testo integrale con tabelle, note e bibliografia
Introduzione
In questo saggio analizzeremo due politiche che hanno animato il dibattito pubblico nell’arco di tutta la legislatura scorsa: il reddito di cittadinanza (DL 4/2019) e il decreto dignità (DL 87/2018). Entrambe queste legge sono state abolite o superate dal cd Decreto lavoro (DL 48/2023) dal nuovo governo nell’attuale legislatura. Sinteticamente possiamo il Reddito di cittadinanza (Rdc) e il decreto dignità, miravano rispettivamente a contrastare povertà e precarietà del lavoro.
Il RdC ha raggiunto tra il 50% e il 60% dei poveri assoluti, ed ha contrastato la povertà alleviando le condizioni di indigenza dei beneficiari. In pandemia ha evitato che oltre 1 milione di persone sprofondassero nell’assoluta indigenza (Istat, 2022). Inoltre, secondo i dati dell’INPS (INPS, 2022) ha ridotto la mortalità delle classi di reddito più povere, ed ha aumentato il tasso di natalità sempre nelle classi di reddito più povere.
Il decreto dignità invece ha invertito, dalla seconda metà del 2018, la composizione del mercato del lavoro rispetto al lavoro a termine (che è diminuito) e del lavoro a tempo indeterminato (che è aumentato), dopo i primi 3 anni del jobs act che a causa soprattutto del Decreto Poletti, che liberalizzava le assunzioni a tempo determinato, aveva visto succedere esattamente il contrario.
La letteratura economica ha univocamente sottolineato la necessità di una integrazione tra le politiche attive e le politiche passive, al fine di rendere più efficace l’allocazione sul mercato. A questo scopo, occorrerebbe una piattaforma nazionale, capace di elencare e incrociare in modo automatizzato offerte e domande di lavoro in modo agile e trasparente, per settore e territori, con notifiche agli agenti e con la possibilità di scelte personalizzate.
Si potrebbero così anche evidenziare le possibilità di esoneri contributivi che lo Stato mette a disposizione e, sempre attraverso la piattaforma, sarebbero direttamente usufruibili all’atto dell’assunzione del lavoratore. Nella costruzione di tale canale, l’INPS può avere un ruolo significativo, avendo l’istituto informazioni e rapporti con circa 1,5 milioni di aziende mensilmente, per il versamento dei contributi, e le procedure per i vari esoneri contributivi.
1. Le criticità del decreto Lavoro rispetto alla riforma del Rdc.
E’ stato più volte detto e scritto che il DL 4/2019 è risultato meno efficace sull’allocazione del mercato del lavoro, e sarebbe stata necessaria una maggiore spinta propulsiva delle politiche attive, della intermediazione dei servizi per l’impiego pubblici e della formazione professionale, che potrebbe migliorare l’allocazione sia dei percettori di RdC che di altre misure di sostegno al reddito. Questo in parte è vero, ma ricordiamo anche che nei primi due anni di vita del Rdc, tra il 2020 e il 2021 in particolare, la cosa più importante è stata salvaguardare i posti di lavoro esistenti, con cassa integrazione e sussidi vari, a causa della pandemia Covid, e proteggere le persone, piuttosto che trovare lavoro. Inoltre, nel 2022, quando il mercato si è ripreso, infatti, il numero dei beneficiari di Rdc è diminuito da 3,9 milioni del picco della pandemia a 2,4 milioni di fine 2022 come dimostra la tabella di seguito. In altre parole i dati ci dicono che: il programma del Rdc è stato molto dinamico, contrariamente a quello che si crede, e molte persone sono uscite dal Rdc dopo i primi 36 mesi di utilizzo, subito dopo la pandemia.
Tabella 1. Rdc dati ed evoluzione prima e dopo la pandemia
Fonte: INPS
La riforma del RdC introdotta ha molti aspetti critici e risulta meno efficace rispetto al RdC a contrastare la povertà. Riduce le risorse per il nuovo assegno di inclusione (ADI), che parte dal 2023, da 8 miliardi circa a 5 miliardi circa. E le risorse mancanti, 3 miliardi, difficilmente andranno a coprire coloro che rimangono fuori dall’ADI attraverso il nuovo strumento chiamato Strumento di Formazione e Lavoro (SFL), poiché esso è condizionato all’attivazione di corsi di formazione, e darebbe una somma fissa solo per 12 mesi nella vita pari a 350 mensili a copertura del corso. Le due nuove misure ADI e SFL sono discriminanti, rigide e meno efficaci nel contrasto alla povertà rispetto al RdC. Schematicamente, possiamo identificare queste criticità nelle seguenti 10 osservazioni:
1. ADI e SFL non hanno gli stessi requisiti economici di entrata. Il primo è previsto per nuclei con disabili, over 60 e minori. SFL è per le persone di età compresa tra 18 e 59 anni, considerati occupabili per legge. La soglia massima richiesta per ADI, di ISEE, è 9.360 € come per il RdC, per SFL è 6.000 €; mentre il reddito familiare massimo previsto è di 6000 euro più una scala di equivalenza ad hoc, ridotta rispetto a quella del rdc per entrambi gli strumenti. A fronte dello stesso reddito o ISEE, gli individui non avranno gli stessi diritti e la prestazione. Questo identifica un problema di discriminazione di rilievo costituzionale, e contrastante con la posizione UE. Ad esempio un 30enne in un nucleo con un papà di 60 anni potrà accedere, per via di quest’ultimo, all’ADI se ha un reddito inferiore a 6000 euro più la scala di equivalenza. Lo stesso giovane, se è nel nucleo con un padre di 59 anni, e considerato occupabile per legge, anche se ha un reddito inferiore ai 6000 euro, e non prenderà ADI.
2. SFL non costituisce in alcun modo un reddito minimo sotto nessuna definizione. Questo non è coerente con la proposta raccomandazione UE del settembre del 2022.
3. Gli individui di età compresa tra 18 e 59 anni, del nucleo che percepisce ADI, pur non percependo direttamente la prestazione, non essendo inclusi nella scala di equivalenza, e a prescindere se prendono o meno sfl, se rifiutano una offerta di lavoro, fanno decadere il nucleo che prende ADI. Questo non si giustifica. Considerando che il nucleo è fatto di fragili (disabili, minori, anziani).
4. Se arriva un’altra crisi tipo covid o qualsiasi altra crisi, e gli individui si impoveriscono, non potranno entrare nel programma AdI, pur se hanno reddito sotto 6000 euro e isee sotto 9360, perché per prendere adi si deve essere (avere nel nucleo) disabile over 60 o minore. Questo sottolinea estrema rigidità della misura. Queste caratteristiche sono rigide per definizione, sono bloccanti. Una misura così non è efficace per combattere la povertà.
5. La definizione di occupabile che da la legge non trova fondamento nella letteratura scientifica. Contrasta con qualsiasi definizione di occupabilità presente in letteratura: profili, competenze, esperienza, ultimo lavoro, ecc. L’occupabilità non si può definire per legge sulla base di età e carichi famigliari, ma deve essere definita dai centri per l’impiego, agenzie del lavoro, assistenti sociali, e operatori.
6. Se nel nucleo un individuo “occupabile” (che non conta ai fini del beneficio nella scala di equivalenza e non prende il sussidio) rifiuta una offerta di lavoro a tempo determinato, superiore a 1 mese, dentro 80km, si perde l’ADI, il nucleo lo perde. In molte regioni del sud 80 km si percorrono in 2 ore. Senza un livello di salario congruo questo può essere un problema.
7. Se nel nucleo un individuo “occupabile” (che non conta ai fini del beneficio nella scala di equivalenza e non prende il sussidio) rifiuta una offerta di lavoro a tempo indeterminato in Italia, si perde l’ADI, il nucleo lo perde. Senza un livello di salario congruo questo può essere un problema. (E ovviamente favorisce ulteriormente emigrazione verso il nord. Anche questo è un problema).
8. Sia per ADI che per SFL, il sussidio si ottiene il mese successivo a quello della firma sul portale del patto digitale. Questo vuol dire che l’ADI, che formalmente inizia il 1 gennaio 2024, nella sostanza arrivi ai cittadini da marzo 2024, e non sono previsti arretrati.
9. Per SFL la domanda è prevista dal 1 settembre 2024 ma ragionevolmente i percettori dovranno fare non solo il “patto digitale” previsto, ma da attivare anche un corso. Ragionevolmente dentro l’anno 2023 non percepiranno i 350 euro di sussidio previsti. In ogni caso non prima di novembre, e comunque dopo che (se) attiveranno un corso. E gli occupabili prenderanno la indennità di 350 euro solo per 12 mesi nella vita massimo (o per il periodo del corso se inferiore).
10. Molti di coloro che (tra 18 e 59 anni) percepivano rdc erano comunque seguiti dai servizi sociali. Sono già stati definiti dai CPI e assistenti sociali non occupabili, ma la legge li considera occupabili e non prenderanno ADI. Ad esempio un barbone, senza tetto, di 50 anni, è considerato occupabile per legge solo perché non disabile, non over 60 e non under 18.
La letteratura economica e sociale per anni ha spiegato le cause della povertà. Cause che non sono legate solo alla mancanza di lavoro, all’età, o ai carichi familiari, ma anche alla dimensione umana e sociale dentro la quale l’individuo è inserito; che affondano le radici in gap relazionali, geografici, settoriali e sistemici. Dalla Commissione Gorrieri degli anni Ottanta avevamo fatto passi notevoli in avanti per capire le cause della povertà e proporre rimedi. Si dovrebbe partire da qui, e dal Pilastro Sociale dell’UE che il 28 settembre 2022 ha emanato una raccomandazione agli stati membri invitandoli “a modernizzare i propri regimi di reddito minimo nel quadro dell'attuale impegno per la riduzione della povertà e dell'esclusione sociale in Europa”, stabilendo il “diritto ad un adeguato reddito minimo”. La Commissione riconosce che “il reddito minimo esiste in tutti gli Stati membri”, e aggiunge che “il reddito minimo è costituito da pagamenti in contanti uguali per tutti nel paese membro, che aiutano le famiglie che ne hanno bisogno a colmare lo scarto rispetto a un determinato livello di reddito per condurre una vita dignitosa”. Anche la Commissione Europea, quindi, riconosce il valore sociale del reddito minimo, di un reddito che va a tutti coloro che stanno sotto una soglia (occupabili e non), e che funziona come integrazione. Un reddito minimo appunto; questo è il punto di inizio da cui non dovremmo tornare indietro, l’incipit che era stato acquisito con il Rdc. I percorsi di attivazione poi possono essere diversi, di inclusione sociale per coloro che vengono definiti non occupabili immediatamente dagli operatori del settore, e di inclusione nel mercato del lavoro per gli occupabili definiti tali dagli addetti, e non per legge. Percorsi di inclusione attiva differenziata rispetto ai profili, alle competenze, alle storie di ognuno, con progetti di formazione e azioni mirate, e con un reddito minimo uguale per tutti.
2. Le criticità del decreto Lavoro rispetto alla riforma del decreto dignità
Con il DL 48/2023 Il governo ha anche smantellato il Decreto Dignità, ovvero quella legge del 12 luglio del 2018 che aggrediva la precarietà. Si tratta di una modifica al mercato del lavoro, che non aiuta il lavoro povero, i bassi salari e i lavoratori più deboli. E non aiuta soprattutto i giovani, che entrano nel mercato del lavoro per la prima volta, che rimangono per lungo tempo precari, con la “scusa” della flessibilità.
Il Decreto Dignità poneva un freno alla flessibilità, e riaffermava un principio importante: le norme non creano occupazione, ma possono aumentare o diminuire i diritti. L’obiettivo del Decreto Dignità era quello di aggredire la precarietà, e di innescare dei meccanismi di incentivi che favorissero lavoro qualificato, stabile e investimenti da parte delle imprese in capitale umano, che necessariamente si sviluppa durante relazioni di lungo termine. Oggi il lavoro a termine rappresenta circa il 20% del totale, oltre 4 milioni di lavoratori, mentre in Germania siamo a circa il 13%.
L’occupazione non solo genera problemi sociali legati alla natura della precarietà, ma ha un impatto negativo sull’economia: il lavoro a termine infatti incentiva investimenti e strategie “labour intensive”, che non si affidano alla innovazione e al progresso tecnico, ma alla flessibilità e ai bassi salari come leva per la competizione. Molti studi dimostrano che la eccessiva flessibilità del lavoro e la diffusione di lavori temporanei, non portano vantaggi di produttività del lavoro, e causano un più lento progresso tecnologico. Continueremo quindi ad avere precarietà e bassa crescita. All’indomani dell’introduzione del decreto dignità il lavoro a tempo indeterminato ha raggiunto il picco e il tempo determinato è diminuito (+600mila nuovi rapporti a tempo indeterminato nel 2019). Poco prima dell’inizio della pandemia nel 2020 avevamo 1 milione di lavoratori a tempo indeterminato in più rispetto al 2018, e questo aiutò quei lavoratori perché potevano percepire tutele piene e la cassa integrazione.
Figura 1. Lavoro temporaneo in Italia e OCSE
Fonte: OCSE “decreto Dignità”
Inoltre, con il Decreto Dignità l‘Italia si metteva in linea con direttive e raccomandazioni europee. Infatti, in rispetto della normativa europea (1999/70; 2017/0355), il lavoro a tempo indeterminato deve essere considerato la forma comune di contratto di lavoro, mentre il ricorso al tempo determinato deve essere motivato con ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, per prevenire gli abusi. Il decreto dignità fissa un principio importante: il lavoratore deve sapere perché lavora a termine, qual è la ragione, il motivo, in modo da non indebolire ulteriormente nella contrattazione il rapporto lavoratore-impresa. Un contratto che mette una scadenza al lavoratore, e lo rinnova a termine come e quando vuole, lo rende ricattabile.
Con il decreto dignità si pone un vincolo relativo, non assoluto, per l’accesso al lavoro temporaneo. Lo si permette nella misura in cui le aziende ne hanno necessità a causa di picchi di domanda, ordini imprevisti, progetti temporanei e stagionalità. Quindi evita gli abusi, e il rischio che la flessibilità diventi precarietà per milioni di persone, costretti in un limbo per sempre senza che possano fare progetti di vita, di famiglia, di investimento per l’acquisto di una casa o di una macchina.
In Europa il contratto a termine dura massimo 24 mesi, in Italia il Decreto Dignità lo porta da 36 a 24. In Europa il numero di rinnovi in media è di 3, in Italia il Decreto Dignità lo porta da 5 a 4. In Europa la “causale” per il contratto a termine esiste quasi dappertutto. In Francia esiste un termine di 18 mesi e l’obbligo di causale. In Spagna nel 2022 hanno introdotto una norma che riprende esattamente il decreto dignità, restringendo la possibilità di accedere al lavoro a termine, con ottimi risultati nei dati, perché il lavoro a tempo indeterminato è letteralmente esploso. In Germania esiste un modello di causale attenuata, simile a quello introdotto con il Decreto Dignità. Nelle direttive dell’UE il lavoro a termine viene scoraggiato, e viene in generale ammesso un contratto a termine libero solo per i primi sei mesi, considerati come una sorta di prova, durante la quale l’imprenditore conosce il lavoratore (sul punto emblematica è la Corte di Giustizia dell’Unione Europea nella sentenza del 24 giugno 2010, F.S. c. Poste Italiane spa, C-98/09).
Anche la possibilità di affidare alla contrattazione collettiva la specificazione delle causali attraverso le quali è possibile derogare alle norme stabilite dal “decreto dignità” renderebbe la lotta contro la precarietà molto debole. Oggi infatti, a parte Cgil, Cisl e Uil e pochissimi altri sindacati rappresentativi, esistono tanti “sindacati” che stipulano “contratti pirata” esattamente per fare dumping sociale, abbassare i salari e ridurre le tutele e i diritti dei lavoratori. Abbiamo infatti 1011 Contratti collettivi, secondo INPS e CNEL, e la stragrande maggior parte di questi sono pirata, non rappresentativi (questo perché non c’è una legge sulla rappresentanza sindacale). Questo è lo stesso fenomeno attraverso il quale si esercita la corsa al ribasso dei salari. Allo stesso modo, affidare alla contrattazione la specificazione delle possibili causali finirebbe per causare lo stesso fenomeno di competizione al ribasso a danno delle condizioni di lavoro. Uno scenario nel quale a chiunque è permesso di introdurre le proprie causali per derogare alle norme introdotte dal “decreto dignità” equivale sostanzialmente a uno scenario in cui tali norme non esistono.
3. Innovazione, povertà e precarietà: quali rimedi?
Negli ultimi 3 decenni, la caratteristica principale del nostro mercato del lavoro è stata la flessibilità, associata ad una scarsa dinamica della produttività e ad una scarsa crescita dei livelli occupazionali.
Nel 2008, un noto economista scomparso qualche anno fa, Paolo Leon, scriveva un libro straordinario (con R. Realfonzo), che descriveva bene la deriva del nostro sistema economico ed in particolare del mercato del lavoro: l’economia della precarietà.
L’economia della precarietà è caratterizzata da un mercato del lavoro iper flessibilizzato, con forme atipiche di lavoro, con precarietà diffusa, con continue interruzioni di rapporti, e mancanze di stabilizzazioni. Una economia che non consente accumulazione di capitale umano, competenze, formazione e quindi produttività. Un mercato che si fonda astrattamente su parole chiavi come dinamismo e mobilità, ma che in realtà si basa su instabilità, su incertezze, che si riversano negativamente anche nelle relazioni umane e nella società
Le forme di lavoro temporanee, insieme ai bassi salari orari, che colpiscono soprattutto giovani e donne, sono causa di impoverimento e generano working poor. In pratica, si rimane poveri pur lavorando, e allora può anche venir meno l’incentivo a lavorare, perché alla fatica si aggiunge l’impoverimento e la mancanza di tempo che non rende liberi gli individui.
Le esigenze di flessibilità, quando non necessarie e spurie, che creano povertà, richiedono il sostegno da parte dello Stato, con il paradosso che il costo è duplice: in termini umani di sfruttamento e instabilità, e in termini di spesa pubblica a carico della collettività ed a beneficio di imprese evidentemente decotte che altrimenti non riuscirebbero a stare sul mercato, oppure che ci stanno galleggiando, facendo risparmi sul costo del lavoro.
L’economia della precarietà ha un impatto anche sui consumi e sulla domanda, sugli investimenti individuali, sulla crescita dell’economia. Inoltre ha un impatto sulle strategie di investimento e sul modello economico che si viene a creare. Bassi salari e bassi consumi attraggono l’Italia in un circolo vizioso fatto di investimenti a scarso contenuto tecnologico, nei servizi, che sfruttano maggiormente l’Italia in settori a bassa produttività come il turismo.
Figura. Quota del Turismo sul valore aggiunto (in % asse orizzontale), UE e Italia
Fonte: Eurostat
E’ un processo che sta avvenendo, favorito da un cambiamento istituzionale nelle regole di mercato, nell’industria e nel mercato del lavoro attraverso la flessibilità appunto. Regole che hanno affiancato negativamente tale trasformazione, incentivando investimenti labour intensive che fanno perno su bassi salari, su flessibilità del lavoro che sfocia in precarietà diffusa, su contratti collettivi pirata senza minimi legali dignitosi, su defiscalizzazione e decontribuzione generalizzata del lavoro, con sussidi a pioggia per gli investimenti e per le assunzioni. Al contrario, sarebbe stato necessario puntare su incentivi selettivi e investimenti mirati verso una transizione non solo tecnologica, ma anche ecologica, capace di spingere maggiormente la crescita della produttività (che in Italia è stata tra il 1991 e il 2022 in media solo dello 0,6%, contro una media OCSE 3 volte più grande), quella dei salari, stagnanti, e del Pil in declino, che risulta evidente soprattutto se lo confrontiamo in termini di quota relativa, sul Pil mondiale.
Figura. Quota R&D sul Pil (in % asse verticale), UE e Italia. Fonte: Eurostat
Fonte: Eurostat
Bisogna spingere imprese e Stato a investire nelle tecnologia moderne, a creare lavori buoni, da paese avanzato, a lasciar perdere i settori “facili”, ed i cattivi lavori, ad alta intensità di lavoro, che causano sfruttamento e bassi salari. Il turismo e la ristorazione, pur importanti, sono settori residuali in un paese grande ed avanzato, mentre bisogna sviluppare politiche industriali che creino segmenti produttivi ad alto contenuto tecnologico, far leva solo su innovazione, Ricerca & Sviluppo, e non sul costo del lavoro per aumentare la competitività. Questo permetterebbe di aumentare crescita, qualità della vita e sviluppo umano come evidenzia il grafico di sotto, piuttosto che spingere su attività poco produttive e bassi salari.