TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA
Corte cost. sent. n.7 del 2024
Corte cost. sent. n. 22 del 2024
1. Sulla (non) trasparenza delle operazioni ermeneutiche giurisprudenziali.
Nelle relazioni introduttive e nei successivi interventi programmati la trasparenza è stata variamente intesa e declinata, come attributo coessenziale della democrazia, come moda o come mito, come valore o come principio o come regola (nebulosa) di diritto.
Ciò, sempre sul versante degli obblighi del datore di lavoro quanto all’esercizio, appunto, trasparente dei suoi poteri e, correlativamente, sul versante degli spazi di controllo giudiziale dell’adempimento di tali obblighi nonché delle conseguenze del loro eventuale inadempimento.
Diversamente, intendo proporre una personale declinazione della trasparenza sul versante, inusuale, della giurisprudenza.
Beninteso, il profilo della (non) trasparenza delle operazioni ermeneutiche giurisprudenziali, in particolare della Suprema Corte, non è propriamente un fuor d’opera siccome funzionale a ricostruire il <clima> nel quale andrà a calarsi l’applicazione della disciplina diretta a garantire “la trasparenza nei rapporti di lavoro”.
Devo riconoscere tuttavia che si tratta di un profilo, per così dire, tangenziale al tema del convegno, tanto più che, per ovvie esigenze di contenimento, non potrò occuparmi, come invece in altra occasione, delle questioni interpretative relative a detta disciplina, cioè, propriamente, dell’oggetto del convegno .
Non so tuttavia rinunciare, nel contesto della tradizione convegnistica di Bertinoro e dinnanzi ad un’ampia platea di amici e colleghi, alla tentazione di esprimere la mia preoccupata, e documentata, convinzione che nel terzo decennio di questo secolo il diritto del lavoro vivente stia attraversando una accelerata fase di rivoluzione improntata al recupero di un approccio garantistico riconducibile, mutatis mutandis, a quello degli < anni settanta>; all’epoca, in un contesto socio-economico e legislativo ben diverso.
Tanto che i temi all’ordine del giorno del dibattito dottrinale nei decenni precedenti appaiono già remoto il primo, circa la coniugazione del garantismo con la flessibilità, e impallidito il secondo, circa la coniugazione del garantismo con la sostenibilità.
2. Le sollecitazioni della Consulta.
L’evoluzione/involuzione della giurisprudenza della Suprema Corte innegabilmente ha avuto inizio sotto l’egida, se non, più ancora, per impulso della Corte Costituzionale; la quale, notoriamente, ha operato una serie di interventi di parziale restaurazione dell’art. 18 Statuto dei Lavoratori nel suo originario contenuto .
Ciò, pur se la Corte delle leggi è stata più cauta, nel medesimo torno di tempo, sul piano del Jobs Act. Ha fatto bensì alcuni interventi incisivi ma è rimasta sorda alla richiesta, da parte della Corte d’Appello di Napoli , di abrogare l’art. 10 del D. Lgs. n. 23/2015 nella parte in cui prevede la tutela solo indennitaria per le violazioni delle procedure e dei criteri di scelta di cui alla L. n. 223/1991 . Uno dei capisaldi del Jobs Act.
La mia riflessione sulla trasparenza muove allora, pour cause, dallo scritto di una Presidente di Sezione della Corte d’Appello napoletana appena cessata dall’Ufficio. Questo scritto, molto critico della sentenza della Corte Costituzionale, ha infatti un titolo sul quale merita che si fermi l’attenzione: “La partita non si chiude con la sentenza 254/2020” .
È opportuno riflettere su questo titolo, coerente peraltro con il contenuto dello scritto, perché, a parte il tono pugnace, esprime qualcosa di non detto ma intuibile: la <partita> evoca la squadra, il concerto.
La Corte d’Appello di Napoli ha successivamente reiterato la richiesta alla Corte Costituzionale di abrogare l’art. 10 del D. Lgs. n. 23/2015 cercando di emendare i vizi che avevano determinato la precedente dichiarazione di inammissibilità .
Mentre ero impegnato a rielaborare la mia relazione è stata pubblicata la sentenza della Consulta che ha dichiarato infondate le questioni sollevate dalla Corte napoletana .
3. Le misure organizzative per la nomofilachia.
Vado ora a spostare l’attenzione sul piano della recente giurisprudenza della Suprema Corte muovendo ancora da uno scritto, pubblicato in LDE (rivista, va riconosciuto, sensibile alla valorizzazione delle esigenze di trasparenza), nel quale l’allora Presidente Titolare della Sezione Lavoro ed un Consigliere della medesima esponevano le iniziative organizzative assunte con riguardo all’articolazione dell’attività della Sezione, consentendo così, per la prima volta, uno sguardo dall’esterno sui suoi “interna corporis” .
Mi valgo, per offrire una sintesi di tali iniziative, dell’attento commento di due avvocati giuslavoristi pubblicato sempre in LDE .
“Medesimi Collegi sarebbero formati per dirimere vicende del pubblico impiego, ovvero quelle di natura previdenziale, ovvero, infine, quelle attinenti al lavoro privato.
All’interno di queste tre macroaree, poi, ci si è spinti ancora oltre, creando una sorta di verifica ed esame preliminare delle varie questioni, per indirizzarle in sottocategorie a cui affidare, nei fatti, sempre gli stessi Collegi.
In altre parole, si è assegnato a composizioni di Collegi una rotazione limitata e, sempre in un’ottica di maggiore specializzazione, deciso di affidare agli stessi (Collegi) questioni giuridiche comuni”.
Dunque, osservano i due Avvocati, una serie di iniziative organizzative ispirate dalla commendevole intenzione di favorire una maggiore celerità dei giudizi e una maggiore prevedibilità dei loro esiti.
Concordo io pure con tale valutazione positiva. Ciò vale per il rafforzamento della funzione nomofilattica della Sezione Lavoro, purché non si traduca in un assorbimento di fatto di quella delle Sezioni Unite, che va preservata quando sono prospettate scelte ermeneutiche suscettibili di incidere sull’assetto dell’ordinamento giuslavoristico consolidato.
Ciò vale altresì per quanto riguarda la specializzazione per materie e la tendenziale stabilità della composizione dei Collegi.
Non penso infatti che l’innovazione organizzativa possa essere considerata, di per sé, veicolo determinante nella <partita>, che si è andata poi giocando nel triennio 2021-2023, orientata al ripristino (aggiornato) di un diritto del lavoro d’antan. Al più, può averla favorita, giacché la composizione dei Collegi e l’affidamento ad essi delle cause sono sempre frutto, comunque, delle scelte della Direzione organizzativa.
4. L’ordinanza della Cassazione, Sez. VI, per il “necessario” revirement nell’interpretazione dell’art. 18, co. 4, St. Lav. e la relativa sentenza della Sezione Lavoro.
Presidente Titolare della Sezione Lavoro è divenuto un Consigliere da poco rientrato in Cassazione dopo un lunghissimo cursus honorum strasburghese, culminato, dal 2010 al 2019, nella Presidenza della CEDU.
Questa Corte, si sa, per sua stessa missione è propensa a produrre una giurisprudenza in cui lo stimolo garantista fa aggio sull’argomentazione e sulla ermeneutica giuridica.
Mi permetto di osservare come il rilevante profilo di questo Magistrato risulti ben illustrato dall’ampia intervista rilasciata, appena rientrato in Cassazione, ad uno dei componenti del Comitato scientifico di Giustizia Insieme, la rivista di Area Democratica per la Giustizia .
Credo di poter ravvisare la data di esordio della <partita> nel 27 maggio 2021, allorché un Collegio della Sezione Sesta emette una laboriosa ordinanza in cui, sulla dichiarata scorta delle sentenze della Corte costituzionale e al fine di completare la restaurazione del vecchio testo dell’art. 18 St. Lav., è sostenuta la necessità di un revirement del diritto vivente con riguardo alla questione della riconducibilità del fatto contestato alle c.d. tipizzazioni delle sanzioni disciplinari di cui al novellato comma 4 della norma .
L’ordinanza sottolinea che si tratta di questione di grande importanza, con riguardo alla quale è prospettato un revirement del diritto vivente suscettibile di incidere profondamente sulla disciplina sanzionatoria dei licenziamenti. Una questione quindi meritevole di una trattazione e decisione particolarmente autorevole, tale da potere fondare, appunto autorevolmente, il nuovo orientamento.
Ho usato consapevolmente l’aggettivo <grande> per qualificare la questione al fine di sfuggire all’annosa, troppo spesso strumentale, diatriba intorno alla distinzione/accavallamento della <questione di massima di particolare importanza> e della <questione di diritto di particolare rilevanza> (rispettivamente, art. 374, comma 2 e art. 375, comma 1, c.p.c.) .
Ciò, in quanto sono convinto che ancora nel secondo decennio del secolo corrente una questione come questa avrebbe finito per essere rimessa alle Sezioni Unite.
La Sezione Sesta invece ha rimesso la causa direttamente alla Sezione Quarta, ove era pronto ad accoglierla il Collegio per consacrare il nuovo orientamento facendo proprie le argomentazioni svolte nell’ordinanza .
È il Collegio che successivamente, con qualche avvicendamento, si è occupato, ad esempio, delle delicate questioni attinenti al controllo dell’attività lavorativa, a cominciare da due sentenze coeve redatte dallo stesso Presidente per seguire con quelle redatte da altri Componenti del Collegio . Di queste sentenze ho trattato specificamente in un saggio cui in questa sede non posso che rinviare .
5. L’ordinanza della Cassazione di rimessione alla Consulta sulle nullità “espressamente” previste dalla legge nell’art. 2, D.Lgs. n. 23/2015.
Sempre il medesimo Collegio, in sostanziale continuità di composizione, ha sollecitato la Corte costituzionale ad eliminare, nell’art. 2, comma 1, D. Lgs. 23/2015, in quanto eccedente la delega, “la delimitazione della tutela reintegratoria ai casi di nullità <espressamente previsti dalla legge>”. Ciò, con conseguente uniformazione, relativamente alle loro conseguenze sanzionatorie, delle nullità testuali specificamente riferite ai licenziamenti e delle nullità genericamente derivanti dalla violazione di norme imperative; cioè, per inciso, di tutte le norme del diritto del lavoro .
Per orientarsi sulla questione occorre muovere dall’art. 18, comma 1, St. lav.; il quale contempla, dopo alcune specifiche ipotesi di licenziamento testualmente nullo (discriminatorio, per causa di matrimonio e per causa di maternità o paternità), a chiusura, l’ipotesi del licenziamento <riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge>. Aggiunge poi l’ipotesi del licenziamento affetto dalla nullità di diritto civile comminata dall’art. 1418, comma 2, al negozio affetto da motivo illecito determinante.
Al di là del dato letterale, offerto dalla consecuzione tra le tre ipotesi di nullità esplicitamente menzionate e la formula di chiusura, l’aggiunta successiva conferma che tale formula si riferisce ad ulteriori, eventuali, specifiche previsioni di nullità del licenziamento reperibili nell’ordinamento. Diversamente, la menzione della sola ipotesi di nullità di diritto comune prevista dell’art. 1418, comma 2, non si spiegherebbe.
Senza dire che, per un verso, la disciplina dei licenziamenti è, per pacifica ammissione, un unitario corpo speciale rispetto al diritto comune e, per altro verso, che nel diritto comune la contrarietà a norme imperative/inderogabili non sempre e non necessariamente comporta la nullità dell’atto .
Quanto fin qui osservato trova conferma nel materiale di supporto sulla cui base la nuova norma è stata elaborata dal Parlamento .
Vero allora che la legge delega contiene un generico riferimento ai <licenziamenti nulli e discriminatori>. È però innegabile che il legislatore delegante abbia avuto quale referente sistematico l’art. 18, comma 1, St. lav., come del resto risulta confermato, anche qui, dal materiale di supporto sulla cui base l’art. 1, comma 7, lett. c) è stato varato dal Parlamento .
Dunque, non si comprende perché il legislatore delegato sarebbe incorso in eccesso di delega dettagliando la disciplina delle nullità comportanti la caducazione del licenziamento e la reintegra, come risulta anche dai lavori parlamentari, sulla falsariga della disciplina vigente per i rapporti di lavoro correnti .
È infine appena il caso di osservare come l’avverbio <espressamente>, aggiunto dal decreto del 2015 alla formula dell’art. 18, comma 1, St. lav., possa trarre in inganno ma sia solo una accentuazione irrilevante. Infatti, la nullità prevista dalla legge è per definizione una nullità espressa, id est, stabilita, appunto, dalla legge. Basta considerare la formula con cui l’art. 1418 c.c., norma cardine delle nullità civilistiche, nel suo terzo comma definisce proprio le nullità testuali: <il contratto è altresì nullo negli altri casi stabiliti dalla legge>.
Concludendo, mi permetto di osservare che l’intervento manipolativo sollecitato dall’ordinanza di rimessione, che sostanzialmente richiede alla Consulta l’eliminazione dell’inciso <espressamente previsti dalla legge>, avrebbe conseguenze paradossali. Infatti, una riforma finalizzata a ridurre l’area della tutela reale, per le ragioni ben esposte dalla sentenza della Corte costituzionale poc’anzi richiamata, se la ritroverebbe irragionevolmente estesa, quantomeno relativamente al regime delle nullità. Mentre nella medesima sentenza la Consulta ha sottolineato “il necessario completamento di disciplina intrinseco al potere legislativo delegato per assicurare la coerenza complessiva della normativa risultante” .
Nel caso vagliato dall’ordinanza di rimessione il paradosso risulterebbe ancor più trasparente giacché l’intervento della Consulta è stato sollecitato dalla Suprema Corte al fine dell’estensione della massima tutela reale ad un licenziamento adottato in violazione di un requisito procedurale previsto da un risalente Regio Decreto ed impugnato solo per tale vizio (avendo il lavoratore ammesso i fatti contestati sin dalla fase disciplinare). Ciò, mentre l’art. 4 del D. lgs 23/2015 statuisce la tutela obbligatoria per la violazione dei requisiti formali e procedurali previsti dalle norme imperative/inderogabili ivi richiamate; norme di protezione al pari di quella in rilievo nel giudizio a quo.
Di più, il caso retrostante l’ordinanza di rimessione consente di apprezzare la ragionevolezza, al fine di assicurare la prevedibilità delle decisioni, id est la certezza del diritto, della scelta, sia del legislatore del 2012 sia del legislatore del 2014/15, di limitare la tutela reale ai casi di nullità del licenziamento previsti specificamente dalla legge.
D’altro canto, la stessa Corte rimettente riconosce, esplicitamente, che il risultato perseguito non è conseguibile in via di interpretazione costituzionalmente orientata e, implicitamente, denunciando solo l’eccesso di delega, che non potrebbe ritenersi di per sé costituzionalmente illegittima la limitazione della tutela reale ai soli casi di nullità del licenziamento per esso testualmente previsti. Cioè ai casi ritenuti dal legislatore meritevoli del massimo disvalore dell’ordinamento.
Piuttosto, in conclusione, va riconosciuta una criticità nella corrispondenza tra legge delega e legge delegata. Se infatti deve ammettersi che la prima ha usato una formula sintetica avendo come referente sistematico la disciplina dell’art. 18, comma 1, v’è da dubitare che la seconda potesse escludere dall’area delle nullità comportanti la conservazione della tutela reale quella derivante dal motivo illecito determinante. Si tratta però, all’evidenza, di una prospettiva ben diversa da quella, sollecitata dall’ordinanza, della caducazione tout court della locuzione <espressamente previsti dalla legge>.
6. Le ordinanze di rimessione alla Consulta del Tribunale di Ravenna sui licenziamenti per giustificato motivo oggettivo e del Tribunale di Catania sull’insussistenza del fatto nel Jobs Act.
Per completezza rammento che il Tribunale di Ravenna (casualità?) vorrebbe che la Consulta ritenesse costituzionalmente illegittimo, addirittura, l’art. 3, co. 1 e 2, D. Lgs. n. 23/2015, nella parte in cui, per i licenziamenti economici, non prevedono la tutela reale in caso di insussistenza del fatto .
Ho commentato, insieme ad Elisa Puccetti, questa ordinanza in quanto la Consulta non si era ancora pronunciata con riguardo alla questione di legittimità della disciplina del Jobs Act circa i licenziamenti collettivi illegittimi. Mentre, alla luce di una sentenza dal contenuto di quella prima considerata, avremmo ritenuto la questione sollevata dal Tribunale prima facie manifestamente infondata e quindi l’ordinanza non meritevole di annotazione.
Beninteso, l’assalto della magistratura di merito al Jobs Act tramite ordinanze di rimessione alla Corte costituzionale non si è fermato qui (né, presumibilmente, si fermerà tanto presto).
Così, poco dopo, il Tribunale di Catania ha chiesto alla Consulta di operare il recupero, nell’art. 3, comma 2, D. Lgs. n. 23/2015, della formula dell’art. 18, comma 4, St. lav., ben consapevole che per questa via, grazie all’orientamento inaugurato dalle sentenze della Cassazione n. 11665 e n.13063 del 2022 di cui ho parlato nel precedente par.3, si determinerebbe la surrettizia estensione dell’art. 18, come ormai ampiamente restaurato, anche ai rapporti di lavoro regolati dal Jobs Act .
7. L’ordinanza della Cassazione sul danno “ulteriore” da licenziamento illegittimo.
Tornando alla Suprema Corte, una specifica riflessione meriterebbe la sentenza che ha rimosso, nella successione di contratti a termini, le decadenze maturate anteriormente all’impugnazione dell’ultimo di essi .
La sentenza perviene al risultato perseguito mediante un’operazione ermeneutica fondata su una interpretazione per un verso estensiva delle fonti comunitarie e per altro verso traslativa dei rapporti per i quali la decadenza è maturata sul piano dell’“antecedente storico” suscettibile di “<rilevare fattualmente>”.
Anche questa sentenza richiederebbe ovviamente un commento specifico improponibile in questa sede. Mi limito quindi a segnalarla alla comune riflessione.
Ora devo piuttosto osservare come la deriva ipergarantista della Sezione Lavoro si sia fatta impetuosa da quando, nei Collegi chiamati ad affrontare le questioni nevralgiche del diritto del lavoro, ha cominciato ad essere inserito, per di più anche con funzioni di relatore e quindi poi di estensore, un Consigliere che quale Giudice monocratico del Tribunale di Ravenna può vantare dei trascorsi da fare invidia a quelli dei c.d. <pretori d’assalto> degli anni settanta ed ottanta.
Emblemi della accelerazione ed estensione del nuovo corso si prestano ad essere considerate, anche per il loro risalto mediatico, le sentenze gemelle, depositate a seguito della pubblica udienza del 14 settembre 2023 , dalle quali, nel contesto di una inedita applicazione dell’art. 36 Cost., esce l’immagine di un Giudice Demiurgo, arbitro della giustizia sostanziale.
La questione è all’evidenza complessa e non posso quindi affrontarla ex professo in questa sede né ho potuto farlo nella sede che ha generato un altro scritto in via di pubblicazione , cui comunque rinvio per qualche spunto in più.
Preferisco fermare l’attenzione su un’altra ordinanza, pubblicata a seguito di un’udienza camerale del 13 settembre 2023 , perché la ritengo assai più significativa e, francamente, inquietante.
Ciò, già per la delibazione in Camera di Consiglio, essendo stata trattata una questione particolarmente rilevante in ragione dell’operazione ermeneutica prospettata dal Relatore. La soluzione, pur riguardando un caso anteriore al 2012, appariva all’evidenza suscettibile di riverberi sui casi interessati dalla riforma c.d. Fornero e dal Jobs Act.
Certo, in caso di trattazione in pubblica udienza nulla sarebbe cambiato. Resta invece il dubbio per il caso di devoluzione alle Sezioni Unite, come a mio avviso sarebbe dovuto accadere. Ma ormai la Sezione Lavoro pare avviata a svolgere la funzione nomofilattica in via, di fatto, esclusiva.
Anche di questa ordinanza mi sono occupato nello scritto appena menzionato. Ritengo però opportuno, per concentrazione del discorso critico, auto-plagiarmi, considerato anche che entrambi gli scritti sono destinati alla pubblicazione nella medesima rivista.
Il giudizio verteva sul diritto del lavoratore ingiustamente licenziato ad essere risarcito, avendone fornito la prova, del c.d. danno ulteriore (alla professionalità, all’immagine etc.) derivante dall’inattività lavorativa in quanto tale, determinata cioè dal licenziamento, anche per il periodo anteriore all’ordine di reintegra.
L’ordinanza mi ha sorpreso, usando un eufemismo, più ancora che per l’affermata risarcibilità di tale danno, per l’essere la scelta ermeneutica dichiarata “in linea con la giurisprudenza di questa Corte” -quindi adottabile senza approfondita argomentazione- sulla scorta di alcuni precedenti in realtà inidonei ad esprimere tale “linea”.
Di quei precedenti, solo uno è apparentemente pertinente, quanto al principio di diritto sancito , ma la risarcibilità del danno ulteriore sin dal licenziamento è sostenuta esclusivamente sulla base del richiamo di due sentenze anteriori della Corte riguardanti, rispettivamente, il danno da mancata reintegra e il danno da licenziamento ingiurioso .
Sono queste ultime le sentenze richiamate anche dall’ordinanza, unitamente ad altra ancora anteriore, riguardante essa pure il danno da mancata reintegra .
Numerose sentenze, puntualmente argomentate, seguono invece ben diverso orientamento.
Tra le tante, può essere segnalata quella che distingue chiaramente “il danno causato dalla mancanza del lavoro e della retribuzione”, rientrante nell’indennità prevista dall’art. 18 St. Lav., dal danno “causato dall’intrinseco comportamento datoriale con cui il licenziamento è attuato (licenziamento ingiurioso ovvero pretestuoso ovvero persecutorio)”, risarcibile se provato .
Parimenti, la sentenza che ritiene risarcibile, in quanto provato, il danno ulteriore da licenziamento discriminatorio/persecutorio diversamente dal “danno non patrimoniale per coincidenza dei fatti costitutivi con l’impugnazione del licenziamento” (id est, danno derivante dal licenziamento in sé) .
Il diritto vivente, insomma, può ritenersi sintetizzato efficacemente da una sentenza del 2018, anche se (o proprio perché) relativa ad un licenziamento intimato già nel vigore del testo novellato dell’art. 18 dello Statuto .
Secondo la sentenza “la Corte territoriale si è correttamente conformata al principio consolidato affermato da questa Corte secondo cui, ove il licenziamento sia dichiarato illegittimo e il datore di lavoro sia condannato al risarcimento del danno nella misura legale, l’ammontare di tale risarcimento copre tutti i pregiudizi economici conseguenti alla perdita del lavoro. Ciò non esclude la possibilità per il lavoratore di fornire la prova di ulteriori danni, ivi compreso il danno biologico, che siano conseguenze solo mediate e indirette (e quindi non fisiologiche e non prevedibili) del licenziamento”.
Alla stregua di tale principio, la Suprema Corte condivide il rilievo della Corte di merito per cui, "escluso il carattere ritorsivo del licenziamento, la domanda di risarcimento in quanto legata unicamente al danno che si assume cagionato dalla illegittimità del licenziamento non può trovare accoglimento".
Va ora aggiunto, in chiusura sul punto, che la Corte costituzionale, nella sentenza n. 7/2024 di cui ho prima parlato, al punto 18.3 è tornata a ribadire la legittimità costituzionale del descritto diritto vivente: “La personalizzazione del ristoro resta in ogni caso garantita entro l’intervallo in cui va quantificata l’indennità spettante al lavoratore illegittimamente licenziato e comunque l’indennità, pur assorbendo tendenzialmente qualunque voce di danno, patrimoniale e non patrimoniale, non preclude alla giurisprudenza di identificare ipotesi di danno ulteriormente risarcibile, come nel caso di danni derivanti da licenziamento ingiurioso (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 25 gennaio 2021, n. 1507)” .
Lo spazio che ho dato a questa ordinanza non mi consente di fermare l’attenzione su un’altra di poco successiva, che pur lo meriterebbe. Mi riferisco a quella che ha portato all’estremo la dilatazione delle <fattispecie> del mobbing e dello straining e la loro trasmigrazione sul terreno della responsabilità ex art. 2087 c.c. .
8. Conclusioni.
Previsioni su un mutamento di <clima> a partire dall’anno da poco iniziato sarebbero, ovviamente, azzardate. Uno spiraglio mi pare di poter intravvedere, a valle della sentenza n. 7/2024 della Corte costituzionale, in una sentenza quasi contemporanea della Suprema Corte .
Ho osservato poc’anzi come sarebbe opportuno il recupero, nel Jobs Act, della tutela reale per i licenziamenti intimati <esclusivamente per un motivo illecito> (ex art. 1345 c.c.) pur convinto che il legislatore abbia omesso il riferimento contenuto nell’art. 18 St. lav. in quanto consapevole della frequenza di operazioni giurisprudenziali disinvolte con riguardo alla prova presuntiva del motivo ritorsivo.
Orbene, questa sentenza può apparire, al riguardo, rassicurante giacché indica con chiarezza e rigore, alla stregua dei canoni fondamentali dell’ermeneutica civilistica, gli elementi costitutivi della fattispecie e i criteri che devono sorreggere la prova presuntiva della sua sussistenza .
Concludendo, confesso che, dopo sessant’anni trascorsi da studioso del diritto del lavoro particolarmente attento, per opzione di metodo, alle operazioni ermeneutiche attraverso cui si foma e si modifica il diritto vivente, mi sono determinato a questa personale delibazione della trasparenza, e comunque alle esposte, amare riflessioni, memore del celebre passo del Vangelo di Matteo: “necesse est enim ut veniant scandala”.
So bene che molti, se non i più, diranno che sono per un verso arrogante e per altro verso irrispettoso, perfino offensivo nei riguardi delle Istituzioni. Al punto che mi sento quasi grato al mio più giovane collega, cui voglio bene e che stimo malgrado finisca spesso per avvilupparsi nell’intreccio di ermeneutica giuridica, politica del diritto e politica tout court (come del resto gran parte della dottrina giuslavorista), per avermi benevolmente qualificato, al termine della mia relazione, solo “monello”.
Di tutto ciò sono però consapevole in quanto mi sono determinato avendo altresì memoria dell’avvertimento che il medesimo Evangelista aggiunge: “veruntamen vae homini per quem scandalum venit”!
9. Postilla: la sentenza n. 22/2024 della Corte costituzionale.
Quando mi apprestavo ad inviare alla Redazione di LDE il testo dell’intervento, ormai trasformato in saggio, la Consulta si è pronunciata sulla questione di costituzionalità dell’art. 2, comma 1, D. Lgs. 23/2015 dichiarando l’illegittimità costituzionale della norma limitatamente alla parola «espressamente».
Ho assunto l’impegno di annotare la sentenza per il n. 3/20024 di ADL ma, essendomi prima occupato abbastanza diffusamente dell’ordinanza di rimessione, non posso non anticipare qui qualche considerazione ulteriore rispetto a quelle già desumibili dalle riflessioni svolte nel par. 4.
Sorprende, anzitutto, sul piano del metodo, nel raffronto con la sentenza n. 7/2024, l’assenza, circa la disciplina sanzionatoria delle nullità, di una ricognizione dei documenti e degli atti parlamentari relativi alla riforma del 2012 e alla legge delega del 2014 nonché circa il complessivo scenario normativo nel quale questa legge va collocata.
Ancor più sorprende che la Corte abbia reso una pronuncia di accoglimento giacché, accogliendo solo parzialmente la richiesta della Cassazione, si è limitata ad abrogare l’avverbio <espressamente> ed ha lasciato, pertanto, la norma praticamente invariata. Infatti, come ho osservato trattando dell’ordinanza di rimessione, l’avverbio espressamente si risolve in una mera ridondanza in quanto una nullità prevista dalla norma è naturaliter una nullità espressa, o, se si vuole, statuita dalla norma medesima.
La Consulta conseguentemente, per dare contenuto alla pronuncia di accoglimento, ha dovuto precisare, nel contesto della motivazione, quando le nullità possano ritenersi <previste> dalla norma grazie alla abrogazione dell’avverbio <espressamente>. Ciò, dopo avere riconosciuto, in precedenza, di perseguire l’obiettivo dell’attrazione nell’area della tutela reale, oltre ai licenziamenti vietati dalle specifiche norme richiamate, anche il licenziamento impugnato nel giudizio dinnanzi alla Corte remittente ed altresì i licenziamenti viziati da motivo illecito esclusivo.
A tal fine la sentenza fa precedere il dispositivo abrogativo dalla spiegazione della sua portata. Ivi offre indicazioni non propriamente perspicue apponendo loro, tuttavia, una condizione essenziale: “Occorre, però, pur sempre che la disposizione imperativa rechi, in modo espresso o no, un divieto di licenziamento al ricorrere di determinati presupposti” (il neretto è, ovviamente, mio).
Non essendo lecito pensare che la Corte giochi con le parole, deve ritenersi che la condizione consista in una diretta e specifica correlazione tra “determinati presupposti” e il “divieto di licenziamento”.
Orbene, così non è per la disciplina del Regio Decreto del 1939; il quale, come già osservato, stabilisce un mero iter procedurale e il divieto di licenziamento può, al più, desumersi solo a seguito di una eventuale delibera del Consiglio di disciplina sfavorevole all’azienda. Anche se non dubito che la Suprema Corte riterrà di poter applicare al caso concreto la tutela reale pur se la Consulta ha accolto solo parzialmente la sua richiesta abrogativa.
Così non è, soprattutto, per l’art. 1345 c.c. che, contenendo una fattispecie generale c.d. di diritto comune, non prevede alcuno specifico divieto (espresso o no) di licenziamento.
In definitiva, se la nullità deve (e può) fondarsi sul divieto di licenziamento, il che è condivisibile, la Corte ben avrebbe potuto giungere ad identico risultato emettendo, linearmente, una sentenza interpretativa di rigetto.
Parimenti avrebbe potuto, sollevata contestualmente la questione innanzi a sé, dichiarare, successivamente, l’incostituzionalità della norma, per eccesso di delega se non per irragionevolezza, nella parte in cui non menziona l’unica nullità di diritto comune (motivo illecito esclusivo ex art. 1345 c.c.) richiamata dall’art. 18, comma 1, St. Lav.