TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA
1. Cenni introduttivi.
Intitolo il mio scritto invertendo la sequenza tematica offerta dal titolo del convegno che lo ha occasionato giacché mi pare metodologicamente corretto che il ruolo del giudice venga delineato e apprezzato in relazione agli interventi del legislatore che egli è chiamato (e tenuto) ad applicare.
Occuparsi da giuslavorista, oggi, di delocalizzazioni impone di esaminare espressamente la recente disciplina introdotta dalla L. 30 dicembre 2021, n. 234, commi 224-238 (legge di bilancio finanziario 2022) [da ora legge 234] che, come vedremo, può definirsi “di scoraggiamento” delle chiusure e delocalizzazioni e che è stata prodotta dal Governo Draghi nell’ultimo anno della precedente legislatura con l’ambizioso obiettivo “di garantire la salvaguardia del tessuto occupazionale e produttivo del paese” , pur sotto il modesto titolo (della Sezione I) “Misure quantitative per la realizzazione degli obiettivi programmatici”.
Con l’avvertenza che tale disciplina non concerne specificamente le delocalizzazioni in quanto tali ma solo quelle che si accompagnano alla chiusura di unità produttive. Ad esempio, non concerne la mera traslazione geografica di una parte dell’attività svolta in una unità produttiva che continua ad operare, sia pure con riduzione dell’attività e del personale ad essa addetto. Traslazione che potrebbe avere anche risvolti positivi nella prospettiva di tale salvaguardia. Si pensi alla prima fase, almeno, del trasferimento verso il sud, negli anni ottanta, di alcuni assetti di produzione dello stabilimento Alfa Romeo (Fiat) di Arese.
Andrò quindi con ordine ad affrontare le questioni poste da questa disciplina partendo dai requisiti per la sua applicazione.
2. I requisiti di applicazione della legge 234/2021: il comma 224.
Il primo requisito, per così dire, in positivo, è che si abbia la “chiusura…con cessazione definitiva della relativa attività”, di una entità produttiva “autonoma”, essendo l’autonomia il carattere distintivo della formula mutuata dall’art. 35 della legge 300/1970 per individuare il perimetro di applicazione del proprio titolo terzo.
Sarà dunque da vedere se la giurisprudenza intenderà l’autonomia con l’elasticità che ha caratterizzato le operazioni ermeneutiche per l’applicazione appunto del titolo terzo dello Statuto ma anche per l’applicazione dell’art. 2112 c.c. al tempo in cui l’imperativo era favorire questa applicazione per contrastare trasferimenti di rami aziendali spogli del loro personale.
L’autonomia era allora incardinata sulla mera potenzialità del ramo di costituire veicolo di esercizio d’impresa pur se con le indispensabili integrazioni apportate dall’acquirente .
Notoriamente tale orientamento è stato abbandonato, agli inizi del secondo decennio del secolo presente, per essere sostituito da uno rigido, finalizzato a contrastare la cessione, con il personale addetto, di rami aziendali da parte di grandi imprese ad acquirenti ritenuti meno affidabili come datori di lavoro. Ciò, sulla scorta di una lettura impropria della giurisprudenza della CGUE , a conforto di una interpretazione del testo normativo di riferimento incompatibile con la sua lettera e con la sua ratio . Ovviamente, il nuovo orientamento risulterebbe restrittivo dell’ambito di applicazione della legge 234.
Secondo requisito è che la chiusura dell’unità produttiva comporti il licenziamento di almeno cinquanta lavoratori. Osserva Roberto Romei come non sia azzardato pensare che la giurisprudenza possa replicare l’orientamento, adottato nell’applicazione della legge 223/1991, che assimila ai licenziamenti le risoluzioni consensuali e le dimissioni, incentivate o meno.
Romei rileva puntualmente come questa operazione ermeneutica, incompatibile con la lettera della legge, sia essa pure condotta, in chiave di interpretazione comunitariamente orientata, sulla base di una lettura impropria della giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea .
3. Sul come la recente Magistratura del lavoro va interpretando il proprio ruolo.
Muovendo dalle osservazioni che precedono ritengo ora opportuno aprire una parentesi di riflessione su alcuni, recenti, interventi della giurisprudenza, in particolare della Suprema Corte, nella materia del diritto del lavoro dai quali emerge l’intensificazione di un ruolo attivo, di produzione piuttosto che di attuazione, di tale diritto.
Sono consapevole che sarò costretto in parte a ripetermi, come risulterà dagli scritti che andrò citando nelle note. Ma le norme vanno interpretate in funzione e proiezione della loro applicazione, essendo, quella giuridica, una <scienza> pratica e non teorica. E comunque, come si suol dire, la lingua batte dove il dente duole.
L’esercizio di funzione, nella sostanza, direttamente legislativa ad opera della Corte costituzionale percorre tutta la sua storia. Un esercizio caratterizzato tuttavia, per lo più, da una sorvegliata cautela, nella consapevolezza che la divisione dei poteri è un cardine della nostra Costituzione.
Nell’ultimo periodo, in materia lavoristica, tale cautela pare, non solo a me, essersi attenuata , se si considera la sequenza degli interventi in materia di Jobs Act e dei successivi di restaurazione dell’art. 18 dello Statuto realizzata attraverso la caducazione, nel comma 7, del verbo “può” e dell’avverbio “manifestamente” .
Detto esercizio appare, ancora non solo a me, più preoccupante quando operato dalla giurisprudenza ordinaria e soprattutto dalla Corte di Cassazione . Come allorché, a completamento della menzionata restaurazione, ha ritenuto di poter ricondurre, nel nostro ordinamento civilistico, a clausole generali le elencazioni, nei contratti collettivi, delle sanzioni irrogabili a fronte delle infrazioni disciplinari (c.d. tipizzazioni collettive) . Ciò al fine di recuperare il tradizionale criterio-guida della proporzionalità, nel “vaglio di contesto oggettivo e soggettivo” della condotta sanzionata, anche sul piano del discrimen tra tutela reale e tutela obbligatoria ai sensi dell’art. 18, comma 4, St. Lav.
Il culmine di questo esercizio improprio di funzione legislativa da parte della giurisprudenza ordinaria a me pare sia ravvisabile in materia di risarcimento del danno da contratti a termine illegittimi nel pubblico impiego privatizzato. Qui, a fronte della palese inesistenza del danno civilistico, la Suprema Corte ha ritenuto di potersi sostituire al legislatore mediante l’invenzione di un “danno comunitario”.
In un primo tempo ha adottato, per la sua quantificazione, “come criterio tendenziale quello indicato dalla L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 8, apparendo, invece, improprio il ricorso in via analogica sia al sistema indennitario onnicomprensivo previsto dalla L. n. 183 del 2010, art. 32, sia al criterio previsto dall’art. 18 St. lav., trattandosi di criteri che, per motivi diversi, non hanno alcuna attinenza con l’indicata fattispecie” .
Successivamente, intervenendo a Sezioni unite, la Corte ha adottato proprio il criterio previsto dal Collegato Lavoro del 2010 ed ha inaugurato l’orientamento ormai consolidato; tanto che la giurisprudenza di merito ritiene correntemente di poterlo adottare senza argomentazione alcuna .
Ho parlato di culmine ma forse con ottimismo. Sono state appena pubblicate due sentenze gemelle in cui la Corte di cassazione disegna il ruolo di un Giudice Demiurgo che, attinte informazioni di varia estrazione e ubbidendo alla propria sensibilità, stabilisce quale retribuzione sia conforme all’art. 36 Cost. indipendentemente e a prescindere dal contratto collettivo afferente alla categoria merceologica di appartenenza del datore di lavoro . Nel caso di specie, un CCNL sottoscritto da FILCAMS-CGIL e FISASCAT-CISL.
Mi pare opportuno segnalare che all’uopo la Corte Suprema ha cassato le impugnate sentenze delle Corti d’Appello, rispettivamente di Torino e di Milano. E mi pare altresì opportuno segnalare che la Corte di legittimità è stata preceduta da una (almeno, ch’io sappia) sentenza di Giudice monocratico .
Ora ovviamente la strada è spianata per la giurisprudenza di merito. Del resto sono certo che la sentenza della Suprema Corte troverà subito seguito in tale giurisprudenza, a partire, ovviamente, dalla <disapplicazione> del ccnl di cui a quel giudizio , e, in generale, riceverà ampio apprezzamento, anche da voci e scritti di magistrati, nei numerosi dibattiti già annunciati. Sarà presumibilmente anche sottolineata la sua benefica influenza sulla decisione di alcune imprese del settore di elevare sensibilmente i livelli retributivi in azienda .
Nulla potrà però farmi superare la (volendo usare un eufemismo) diffidenza nei riguardi di interventi giurisprudenziali improntati all’<allora ci penso io>. O, per essere più eleganti, improntati al perseguimento della giustizia (soggettiva) sostanziale.
Aggiungo che, mentre si discute in tutte le sedi e a tutti i livelli circa l’opportunità dell’introduzione del c.d. “salario minimo legale”, mi pare legittimo chiedersi se, nell’eventualità della sua introduzione, il Giudice disegnato dalla Suprema Corte dovrebbe (vel accetterebbe di) ritenersi da esso vincolato. Sono infatti sempre più ricorrenti le disapplicazioni sostanziali di norme tramite l’interpretazione costituzionalmente orientata ovvero le loro disapplicazioni dirette per contrarietà alla (non frequentemente lucida e coerente) giurisprudenza comunitaria senza transitare per l’abrogazione da parte della Corte Costituzionale.
Il Giudice Demiurgo potrebbe allora essere tentato di considerare il salario minimo legale, fisiologicamente uniforme, vincolante quanto al profilo della sufficienza ma non a quello della proporzionalità di cui pure all’art. 36 Cost, malgrado i c.c.n.l. articolino i minimi tariffari lungo una sequenza di livelli professionali.
Fugace dunque l’impressione che la Suprema Corte avesse maturato qualche ripensamento ritenendo di dover fare ricorso alla Corte costituzionale per l’abrogazione dell’avverbio “espressamente” che nel DL.vo n.23/2015 (c.d. Jobs Act) limita la sanzione della reintegra ai licenziamenti affetti da nullità dichiarate dal legislatore escludendola per quelli affetti da nullità (c.d. virtuale) derivante dalla violazione di norma imperativa . Ciò, malgrado da subito una parte della dottrina abbia sostenuto che anche nel secondo caso essa è espressamente comminata dall’art. 1418, comma 1, e comunque entrambe le nullità sono manifestazione del disvalore dell’ordinamento .
L’opzione di questa dottrina francamente preoccupa, attesa anche l’abbondante storia dottrinale e giurisprudenziale che differenzia i due tipi di nullità. Per quanto riguarda l’esito del procedimento dinnanzi alla Corte delle leggi preferisco astenermi da previsioni .
Per non lasciare incompiuta la digressione va osservato che l’ordinanza ha sollevato la questione solo per eccesso di delega in violazione dell’art. 76 Cost. (dovendosi ritenere irrilevante la criptica aggiunta “ed altri eventuali parametri derivati” che del resto compare solo in motivazione e non nel dispositivo). Ha così evitato di scendere sul delicato terreno della irragionevolezza, all’esterno del Decreto, del diverso trattamento previsto dall’art. 18 St. lav. per i due tipi di nullità, ovvero, all’interno del Decreto, del diverso disvalore loro attribuito. Anche se, notoriamente, la Corte costituzionale raramente applica l’art. 76 Cost., consapevole della sottigliezza del confine tra necessaria esaustività della delega e necessaria discrezionalità del legislatore delegato.
So che dovrei fermarmi con il (per me solo apparente) <fuori tema> volto a ricostruire lo scenario giurisprudenziale in cui sarà calata l’interpretazione della legge 334 ma mi sento in dovere di toccare un punto che ritengo nevralgico e che stimola la mia sofferenza.
Mi sono già assunto la responsabilità di segnalare i rischi, per l’autorevolezza e per la credibilità stessa della Suprema Corte, derivanti dal ricorso sempre più ampio e direi spesso disinvolto, seppure con l’ultima riforma incentivato da inopportune scelte legislative, alla trattazione delle cause in Camera di Consiglio.
In quella occasione avevo fermato l’attenzione anche sul contenuto dell’ordinanza . In questa sede intendo segnalare una recentissima ordinanza considerando piuttosto il modus operandi della Corte .
Il giudizio verteva sul diritto del lavoratore ingiustamente licenziato ad essere risarcito, fornendone la prova, del c.d. danno ulteriore (alla professionalità, all’immagine etc.) derivante dall’inattività lavorativa conseguente al licenziamento.
La questione, pur riguardando un caso anteriore al 2012, era, ed è, obiettivamente delicata, suscettibile anche di riverberi su casi interessati dalla riforma c.d. Fornero e dal Jobs Act.
Dunque già per questo a mio avviso meritava, in considerazione della funzione nomofilattica della Suprema Corte, non solo il rango della discussione in pubblica udienza e della decisione con sentenza, ma, di più, la rimessione alle Sezioni Unite della Cassazione.
Non così, certamente, se l’operazione ermeneutica dell’ordinanza fosse “in linea con la giurisprudenza di questa Corte”, come affermato sulla scorta di alcuni precedenti della Corte medesima.
Se non che solo uno di essi è pertinente, quanto al principio di diritto sancito , ma la risarcibilità del danno ulteriore sin dal licenziamento è ivi sostenuta esclusivamente sulla base del richiamo di due sentenze anteriori della Corte. Le quali però riguardano, rispettivamente, il danno da mancata reintegra e il danno da licenziamento ingiurioso .
Sono queste ultime le sentenze richiamate anche dall’ordinanza, unitamente ad un’altra ancora anteriore, riguardante essa pure il danno da mancata reintegra .
Molte sentenze, puntualmente argomentate, seguono invece un ben diverso orientamento. Così, ad es., quella che distingue chiaramente “il danno causato dalla mancanza del lavoro e della retribuzione”, rientrante nell’indennità prevista dall’art. 18 St. lav., dal danno “causato dall’intrinseco comportamento datorile con cui il licenziamento è attuato (licenziamento ingiurioso ovvero pretestuoso ovvero persecutorio)”, risarcibile se provato .
Parimenti la sentenza che ritiene risarcibile, in quanto provato, il danno ulteriore da licenziamento discriminatorio/persecutorio diversamente dal “danno non patrimoniale per coincidenza dei fatti costitutivi con l’impugnazione del licenziamento” (id est, danno derivante dal licenziamento in sé) .
Chiudo con il richiamo dell’elegante puntualizzazione offerta da una sentenza del 2018, anche se (o proprio perché) relativa ad un licenziamento intimato già nel vigore del testo novellato dell’art. 18 St. lav. .
“La Corte territoriale - si legge nella sentenza - si è correttamente conformata al principio consolidato affermato da questa Corte secondo cui, ove il licenziamento sia dichiarato illegittimo e se il datore di lavoro sia condannato al risarcimento del danno nella misura legale, l’ammontare di tale risarcimento copre tutti i pregiudizi economici conseguenti alla perdita del lavoro. Ciò non esclude la possibilità per il lavoratore di fornire la prova di ulteriori danni, ivi compreso il danno biologico., che siano conseguenze solo mediate e indirette (e quindi non fisiologiche e non prevedibili) del licenziamento)”.
Quindi, con tutta evidenza, danni (appunto, ulteriori) che non derivino dalla mera estromissione del lavoratore dall’azienda con conseguente cessazione dell’attività lavorativa.
4. Gli ulteriori requisiti di applicazione della legge 234: i commi 225 e 226.
Tornando finalmente al tema, un terzo requisito per l’applicazione della nuova disciplina è previsto dal comma 225: “la disciplina di cui ai commi da 224 a 238 si applica ai datori di lavoro che, nell’anno precedente, abbiano occupato, con contratto di lavoro subordinato, un numero minimo di lavoratori subordinati, inclusi gli apprendisti e i dirigenti, mediamente almeno 250 dipendenti”.
Il legislatore, che nel precedente comma 224 parla genericamente di “lavoratori”, vuole ora, considerati i tempi che corrono, puntualizzare, indirettamente ma testualmente, quanto peraltro implicito nel suo complessivo contenuto (giacché contempla solamente obblighi nei confronti di sindacati e di enti istituzionali), vale a dire che la legge 234 si applica solo ai datori che occupano lavoratori subordinati e non anche (per il tramite del ben noto art. 2, comma 1, L. 81/2015) a quelli che utilizzano lavoratori c.d. etero-organizzati
Orbene, il 28 settembre scorso il Tribunale di Milano , sulle orme di qualche precedente e diversamente da altri , nel contesto di un procedimento ex art. 28 St. lav. ha appunto qualificato incidentalmente lavoratori subordinati i riders per applicare loro la legge in questione.
Ciò, malgrado notoriamente la Suprema Corte, nel dichiarato esercizio della propria funzione nomofilattica, abbia ritenuto applicabile ai riders il menzionato art. 2, comma 1, escludendo che si tratti di lavoratori subordinati .
Non certo senza ragione, visto che non hanno l’obbligo di lavorare, ed oltre al se, sono liberi di stabilire il quando, il quanto, il dove (potendo scegliere il luogo in cui posizionarsi per ricevere le chiamate della piattaforma), il come (con quale mezzo e secondo quale percorso) lavorare; e non hanno neppure l’obbligo di fedeltà (potendo collegarsi liberamente a più piattaforme) .
V’è da pensare che il Giudice milanese non abbia però ritenuto di poter aderire all’orientamento del Tribunale di Bologna , il quale considera il ricorso ex art. 28 esperibile anche nei confronti di datori che utilizzano lavoratori etero-organizzati, Ciò, malgrado il generale sistema in cui tale ricorso è collocato e malgrado la norma (processuale, pur se suscettibile di produrre effetti sui rapporti individuali) abbia come oggetto offese recate ai soggetti collettivi.
Sul presupposto di detta qualificazione, il Giudice ha quindi ritenuto antisindacale il mancato espletamento della procedura prevista dalla legge 234 e, assimilando ai licenziamenti le comunicazioni ai collaboratori di disconnessione dalla piattaforma data la cessazione dell’attività aziendale, ha ordinato alla società medesima “di revocare tutti i recessi dai contratti di lavoro di coloro che svolgono la prestazione di rider con le modalità descritte in motivazione con account attivo alla data del 14 giugno 2023”, nonché di avviare con le OO.SS. ricorrenti prima la procedura ex lege 234 e poi quella ex lege 223/1991 “con riferimento ai rapporti di lavoro di coloro che in forma continuativa e personale svolgevano la loro attività come ciclofattorini per la società con account attivo alla data del 15 giugno 2023”.
Osservo come, specie nella prospettiva di una eventuale inottemperanza, penalmente rilevante ai sensi dell’art. 28, comma 4, l’individuazione dei lavoratori rimessa, nel dispositivo, al destinatario dell’ordine per relationem alla motivazione susciti non poche perplessità. Di più, un conto è revocare i “recessi” (id est, le disconnessioni) ed un conto diverso è attribuire poi incarichi ai collaboratori riconnessi.
Tornando alla interpretazione del testo di legge, rilevo come non sia il caso, in questa sede, di fermare l’attenzione sull’ulteriore requisito previsto, questa volta in negativo, dal comma 226, ove è stabilita l’esclusione del datore di lavoro il quale versi “in condizioni di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che ne rendono probabile la crisi o l’insolvenza e che possono accedere alla procedura di composizione negoziata della soluzione della crisi di impresa di cui al Decreto-Legge 24/8/2021, n. 118, convertito, con modificazioni, dalla Legge 21/10/2021 n. 147”.
In proposito mi limito quindi a rilevare che il requisito è incardinato su una valutazione prognostica il cui approfondimento mi condurrebbe inevitabilmente, ma impropriamente in questa sede, ad affrontare le questioni attinenti all’applicazione della disciplina contenuta nel D.L.vo 12 febbraio 2019, n. 14 (Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza). Del resto, l’esclusione stabilita nel comma 226 mira proprio a scongiurare ogni interferenza della legge 234 con tale disciplina.
5. Gli obblighi e i tempi della procedura. La facoltatività del “piano” e la funzione di <scoraggiamento> della legge 234.
È tempo allora di spiegare perché ho definito “di scoraggiamento” la disciplina, essenzialmente procedurale, introdotta dalla L. n. 234/2021”. Essenzialmente procedurale perché mi paiono sostanzialmente marginali le sanzioni di contenuto economico, pur gravose, previste dal comma 235 e dall’art. 37, comma 2, del DL n. 144/2022 (c.d. decreto aiuti ter), di cui dirò brevemente più avanti.
La disciplina procedurale si articola in due previsioni. La prima disposizione, contenuta nel comma 224, stabilisce che, ove risultino soddisfatte le condizioni di cui ho fin qui parlato, “il datore di lavoro…è tenuto a dare comunicazione per iscritto dell’intenzione di procedere alla chiusura” ai soggetti sindacali e ad alcuni soggetti istituzionali; comunicazione il cui contenuto è indicato nel successivo comma 227.
La norma non richiede testualmente - come invece l’art. 4, comma 2, della legge n. 223/1991 - che tale comunicazione sia “preventiva”. Se però ad essere comunicata deve essere “l’intenzione di procedere alla chiusura”, va preso atto che, seppur non testualmente, è prescritto che essa sia appunto anteriore alla chiusura stessa.
È già un primo step di scoraggiamento perché notoriamente i datori di lavoro, pur avendo in ipotesi assolto correttamente agli obblighi di informazione e consultazione di fonte collettiva, magari lasciando intravvedere il rischio della chiusura, preferirebbero però, per intuibili motivi, metterla poi effettivamente in atto contestualmente alla comunicazione formale di cui al comma in esame.
Ciò, del resto, si è talora verificato e può verificarsi quanto all’obbligo previsto dal menzionato art. 4, comma 2, della legge 223/1991. Ancora recentemente anche sul difetto di comunicazione preventiva dell’intenzione di procedere ai licenziamenti è stata fondata la dichiarazione di antisindacalità dell’avvio della relativa procedura da una recente sentenza della Corte d’Appello di Milano .
Tuttavia la dimensione temporale della <prevenzione> non può essere sopravvalutata perché essa, sia nella legge 223/1991 sia nella legge 234/2022, è prevista solo in funzione di determinare <bocce ferme>, quanto all’intimazione dei licenziamenti, durante il tempo stabilito dalla disciplina procedurale.
La seconda previsione, contenuta sempre nel comma 227, è, per così dire, duplice.
Per un verso è prescritto che tale comunicazione sia “effettuata almeno centottanta giorni prima dell’avvio della procedura di cui all’art. 4 della legge 23 luglio 1991, n. 223 (cioè la procedura prodromica al licenziamento collettivo).
Per altro verso, è stabilito che “i licenziamenti individuali per giustificato motivo e i licenziamenti collettivi intimati in mancanza della comunicazione o prima dello scadere del termine di centottanta giorni ovvero del minor termine entro il quale è sottoscritto il piano di cui al comma 228 sono nulli”. Quindi, la mancata presentazione del piano non invalida i successivi licenziamenti.
Vero che poi il comma 228 parrebbe in contraddizione giacché contiene una proposizione dal tenore lessicalmente precettivo: “entro sessanta giorni dalla comunicazione di cui al comma 224, il datore di lavoro elabora un piano per limitare le ricadute occupazionali ed economiche derivanti dalla chiusura” e “lo presenta” ai soggetti destinatari di detta comunicazione .
Se non che questa proposizione si rivela inequivocabilmente (non già precettiva ma) solo descrittiva di una scelta meramente eventuale del datore di lavoro allorché il comma 235 chiarisce, in continuità e coerenza con il comma 27, che la presentazione del piano è facoltativa: “in mancanza di presentazione del piano o qualora il piano non contenga gli elementi di cui al comma 228”, il datore di lavoro subisce esclusivamente un aggravio (ulteriormente aumentato in sede di conversione del DL n.144/2022) del contributo ordinariamente previsto in caso di adozione dei licenziamenti collettivi .
Il Decreto 144/2022 ha poi aggiunto, per il caso che il datore di lavoro pervenga comunque (persino nell’eventualità di accordo sindacale) ad intimare dei licenziamenti, un ulteriore deterrente economico costituito da un obbligo restitutorio .
Se decide (entro i sessanta giorni concessi dal comma 228) di elaborare e presentare il piano, il datore di lavoro ha dinnanzi a sé, prima di poter avviare la procedura di cui alla legge n. 223/1991, un necessitato lasso temporale dopo la comunicazione ancora non superiore ai centottanta giorni. Infatti è ragionevole ritenere, anche nella lettura combinata con il comma 227, che il comma 231, allorché stabilisce che “entro centoventi giorni dalla sua presentazione il piano è discusso”, con ciò fissi il termine finale della procedura ex legge 234.
Peraltro il successivo comma 133 stabilisce che “prima della conclusione dell’esame del piano e della sua eventuale sottoscrizione il datore di lavoro non può avviare la procedura di licenziamento collettivo”. Quindi il lasso temporale potrebbe dilatarsi in misura indeterminata se la norma venisse letta isolatamente e non, correttamente, in combinazione con le norme contenute nel comma 231 e nel comma 227.
Comunque, se decide di presentare il piano, il datore di lavoro si trova a percorrere un cammino impervio, anzitutto in quanto gli elementi prescritti per il suo contenuto dal comma 228 sono costituiti da una serie di impegni che non sono prescritti neppure per la comunicazione di cui all’art. 4 della legge 223/1991; la quale definisce “eventuale” l’adozione di “misure programmate per fronteggiare le conseguenze sul piano sociale dell’attuazione del programma” di riduzione del personale.
Di più, il percorso procedurale previsto dai commi 232 e 234 prefigura, in sostanza, la confusa anticipazione di quello previsto dalla legge 223/1991 nei commi successivi al terzo.
Ovviamente, la mancata presentazione del piano non preclude il dialogo informale tra datore di lavoro e sindacati anche prima della sua formalizzazione nell’alveo della procedura ex legge 223/1991.
7. Il contenuto della “comunicazione” e la prima giurisprudenza.
Acquisito dunque che, in mancanza di piano, la vis dissuasiva della legge 234 sta, fin qui, nella dilatazione del tempo intercorrente tra la decisione imprenditoriale e la sua attuazione, occorre ora vedere se tale vis esca rafforzata, risultandone mutata la valenza stessa della legge 234, dal contenuto prescritto dal comma 227 per la comunicazione; la quale “indica [a] le ragioni economiche, finanziarie, tecniche o organizzative della chiusura, [b] il numero e i profili professionali del personale occupato e [c] il termine entro cui è prevista la chiusura”.
Ben inteso, l’indagine sarebbe superflua se si ritenesse di attribuire portata limitativa al dato testuale che vede statuita, nel comma 227, la nullità dei licenziamenti solo per la “mancanza della comunicazione” e non anche per l’assenza o parzialità delle informazioni rese. Ma si tratterebbe di una scelta ermeneutica fragile.
Il dato sub [b] non dovrebbe porre problemi trattandosi, almeno nella prima fase, della fotografia dei lavoratori addetti all’entità produttiva destinata alla chiusura; dovendosi intendere, de plano, per “personale occupato” i lavoratori in carico “con contratto di lavoro subordinato” indicati nel precedente comma 225.
Il dato sub [c] è già meno decifrabile. Si può ipotizzare che il termine sia individuato nella data di cessazione dell’attività con collocazione dei lavoratori in CIGS qualora sussistano le condizioni per la sua concessione; diversamente, nella data, ancor più incerta, di conclusione della procedura per l’attuazione dei licenziamenti. con conseguente attivazione degli stessi.
Trattandosi di termine obiettivamente, si potrebbe anzi dire fisiologicamente, incerto è prevedibile che il contenzioso e il vaglio critico dei giudici si concentrerà piuttosto sul rispetto della formula sub [a], cioè sull’adeguatezza/completezza/veridicità delle “ragioni” dichiarate dal datore di lavoro a fondamento della scelta di chiusura dell’entità produttiva.
La formula però si presenta sì come onnicomprensiva, ma, a ben riflettere, nella sua generica laconicità poco si presta a favorire operazioni ermeneutiche teleologicamente orientate che non si risolvano palesemente in incursioni ad explorandum all’interno delle società e delle aziende o in valutazioni di merito delle scelte imprenditoriali.
Qualche spunto di riflessione in proposito può trarsi dalla recentissima giurisprudenza che si è andata formando nella più recente giurisprudenza impegnata in procedimenti ex art. 28 St. lav. relativi a vicende riconducibili all’ambito di applicazione della legge 234.
Orbene, i giudici hanno fondato le pronunce di antisindacalità essenzialmente sull’inadempimento o sull’inesatto adempimento di una serie di obblighi di informazione e consultazione di fonte contrattuale ritenuti necessariamente prodromici alla comunicazione prevista dalla legge 234. E si sono dati carico di dimostrare che detti obblighi - in particolare, quelli contenuti nell’art. 9, sezione prima, del ccnl metalmeccanici - non possono ritenersi assorbiti da tale legge.
Francamente, quella dell’assorbimento mi pare una falsa questione perché la legge, come visto, non impone alcun procedimento consultivo e perché gli elementi richiesti dal comma 228 sono diversi dal contenuto di detto art. 9.
Di più, il Decreto aiuti ter -forse non a caso a settembre del 2022, quando la questione era emersa nel contenzioso giudiziario - ha inserito nell’articolo 1 della legge 234 il comma 237-bis secondo cui “sono fatte in ogni caso salve le previsioni di maggior favore per i lavoratori sancite dai contratti collettivi di cui all’art. 51 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81”.
Comunque, al di là dell’improprietà del riferimento ai lavoratori essendo destinatari della legge i soggetti sindacali, non è dato comprendere per quale mai ragione nel nostro ordinamento privatistico potrebbero risultare implicitamente caducati (per il passato) o preclusi (per il futuro) diritti dei lavoratori di fonte collettiva. Ancor meno, diritti dei soggetti sindacali.
Piuttosto, la vera questione attiene, come risulta da tale giurisprudenza, agli spazi di discrezionalità che si aprono alla valutazione (teleologicamente orientata) dei giudici in merito all’adempimento degli anzidetti obblighi di fonte collettiva. Ma questo è tutt’altro discorso.
Piuttosto va osservato che la <risorsa> dell’art. 9 ccnl metalmeccanici non è disponibile, oltre, ovviamente, allorquando l’impresa appartiene ad una categoria merceologica il cui ccnl non contiene una clausola analoga, anche allorquando, se pure metalmeccanica, l’impresa non applica il relativo ccnl.
Quel che si può constatare è che i decreti ex art. 28 e la sentenza nel grado successivo che ho assunto come paradigmatici contengono ordini nei confronti dei datori di lavoro non agevolmente decifrabili, nei quali obblighi negoziali <prodromici> e comunicazione ex comma 224 tendono a confondersi e sovrapporsi; e seguono poi vie diverse quanto all’incidenza o meno dell’antisindacalità sui licenziamenti, se già intimati.
Consideriamo un decreto del Tribunale di Trieste . Il Giudice, premesso che ravvisa “l’effetto della condotta antisindacale” nell’”invio di una comunicazione relativa alla decisione di chiudere il sito produttivo che non sia stata preceduta da una consultazione sindacale”, ne deduce che “allora altra soluzione non v’è che riportare la situazione allo status quo ante…affinché si dia luogo alla concertazione fra datore di lavoro e sindacati prevista da contrattazione collettiva ed integrativa; concertazione che dovrà ovviamente essere effettiva e non risolversi nella mera esibizione della comunicazione già inviata” (ed incardinata sulla determinazione di chiusura assunta dalla società estera <madre>).
Per conoscere i requisiti della effettività, in mente iudicis, ci si potrebbe solo abbandonare ad impressioni, se non illazioni, desunte dalle argomentazioni che conducono il Giudice a ritenere inadempiuti gli anzidetti obblighi di fonte negoziale. Nulla nel decreto, in materia di eventuali conseguenze in materia di licenziamenti, ma, deve ritenersi, perché non ancora intimati; altrimenti presumibilmente sarebbe stata decretata la loro invalidità in quanto indispensabile corollario per “riportare la situazione allo status quo ante”.
La Corte d’Appello di Milano, con la sentenza prima richiamata , pronunciando, ratione temporis, in relazione alla comunicazione ex art. 4 legge 223, ma con un argomento riferibile anche a quella ex legge 234, giudica antisindacale la comunicazione inviata dal datore di lavoro sia in quanto non “preventiva”, come già visto, sia “in quanto [violando l’art. 9 del ccnl metalmeccanici] ha messo i sindacati davanti al fatto compiuto (chiusura dello stabilimento e allontanamento dei lavoratori addetti [tramite i collocamenti in ferie d’ufficio equiparati a licenziamenti]) pregiudicando l’immagine del sindacato davanti ai lavoratori e il diritto delle organizzazioni sindacali di assistere i dipendenti estromessi”.
La Corte, però, diversamente dal Tribunale di Milano nel decreto prima esaminato , esclude l’incidenza della condotta antisindacale sulla validità dei licenziamenti intimati, mancando l’allegazione e la prova del nesso causale tra tale condotta e l’esito finale della procedura di cui alla legge 223/1991, e si limita quindi alla declaratoria di antisindacalità (facendone solo derivare la condanna al risarcimento del danno all’immagine delle organizzazioni ricorrenti).
La discussione al riguardo tra gli addetti ai lavori sarà prevedibilmente ampia ed animata. Restando però sul terreno della comunicazione ex legge 234, che sappiamo dover essere seguita dalla procedura ex legge 223/1991, l’incidenza dei vizi della comunicazione sulla validità dei licenziamenti, nel contesto sistematico della legge 234 (molto diverso, come visto, da quello della legge 223/1991) può essere immaginata solo in forza di una concezione espansiva, meglio, invasiva dei poteri del giudice nel procedimento ex art. 28 St. lav.
Tanto più che, nell’area dei rapporti posteriori al 7 settembre 2015, verrebbe anticipata una sanzione diversa da quella solo <obbligatoria> prevista per l’irregolarità procedurale dal D.L.no n. 15/2015. .
In ogni caso, come ho poc’anzi osservato, l’inadeguatezza della comunicazione, stando agli elementi prescritti dal comma 228, è difficile da immaginare senza intrusione nel merito delle scelte imprenditoriali.
Terminando, confesso di essere consapevole che le mie prospettazioni ermeneutiche possono suscitare reazioni <emozionali> mentre sono purtroppo crescenti le chiusure di aziende o di loro rami. Ma non posso non restare fedele alla mia concezione del mestiere del giuslavorista.
Sono altresì consapevole che tutti versiamo in uno stato d’animo, eufemisticamente definibile, di disagio. Viviamo infatti in un periodo storico angustiato dall’intensificazione dei <radicalismi>. Sia all’esterno del Paese, ove parlare semplicemente di radicalismi è tristemente minimalistico, sia all’interno del Paese, a tutti i livelli . Il che rende particolarmente ardua l’elaborazione, nella sede propria della politica e della legislazione, di soluzioni che realizzino un equilibrio ragionevole e sostenibile tra diritti dei lavoratori e diritti (o libertà) delle imprese.