TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA
1. I diritti di informazione dei lavoratori dal decreto attuativo della “Cinderella directive” al decreto “trasparenza”.
Il 13 agosto 2022 è entrato in vigore il decreto legislativo n. 104/2022, attuativo della delega conferita dalla legge di delegazione europea 2019-2020 per il recepimento della direttiva 2019/1152/UE, che introduce “disposizioni sui diritti minimi e sulle informazioni da fornire ai lavoratori in merito alle rispettive condizioni di lavoro, con l'obiettivo di rispondere alle nuove sfide del mercato del lavoro legate agli sviluppi demografici, alla digitalizzazione e a nuove forme di lavoro”.
Si tratta di una normativa inizialmente passata quasi in sordina, essendosi i datori di lavoro e la stessa pubblicistica professionale - forse tratti in inganno dalla connotazione eminentemente “informativa” delle nuove disposizioni, o semplicemente distratti dalla pausa agostana - avveduti delle sue implicazioni e potenzialità solo nell’imminenza dell’ entrata in vigore.
Vero è che quello dei “diritti di informazione” dei lavoratori è un capitolo minore del diritto del lavoro italiano, che trova il suo precedente, antico quanto isolato, nell’art. 96 delle d.a.c.c. sulla comunicazione della qualifica e della categoria (legale) di inquadramento; e poi in un pugno di altre previsioni legali con finalità, peraltro, talvolta non esclusivamente informativa, come nel caso dell’art. 7 della legge n. 300/1970 in materia di contestazione disciplinare, e nel caso dell’art. 2103 c.c., come novellato dal Jobs Act, in tema di forma scritta dell’atto di demansionamento legittimo, e di trasferimento.
Il legislatore italiano ha iniziato a prendere sul serio i diritti di informazione dei lavoratori solo su impulso europeo, e cioè da quando il Consiglio, dando seguito al “programma d’azione” della Commissione relativo all’attuazione della Carta dei diritti sociali fondamentali del 1989, approvò la direttiva 91/533/CE, relativa all’obbligo del datore di lavoro di informare il lavoratore sulle condizioni applicabili; direttiva recepita senza molto entusiasmo (con cinque anni di ritardo) nel nostro ordinamento col d.lgs. n. 152/1997.
L’iniziativa legislativa sugli employees’ rights to information, estranei alla nostra tradizione giuslavoristica, fu all’inizio tiepidamente accolta anche al livello europeo, con la non casuale eccezione del Regno Unito, che vantava già una specifica tradizione normativa in materia di written statements concernenti the main terms of employment. Del resto, almeno all’inizio prevalse l’idea che la promozione legale di diritti di informazione dei lavoratori potesse fungere da surrogato dei requisiti di forma dei contratti di lavoro, specie quelli “atipici”, disciplinati in maniera assai eterogenea nei Paesi membri; e che comunque non fosse il caso di fare resistenza all’introduzione di diritti a valenza strumentale e non sostanziale. Di talché la direttiva non tardò a uscire dall’oscurità, sì da meritarsi l’appellativo di Cinderella Directive.
In effetti, quello attinente al rapporto tra (comunicazione delle) informazioni e forma dei contratti e degli atti datoriali è un punto di rilievo non secondario, affrontato esplicitamente dalla direttiva del 1991 - e solo implicito, ma non più letteralmente ripreso, nella diretttiva del 2019 - : secondo l’art. 6 della direttiva capostipite, infatti, essa “non pregiudica le legislazioni o le prassi nazionali in materia di forma del contratto”.
Ciò era coerente con l’obiettivo generale della direttiva “Cenerentola”, che era esclusivamente quello di introdurre “l’obbligo del datore di lavoro di informare il lavoratore delle condizioni applicabili al contratto o al rapporto di lavoro”; laddove la direttiva più recente enuncia il più ampio scopo di “migliorare le condizioni di lavoro promuovendo un’occupazione più trasparente e prevedibile, pur garantendo nel contempo l’adattabilità del mercato del lavoro” (art. 1, comma 1).
Ditalché, potrebbe affacciarsi il dubbio che si tratti di una direttiva esclusivamente “sostanzialista”; dubbio che parrebbe uscire rafforzato dalla lettura del comma 2 dell’art. 1, per cui “La presente direttiva stabilisce diritti minimi che si applicano a tutti i lavoratori nell’Unione che hanno un contratto di lavoro o un rapporto di lavoro quali definiti dal diritto, dai contratti collettivi o dalle prassi in vigore in ciascuno Stato membro, tenendo conto della giurisprudenza della Corte di giustizia”.
In realtà, i diritti strumentali di informazione - enunciati nel capo II e sostitutivi di quelli disciplinati dalla direttiva del 1991 - , e i diritti sostanziali afferenti a vari aspetti del rapporto di lavoro, trattati nei capi III e IV, sono parte di un quadro unitario la cui logica non pare essere tanto quella della trasparenza, ma piuttosto della spettanza, appunto, “di diritti minimi che si applicano a tutti i lavoratori nell’Unione che hanno un contratto di lavoro o un rapporto di lavoro”.
A ben vedere, è lo stesso confine tra diritti strumentali e diritti sostanziali a sfumare, in nome del diritto dei lavoratori dell’Unione a non sottostare all’incertezza che coinvolge oggi tutte le dimensioni del lavoro, a cominciare dal tempo di lavoro e dalla gestione automatizzata dei rapporti di lavoro: di qui, sinergicamente, il diritto a essere informati sulla durata del contratto, della prestazione, della prova, nonché sull’esistenza e sui parametri dei sistemi gestionali e di monitoraggio automatizzati; ma anche il diritto (sostanziale) alla programmabilità del tempo di lavoro, alla cumulabilità degli impieghi, alla computabilità della formazione aziendale nell’orario di lavoro.
In tal senso depone, del resto, la base giuridica della direttiva del 2019, individuata dal legislatore europeo, unitariamente e complessivamente, nell’art. 153, § 2, lett. b) e § 1, lett. b), TFUE, ossia nella competenza del Consiglio a emanare (con “procedura ordinaria”), direttive recanti “prescrizioni minime” nel “settore” delle “condizioni di lavoro”; e non, invece, nell’art. 114 relativo al “ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati membri che abbiano un'incidenza diretta sull'instaurazione o sul funzionamento del mercato comune”: norma che riprende il testo originario dell’art. 100 del TCE, sul quale - si badi - si basava la direttiva del 1991.
Nella logica suddetta, quello che era l’obiettivo generale della direttiva più antica, di intitolare al lavoratore subordinato il diritto di disporre di un “documento contenenente informazioni” sugli elementi essenziali del contratto di lavoro” (ai sensi del punto 9 della Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori), diventa parte integrante di uno scopo più ampio e ambizioso, che è quello di “migliorare le condizioni di lavoro promuovendo un’occupazione più trasparente e prevedibile, pur garantendo nel contempo l’adattabilità del mercato del lavoro”; obiettivo da declinare attraverso la previsione di diritti minimi che si applicano a tutti i lavoratori nell’Unione che hanno un contratto di lavoro o un rapporto di lavoro quali definiti dal diritto, dai contratti collettivi o dalle prassi in vigore in ciascuno Stato membro, tenendo conto della giurisprudenza della Corte di giustizia”.
Ciò si riflette sul contenuto, sulla portata, e prima ancora sull’ambito di applicazione del decreto di recepimento della direttiva - ormai comunemente appellato come decreto “trasparenza” - , che si segnala non solo per la mole e la complessità delle informazioni aggiuntive (rispetto alla direttiva n. 91/533 e al d.lgs. n. 152/1997) richieste ai datori di lavoro - in qualche caso, peraltro, estranee alla direttiva da attuare - , ma anche per l'introduzione di norme sostanziali, di portata tutt’altro che marginale.
2. Considerazioni sull’ambito di applicazione del decreto trasparenza.
Lo spettro applicativo del decreto “trasparenza” si caratterizza per l’universalità che lo rende applicabile, in primo luogo, a tutti i contratti di lavoro subordinato, senza alcuna eccezione che faccia riferimento a tipologie tecnicamente o descrittivamente “atipiche” o “speciali”; con la sola esclusione (implicita) delle prestazioni rese nell’ambito del “libretto Famiglia” (ma non, assai discutibilmente, del lavoro domestico), dei familiari che collaborano all’impresa familiare, dei dipendenti pubblici non contrattualizzati.
Ma il decreto penetra anche nel regno del lavoro autonomo, dichiarandosi applicabile ai collaboratori continuativi e coordinati di cui all’art. 409, n. 3, c.p.c., nonché ai collaboratori continuativi ed etero-organizzati.
Quanto a questi ultimi, s’impongono due osservazioni.
La prima osservazione è che l’inclusione dei collaboratori cdd. “etero-organizzati” è ridondante, considerato che l’applicazione del decreto trasparenza discende già dal dettato dell’art. 2, c. 1, d.lgs. n. 81/2015, ed essendo le norme del decreto suddetto certamente ascrivibili alla “disciplina del rapporto di lavoro subordinato”.
La seconda osservazione è che la predetta inclusione è destinata con tutta probabilità a non avere pratica attuazione. Infatti è dir poco improbabile che le parti qualifichino espressamente un contratto di lavoro in termini di collaborazione etero-organizzata, rilevando tale figura essenzialmente sub specie di “rimedio” giudiziale contro l’abuso della collaborazione coordinata e continuativa).
A tale proposito v’è da chiedersi se, in caso di riqualificazione giudiziale di una collaborazione coordinata e continuativa in collaborazione etero-organizzata (ma anche di un contratto d’opera occasionale o per prestazione libero-professionale, in collaborazione continuativa e coordinata, ovvero etero-organizzata, o direttamente ssubordinata) possa configurarsi quella coscienza e volontà della condotta omissiva, che determina l’applicazione dell’apparato sanzionatorio di cui agli artt. 4, c. 1, lett. e) e 5, c. 4, del decreto trasparenza, specie ove si consideri che a venire in rilievo è un’operazione qualificatoria di fronte alla quale esitano perfino i “periti iuris”.
Ne deriva una ragione di più, oggi, per procedere alla certificazione dei contratti di lavoro, anche autonomo, ai sensi dell’art. 75 e ss. del d.lgs. n. 276/2003: se non quella, impossibile, di blindare il tipo contrattuale davanti al giudice, quanto meno quella di neutralizzare la sanzione amministrativa derivante dalla violazione degli obblighi informativi di cui al novellato art. 1 del d.lgs. n. 152/1997.
Quanto all’estensione del campo di applicazione del decreto trasparenza ai collaboratori continuativi (semplicemente) coordinati, v’è da osservare che essa va oltre le previsioni della direttiva, e addirittura, a nostro avviso, oltre quelle della proposta di direttiva del 9.12.2021 sul lavoro mediante piattaforma digitale, che, per un verso, esclude senza eccezioni i “veri lavoratori autonomi” (quali sono, per l’ordinamento italiano, ma anche per quello uni-europeo, i collaboratori in parola); e per l’altro, introduce un cervellotico meccanismo di presunzione (solo) relativa di subordinazione.
Peraltro, la complessità del campo di applicazione del decreto trasparenza non finisce qui, poiché nell’ambito dei diritti di informazione vale un duplice regime di estensione alle collaborazioni coordinate e continuative: un regime di applicabilità piena, con riferimento agli “ulteriori obblighi informativi nel caso di utilizzo di sistemi decisionali o di monitoraggio automatizzati” (v. l’art. 1-bis, comma 1 e 7, del d.lgs. n. 152/1997, come novellati dall’art. 4 del d.lgs. n. 105/2022), e un regime di applicabilità limitata, condizionata ad un giudizio di “compatibilità”, con riferimento alla generalità degli obblighi informativi prescritti dal novellato art. 1 del d.lgs. n. 152/1997.
Il comma 5 del novellato art. 1 prevede infatti che “Agli obblighi informativi di cui al presente articolo è tenuto, nei limiti della compatibilità, anche il committente nell’ambito dei rapporti di lavoro di cui all’art. 409, n. 3, c.p.c.” (coordinati e continuativi), “dei rapporti di cui all’art. 2, c. 1, del d.lgs. n. 81/2015” (etero-organizzati), “nonché dei contratti di prestazione occasionale di cui all’art. 54-bis ... della legge n. 96/2017”: con quale incertezza applicativa (e sanzionatoria) per il datore di lavoro, per gi ispettorati del lavoro, e per i giudici, è facile immaginare.
Qualche dubbio si presenta anche circa l’applicabilità, alle collaborazioni coordinate e continuative, delle “prescrizioni minime” (diritti sostanziali) in materia di prova, cumulo di impieghi, prevedibilità minima del lavoro e transizione occupazionale, di cui al capo III del d.lgs. n. 104/2022.
In generale, va osservato che dette prescrizioni minime fanno corpo con lo stesso decreto “trasparenza”, e quindi è ad esse applicabile la previsione di cui all’art. 1, c. 1, lett. e), che include nell’ambito di applicazione del decreto le collaborazioni coordinate e continuative, senza contemplare, per le norme del capo III, alcuna previsione limitativa analoga a quella che, per tutti gli obblighi di informazione di cui al capo II, introduce il filtro esegetico della “compatibilità” (art. 1, c. 5).
Peraltro, le disposizioni in materia di diritto a cumulare più impieghi (art. 8) e alla “prevedibilità minima del lavoro” (art. 9), recano la previsione espressa di applicabilità “anche al committente nell’ambito dei rapporti di lavoro di cui all’art. 409, c. 1, n. 3, c.p.c. e di cui all’art. 2, c. 1, del d.lgs. n. 81/2015” (v., rispettivamente, gli artt. 8, c. 3, e 9, c. 6, del d.lgs. n. 104/2022).
Il dubbio riguarda, quindi, l’applicabilità ai collaboratoti continuativi e coordinati, della nuova disciplina del patto di prova (art. 7) e delle transizioni occupazionali (art. 10): da un lato, le norme evocate, diversamente dalle altre rientranti nel medesimo capo (artt. 8 e 9), non contengono alcuna previsione espressa di applicabilità alle collaborazioni continuative e coordinate; dall’altro - come s’è già osservato - , è ad esse astrattamente applicabile la previsione generale di cui all’art. 1, c. 1, lett. e), che include le collaborazioni coordinate e continuative nell’ambito di applicazione del decreto trasparenza.
La soluzione interpretativa che si lascia preferire è quella che esclude le collaborazioni continative dal campo di applicazione, quanto meno, della nuova disciplina del patto di prova: e ciò per due ragioni.
In primo luogo, il patto di prova mal si addice a un rapporto che dovrebbe basarsi su una obbligazione di risultato piuttosto che di condotta (sicché il superamento della prova verrebbe a identificarsi con il raggiungimento del risultato, e quindi con lo stesso venir meno del rapporto), e comunque su un rapporto che non è governato dagli obblighi di diligenza, obbedienza e fedeltà di cui agli artt. 2104 e 2105 c.c.. (vero è che il recesso datoriale in costanza di prova non dev’essere necessariamente basato su una violazione contrattuale; ma è vero anche che l’applicazione rigorosa del principio per cui il recesso deve basarsi sul mancato superamento della prova, ha assai avvicinato i due concetti).
In secondo luogo, depone nel senso sopra detto l’esplicita previsione dell’applicabilità delle norme in materia di cumulo di impieghi e prevedibilità minima del lavoro: previsione che non avebbe senso ove la suddetta applicabilità valesse per l’intero capo III.
Resta però, a questa stregua, avvolta nel mistero la previsione generale di cui all’art. 1, c.1, lett. c), che implicherebbe l’applicazione ai collaboratori autonomi continuativi anche degli artt. 7 e 10; tanto più che le ragioni sostanziali che rendono l’art. 7 difficilmente applicabile ai predetti lavoratori, non sembrano sussistere in relazione alla disciplina della “transizione a forme di lavoro più prevedibili, sicure e affidabili” (art. 10).
Degna di nota è pure l’esclusione espressa dei “rapporti di agenzia e rappresentanza commerciale” (art. 1, c. 4, lett. c).
Essa, per un verso, segna una dissonanza rispetto alla vis attractiva esercitata, su questi rapporti, dalle collaborazioni coordinate e continuative (art. 409, c.1, n. 3, c.p.c.): ché anzi, il rapporto di agenzia è considerato il modello prototipico di dette collaborazioni. Probabilmente, è prevalsa l’idea che i rapporti in questione vadano sottratti ai vincoli della subordinazione e della parasubordinazione, a cagione della prevalenza del carattere commerciale-intermediatorio che li caratterizza (sì da ascriverli alla previdenza sociale degli esercenti attività commeriali), e che, nel caso della rappresentanza commerciale, si decanta in un mero potere di rappresentanza e nell’assenza di un obbligo di fare, che li rende irriconducibili alla stessa figura iuris del contratto d’opera: si pensi, a tale proposito, ai cdd. “produttori d’agenzia assicurativa”, che l’art. 109, c. 2, lett. d), cod. ass. priv., distingue sia dai “dipendenti” che dai “collaboratori”; mentre, sul piano previdenziale, l’art. 44, comma 2, 2° per., della l. n. 236/2003, ne dispone l’iscrizione alla assicurazione obbligatoria degli esercenti attività commerciali e non alla gestione separata dei ccd. “parasubordinati”.
3. L’esclusione dei rapporti con impegno lavorativo “sotto soglia”.
C’è un ultimo aspetto dell’ambito di applicazione del decreto trasparenza, che va sottolineato, e che recepisce un’istanza di flessibilità gestionale imposta dalla direttiva europea.
Si tratta di una ulteriore esclusione che, arando il terreno sismico del tempo di lavoro, non è focalizzata sulle astratte fattispecie o tipologie negoziali, bensì sui loro concreti connotati temporali: in breve, l’ applicazione del decreto viene esclusa pei “rapporti di lavoro caratterizzati da un tempo di lavoro predeterminato ed effettivo di durata pari o inferiore a una media di tre ore a settimana in un periodo di riferimento di quattro settimane consecutive” (art. 1, c. 4, lett. b).
Si badi: in presenza di questo connotato minimalista afferente solo al tempo di lavoro, si determina la disapplicazione dell’intero decreto: tutto il capo II attinente ai diritti di informazione sul rapporto di lavoro (e non solo le prescrizioni afferenti al tempo di lavoro (art. 1, c. 1, lett. n), o), p) del novellato art. 1 del d.lgs. n. 152/1997); e tutto il capo III, afferente alle “prescrizioni minime relative alle condizioni di lavoro”.
Vero è che, nel decreto “trasparenza”, la precarietà del lavoro viene declinata come condizione potenzialmente inerente a qualsiasi tipologia contrattuale (dal lavoro a chiamata a quello a tempo indeterminato), poiché determinata in funzione non solo della quantità del lavoro e della durata del rapporto di lavoro, ma anche e soprattutto in funzione della programmabilità, prevedibilità e variabilità del lavoro.
Proprio per questa ragione, ponendosi il legislatore europeo un’istanza di ragionevole delimitazione applicativa della nuova disciplina, ha scelto un criterio, interno e trans-tipico, afferente proprio al profilo temporale: e così ha disposto la sua disapplicazione integrale ai rapporti di lavoro che abbiano una durata predeterminata non inferiore a una soglia minima stabilita per legge.
Ma per questa stessa ragione, l’esclusione dell’applicazione del decreto non opera nel caso in cui non esista alcuna predeterminazione del tempo di lavoro, e dunque non sia garantita una quantità minima di lavoro all’inizio del rapporto.
In tal caso, infatti, opereranno, distintamente sul piano del diritto di informazione e del diritto sostanziale alla programmabilità del tempo di lavoro, due corpi normativi.
Sul piano informativo, verrà in rilievo il disposto del novellato art. 1, c. 1, lett. p) del d.lgs. n. 152/1997, alla cui stregua, “se il rapporto di lavoro ... non prevede un orario normale di lavoro programmato, il datore di lavoro informa il lavoratore circa ... la variabilità della programmazione del lavoro, l'ammontare minimo delle ore retribuite garantite ... , le ore e i giorni ... in cui il lavoratore è tenuto a svolgere le prestazioni lavorative; ... il periodo minimo di preavviso a cui il lavoratore ha diritto prima dell'inizio della prestazione lavorativa ... “.
Sul piano delle prescrizioni minime relative alle condizioni di lavoro, opererà il principio della “prevedibilità minima del lavoro”, sancito dall’art. 9 del decreto trasparenza, per il quale, “qualora con riferimento alla tipologia del rapporto di lavoro l'organizzazione del lavoro sia ... imprevedibile”, e non siano neanche “predeterminati i giorni e le ore” di lavoro, “il datore di lavoro non può imporre al lavoratore di svolgere l'attività lavorativa”, e il lavoratore può rifiutarsi di svolgerla “senza subire alcun pregiudizio, anche di natura disciplinare”.
4. La questione del rinvio al contratto collettivo.
Quanto alle modalità di adempimento dell’obbligo informativo, è sorto subito il dubbio se questo potesse ancora oggi avvenire tramite rinvio al contratto collettivo di lavoro, o più semplicemente tramite consegna di copia del ccnl, come avveniva col decreto ante novella. Effettivamente, il dato normativo è complesso e non del tutto lineare.
L’art. 1, c. 2, del novellato d.lgs. n. 152/1997, prevede che l'obbligo di informazione sia “assolto mediante la consegna al lavoratore, all'atto dell'instaurazione del rapporto di lavoro e prima dell'inizio dell'attività lavorativa, ... del contratto individuale di lavoro redatto per iscritto”, oppure ... della copia della comunicazione di instaurazione del rapporto di lavoro al Centro per l’Impiego.
Al comma 3° aggiunge che “Le informazioni ... eventualmente non contenute” nei predetti documenti ... sono ... fornite per iscritto al lavoratore entro i sette giorni successivi all'inizio della prestazione lavorativa”. Al medesimo comma elenca una sottocategoria di informazioni che, in deroga alla regola della contestualità con l’assunzione, possono essere fornite al lavoratore nel termine di un mese: si tratta della comunicazione attinente all’identità dell’agenzia di somministrazione di lavoro, alla durata delle ferie, alla procedura, alla forma e ai termini del preavviso in caso di recesso, al contratto collettivo applicabile e agli istituti previdenziali cui il datore versa i contributi sociali.
Il comma 6 chiarisce il ruolo dell’eventuale rinvio alle fonti normative e dell’autonomia collettiva, prevedendo che “Le disposizioni normative e dei contratti collettivi nazionali relative alle informazioni che devono essere comunicate dai datori di lavoro sono disponibili a tutti gratuitamente e in modo trasparente, chiaro, completo e facilmente accessibile, tramite il sito internet istituzionale del Ministero del lavoro e delle politiche sociali”.
L’art. 3 del decreto trasparenza, infine, stabilisce che “Il datore di lavoro comunica a ciascun lavoratore in modo chiaro e trasparente le informazioni previste ... in formato cartaceo oppure elettronico”.
Benché il coordinamento delle fonti non sia “trasparente”, sembra ragionevole sostenere che la carenza di un riferimento espresso alla possibilità di adempimento tramite rinvio alle fonti normative e contrattuali collettive non valga a escludere tale possibilità, purché la comunicazione non si esaurisca in una serie di rimandi o addirittura in un unico rimando omnibus a dette fonti, e contenga quanto meno li elementi indispensabili affinché dalla lettura del testo comunicato il lavoratore possa apprendere in maniera chiara e sufficientemente completa - quindi, ove occorra, sintetica - quali siano i diritti che gli spettano nelle (numerosissime) materie elencate nel novellato art. 1 del d.lgs. n. 152/1997; senza che ciò implichi la necessità di una sorta di esplicazione personalizzata riferita alla specifica situazione individuale del lavoratore.
Inoltre - ma l’argomento è di più ampia portata - , la complessità non solo applicativa e gestionale, ma anche interpretativa, di molte delle materie oggetto dell’obbligo di informazione, induce ad adottare, nell’interpretazione del decreto trasparenza e del suo apparato sanzionatorio, una linea interpretativa orientata a non caricare le imprese di oneri burocratici eccessivi.
Di seguito, e a conclusione di queste riflessioni, qualche (ulteriore) esempio di obblighi informativi di problematica applicazione.
5. Alcuni profili problematici.
5.1. Con riferimento alla “identità delle parti” - pur già menzionata dal testo originario del d.lgs. n. 152/1997 - , il decreto trasparenza impone l’indicazione degli eventuali “co-datori di lavoro”.
Ebbene, si tratta di una previsione apparentemente semplice, ma che cela una insidia di fondo, consistente nella frequente ricorrenza di ipotesi in cui la co-datorialità non è frutto di una scelta volontaria e consapevole del datore di lavoro (per es., nel quadro di un contratto di rete), ma di una statuizione giudiziale o di un accertamento amministrativo; spesso nell’ambito di gruppi di imprese multinazionali che ricorrono di fatto, su scala transnazionale, a modelli gestionali astrattamente qualificabili come co-datoriali (anche prima e indipendentemente dal recente ”sdoganamento” legislativo italiano della figura).
5.2. Il decreto riconosce al lavoratore il diritto di essere informato sul “diritto a ricevere la formazione erogata dal datore di lavoro, se prevista”.
Ebbene, il rischio, in questo caso, è di interpretare la norma come riferibile a qualunque obbligo formativo, sì da estenderla non solo - come ci pare corretto - a contratti formativi come l’apprendistato, ma anche a tutti i casi in cui il lavoratore possa vantare un diritto specifico, legale o contrattuale, alla formazione: per esempio, il diritto alla formazione finalizzata, ex art. 2103 c.c. “post Jobs Act”, ad acquisire la capacità di svolgere mansioni inquadrate nello stesso livello, ma professionalmente non equivalenti.
5.3. Riflettono, invece, la metamorfosi strutturale e funzionale del tempo di lavoro, i diritti di informazione che la novella legislativa dedica a questa materia: ci riferiamo ai diritti di informazione sui congedi retribuiti diversi dalle ferie; sulla programmazione dell’orario normale di lavoro e del lavoro straordinario (quando l’organizzazione del lavoro sia prevedibile, dovendo, in caso contrario, l’informazione vertere sul fatto stesso che il lavoro si svolge secondo modalità organizzative imprevedibili); sull’esistenza di un minimo di ore garantite; sulle ore e i giorni in cui si deve svolgere la prestazione lavorativa; sul periodo minimo di preavviso.
Tralasciando la difficoltà per il datore di lavoro di stabilire se la propria organizzazione sia programmabile e prevedibile o meno, si pensi alla equivocità della previsione secondo cui oggetto dell’informazione in materia di preavviso sarebbe non solo la sua durata, ma anche la sua “procedura”; ditalché un rinvio alla norma contrattuale sul preavviso potrebbe non essere sufficiente, dovendo il datore di lavoro altresì informare il lavoratore, in ipotesi, sulla procedura di dimissioni.
5.4. Degne di rilievo sono poi le previsioni strumentali al contrasto del lavoro irregolare e povero, e alla promozione di quello “decente”, che obbligano il datore di lavoro a informare il dipendente sia del contratto collettivo, anche aziendale, che regola il rapporto di lavoro, sia degli istituti previdenziali ai quali vengono pagati i contributi sociali.
Merita in proposito ribadire che si tratta di meri obblighi informativi, che presuppongono e non costituiscono i diritti ai trattamenti stabiliti dai contratti collettivi e gli obblighi previdenziali posti a carico dei datori di lavoro; dovendosi precisare, con riferimento ai trattamenti contrattuali collettivi, che, in un sistema quale quello italiano, che, ad oggi, non conosce l’efficacia giuridica erga omnes del contratto collettivo, e nemmeno l’obbligo di applicare un contratto collettivo (salvo che per quanto cpncerne la cd. “equa retribuzione”), il cennato obbligo di informazione deve ritenersi condizionato alla concreta applicazione di un tale contratto, secondo i noti presupposti civilistici.
Né potrebbe la previsione interpretarsi come riferita ad un presunto obbligo di inserire nella lettera di assunzione una clausola di rinvio al contratto collettivo (rinvio cd. “statico”) o alla contrattazione collettiva (rinvio cd. “dinamico”): sia perché tale interpretazione non trova il minimo appiglio nel testo legale, sia perché essa equivarrebbe a rendere obbligatoria l’applicazione di un contratto collettivo, con violazione dell’art. 39 Cost..
5.5. Non manca poi, la novellata disciplina legale dei diritti di informazione, di toccare il tema di frontiera della cd. “gestione algoritmica” dei rapporti di lavoro.
A tale scopo, si introduce nel corpo del d.lgs. n. 152/1997 un art. 1-bis, che intesta ai lavoratori un diritto alla trasparenza sull’utilizzo e il funzionamento dei sistemi decisionali e di monitoraggio automatizzati, e, sulla scia della disciplina di protezione dei dati personali, inibisce al datore di lavoro di sottoporre il lavoratore a decisioni basate unicamente sul trattamento automatizzato.
Tralasciando la delicata tematica della possibile connessione tra l’”algoritmo gestionale” e i segreti aziendali - che rende palese come il vero vulnus temuto dalle imprese consista nel disvelamento dei parametri dell’algoritmo e non, in sé, nell’utilizzo di tecnologie digitali - , è degna di rilievo la circostanza che l’obbligo informativo gravante sul datore di lavoro “algoritmico” vale anche nei confronti delle rsa o rsu, e in loro mancanza, delle strutture territoriali delle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative dei lavoratori (comma 6 del nuovo art. 1-bis del d.lgs. n. 152/2987): ciò implica, di fatto, l’imposizione di una interlocuzione sindacale, sia pure solo informativa, ad aziende “non sindacalizzate”.
5.6. Per chiudere l’argomento dei “diritti di informazione di nuova generazione”, va ricordato che detti diritti operano anche ove sopravvenga “qualsiasi variazione” delle condizioni di lavoro oggetto del diritto di informazione, con anticipazione del termine (che attualmente è di 30 giorni) al giorno antecedente al prodursi degli effetti della modifica oggetto del diritto di informazione. Determinare quali possano essere le “variazioni delle condizioni di lavoro” incidenti sulle materie di cui agli artt. 1 e 1-bis del decreto novellato può non essere operazione banale, soprattutto se si considera l’immediatezza con cui s’impone al datore di lavoro di provvedere.