei quadri di ristrutturazione] dovrebbe includere i lavoratori unicamente in quanto creditori” – né, d’altronde, l’ampiezza della dizione testuale dell’art. 4, comma 3, c.c.i.i. risulta compatibile con una simile tesi riduzionistica.
Se alla splendida Alda Merini piaceva “chi sceglie con cura le parole da non dire”, non per questo il legislatore dovrebbe procedere in maniera così laconica, anche perché tale imbarazzante (e, forse, non disinteressato) silenzio, qualora un accordo sindacale venga comunque raggiunto, lascia aperte e insolute molte questioni (possibili fonti di inutile contenzioso): se l’eventuale accordo debba assimilarsi a un particolare tipo normativo (e quale), se debba poi transitare attraverso accordi individuali con i lavoratori interessati nelle sedi di cui all’art. 2113, comma 4, c.c., o se possa assumere la forma delle intese di prossimità ex art. 8 d.l. n. 138/11, che, potendo essere finalizzate “alla gestione delle crisi aziendali e occupazionali”, offrono il duplice e innegabile vantaggio di disporre di estesa efficacia derogatoria (anche peggiorativa) sugli eventuali vincoli legislativi e collettivi sussistenti nelle materie oggetto della determinazione datoriale e di svolgere efficacia vincolante, se sottoscritte sulla base di un criterio maggioritario relativo alle rappresentanze sindacali, “nei confronti di tutti i lavoratori interessati” e, quindi, anche di coloro che non aderiscono ai sindacati firmatari.
Per dirla tutta – quasi un’inattesa e cortocircuitale conferma sub specie iuris del teorema di incompletezza di Kurt Gödel – le intese di prossimità, nella misura in cui esse, nelle materie elencate al comma 2 dell’art. 8 d.l. cit., “operano anche in deroga alle disposizioni di legge”, potrebbero addirittura permettere l’aggiramento (assumendo così un’imprevista e notevole estensione) della stessa clausola di riserva posta all’esordio dell’art. 4, comma 3, c.c.i.i., per cui la procedura de qua, come si è visto, è attivabile solo ove non siano previste dalla legge o dai contratti collettivi diverse procedure di informazione e di consultazione sindacale.
5. L’assordante silenzio sull’accordo sindacale
Il fatto che sia trascurato un elemento così qualificante (e c’è da chiedersi cosa succede se le organizzazioni sindacali esprimono manifestamente il proprio dissenso all’iniziativa datoriale) non è solo un problema in sé, ma diventa motivo di scompenso quando, per esempio, si mettano a confronto sinottico la disciplina sull’obbligo informativo ex art. 4, comma 3, c.c.i.i. e quella sulla rinegoziazione dei contratti pendenti di cui all’ultimo alinea dell’art. 17, comma 5, c.c.i.i. in tema di composizione negoziata della crisi (ma il discorso non muterebbe se qualcosa di analogo fosse disposto dall’imprenditore, sulla falsariga dell’art. 97 c.c.i.i., nel piano concordatario).
Si prevede infatti che l’imprenditore possa rideterminare secondo buona fede, in accordo con la controparte negoziale e con i buoni uffici dell’esperto mediatore (chiamato a eccitare lo spirito collaborativo delle parti), il contenuto dei contratti a esecuzione continuata o periodica o di quelli a esecuzione differita “se la prestazione è divenuta eccessivamente onerosa o se è alterato l’equilibrio del rapporto in ragione di circostanze sopravvenute”.
In primo luogo, osservo che tale disposizione – applicabile, mi pare, anche ai contratti di lavoro, all’esatto contrario (con quanto può discenderne in termini ermeneutici) di ciò che disponeva l’ultimo “versetto” del comma 2 della norma ‘archetipica’ di cui all’art. 10 d.l. n. 118/21, che, opportunamente, escludeva l’applicazione del meccanismo rinegoziativo “alle prestazioni oggetto di contratti di lavoro dipendente” – si sovrappone a (e si combina con) quella dell’art. 4, comma 3, c.c.i.i., con l’inaspettata conseguenza per cui le “rilevanti determinazioni” datoriali, come già sospettavo, invadono largamente l’area funzionale del rapporto, ben oltre (assai oltre) “l’organizzazione del lavoro o le modalità di svolgimento delle prestazioni”.
In secondo luogo, osservo che se la rinegoziazione dei contratti in essere non può prescindere, ça va sans dire, dal consenso della controparte, non altrettanto è previsto per le “rilevanti determinazioni” datoriali, assumibili unilateralmente dall’imprenditore a prescindere dall’accordo con i lavoratori o con i loro rappresentanti sindacali.
Dunque, quando sia divenuto eccessivamente oneroso il mantenimento di un’indennità retributiva o di un determinato assetto organizzativo della produzione – per cui si rendano necessari il mutamento in peius di certe mansioni, la conversione di taluni contratti, la corresponsione differita del t.f.r., la modifica dell’orario di lavoro (o l’introduzione di un orario “multiperiodale” ove la produzione e l’organizzazione del lavoro siano programmabili), l’allungamento dei turni, la riduzione delle pause, ecc. – allora l’imprenditore che intenda rideterminare in tal maniera i rapporti lavorativi di una pluralità di dipendenti ha solo da darne cortese avviso ai sindacati e da impiegare un po’ del suo prezioso tempo per ascoltarne le eventuali obiezioni, ma non ha alcun ulteriore obbligo, né di raccogliere il loro consenso, né, a maggior ragione, di concludere un accordo.
Il che significa, detto altrimenti, che mentre un qualunque contratto di fornitura, assicurazione, leasing o quant’altro (non esclusa, curiosamente, la somministrazione di lavoro) non può essere unilateralmente (e arbitrariamente) ritoccato a uso e consumo dall’imprenditore, questi, invece, può tranquillamente farlo in ordine alle prestazioni e ai contratti di lavoro.
È questo “particolare di particolare” a palesare l’incompiutezza della ‘storia’ raccontata dall’art. 4, comma 3, c.c.i.i., là dove non prevede l’obbligatorietà di un’intesa con le parti sociali, ai limiti del vero e proprio svilimento del ruolo del sindacato; d’altronde, non mi scandalizzo davanti alla valenza quasi ossimorica di un “accordo obbligatorio”, così come non mi sono scandalizzato davanti all’art. 1, comma 2, lett. l, d.l. n. 23/20 (il c.d. “decreto liquidità”) che impone alle imprese beneficiarie della garanzia della Sace s.p.a. sui prestiti bancari l’assunzione dell’“impegno a gestire i livelli occupazionali attraverso accordi sindacali”. Si tratta di un’altra materia, d’accordo, ma la ratio non è molto lontana e, soprattutto, qui nessuno ha gridato allo scandalo, poiché, nella logica del do ut des, si è trovato un corretto equilibrio tra il beneficio del prestito garantito e il sacrificio della libertà imprenditoriale alla gestione dei livelli occupazionali.
In questo senso, gli istituti regolativi della crisi e dell’insolvenza e, in particolare, quello della composizione negoziata sono certamente dei vantaggiosi ausili, con interessanti misure premiali, offerti all’imprenditore “squilibrato”, il quale avrebbe certamente potuto “ricambiare la cortesia” accettando che le proprie determinazioni incidenti sui rapporti di lavoro (perdipiù, con intonse prerogative sugli esuberi) fossero codeterminate con le organizzazioni sindacali dei lavoratori interessati.
Si dirà – anzi, si è già detto – che un conto è rinegoziare un contratto con un fornitore, un conto è variare un elemento lavorativo, che ha a che fare con l’organizzazione aziendale, rimessa, come si afferma ab immemorabili, all’esclusiva e insindacabile iniziativa dell’imprenditore.
Ma non credo che le cose, oggi, stiano proprio così, o debbano necessariamente stare così.
Da un lato, si potrebbe cominciare col dire che, dopo l’introduzione dell’art. 2086, comma 2, c.c. (richiamato, tanto per chiarirne la portata, dall’art. 3, comma 2, c.c.i.i.) – in forza del quale l’imprenditore “ha il dovere di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell’impresa e della perdita della continuità aziendale” – il “dogma” dell’insindacabilità delle scelte e delle prerogative organizzative imprenditoriali, anche (e soprattutto) a latere prestatoris, risulta ridimensionato e messo in discussione.
Dall’altro lato, non sto parlando di tempi idilliaci in cui imprese schumpeteriane lavorano ordinatamente e felicemente producono, ma sto parlando di un contesto di crisi, di difficoltà, di insolvenza, che inevitabilmente altera e distorce lo scenario di riferimento e che provoca le ragioni del diritto del lavoro a percorrere “la strada meno battuta” (e più difficile) del confronto fattivo con le ragioni dell’economia aziendale e a volgere lo sguardo verso diversi paradigmi e diversi orizzonti; d’altra parte, se i lavoratori, lo si è già detto, sono i primi a essere tristemente coinvolti nella crisi dell’impresa datoriale, essi, allo stesso tempo, come confermerebbe Francesco Vella, ne sono anche la prima e prioritaria risorsa determinativa e risolutiva. E prima ce ne rendiamo conto, e tanto meglio sarà per una proficua applicazione del nuovo diritto della crisi di impresa.
6. Un (inconcludente) epilogo
In una commedia di Carlo Goldoni, non tra quelle più famose ma non per questo meno gustosa, intitolata (guarda caso) “La bancarotta, o sia il mercante fallito”, il protagonista, Pantalone de’ Bisognosi, prende atto nell’epilogo che “Un marcante che ha falio per poco giudizio, fina che el xe in desgrazia, el pensa a remetterse; co l’è remesso, el cerca la strada de tornar a falir”.
Sinceramente è difficile prevedere ora quali saranno gli approdi pratici, applicativi e interpretativi della procedura di informazione sindacale di cui si è trattato, e, ancora più in là, quale sarà il futuro degli strumenti compositivi e di regolazione della crisi e dell’insolvenza, se sapranno reggere la sfida degli “Hard Times” e costituire una reale opportunità di risanamento e di ripartenza dell’imprenditore in limine decoctionis, o non piuttosto un’ulteriore attestazione di sfiducia, come ripeterebbe Renzo Costi, sulle capacità del mercato di liberare i fattori produttivi di un’impresa in crisi, senza necessità di interventi conservativi ab extra.
Per quanto sia terribilmente difficile e sfibrante – ne ho piena contezza – trovare un giusto punto di sintesi e un “centro di gravità permanente” quando tali strumenti regolativi s’incontrano (e si scontrano) con valori di rango costituzionale, resta certo che si dovrà sempre tenere alta e desta l’attenzione affinché i primi non si trasformino in comodi grimaldelli adatti a ogni iniziativa invasiva, anche la più inappropriata e destrutturante, a scapito dei lavoratori.
E il mio non è e non vuol essere il solito disappunto da droit larmoyant: semplicemente, la scottante esperienza delle emergenze appena trascorse (in attesa di quelle imminenti) ha dimostrato che i lavoratori proprio non se lo meritano.