testo integrale con note e bibliografia

1. La questione se ed entro quali limiti la retribuzione possa essere considerata come “variabile indipendente” del sistema economico
Nella seconda metà degli anni ’70 del secolo scorso il movimento sindacale venne sollecitato dal segretario generale della Cgil Luciano Lama a interrogarsi sulla questione se la retribuzione potesse essere considerata una “variabile indipendente” del sistema economico: più precisamente se i livelli retributivi fossero suscettibili di essere aumentati autoritativamente, mediante norme inderogabili di legge o di contratto collettivo, senza che questo si traducesse in un aumento della disoccupazione.
Al di là dell’uso del termine “variabile indipendente”, suggestivo ma tecnicamente inappropriato (a ben vedere i livelli retributivi non costituiscono mai una “variabile indipendente” del sistema economico, poiché ogni loro variazione produce qualche effetto sulle altre grandezze variabili del sistema stesso), ciò che qui interessa è ricordare come il dibattito su quella questione abbia portato nel decennio successivo a una larghissima condivisione dell’idea che la norma inderogabile può forzare un incremento dei livelli retributivi, senza che questo si traduca in un aumento della disoccupazione, soltanto nella misura in cui l’incremento corrisponde alla correzione di un difetto di funzionamento del mercato del lavoro: precisamente alla correzione della distorsione tipica di un mercato “monopsonistico”. Si intende per tale il mercato nel quale l’impresa può imporre alle persone ingaggiate una retribuzione inferiore alla produttività marginale del lavoro da esse prestato, sfruttando l’impossibilità in cui esse si trovano di scegliere di lavorare per un’impresa diversa.
La scienza economica mostra che entro il limite della correzione di questa distorsione l’aumento forzato dei livelli retributivi non soltanto non produce disoccupazione, ma produce addirittura un aumento dell’occupazione.
Per mettere meglio a fuoco questo concetto vale la pena di esaminare un po’ più da vicino la nozione di “mercato monopsonistico”.

2. Lo standard retributivo minimo inderogabile come correzione necessaria di una distorsione prodottasi nel mercato: la rendita dell’imprenditore monopsonista
All’indomani della prima rivoluzione industriale la fabbrica era una sorta di “cattedrale nel deserto”: era il solo luogo, o uno dei pochi in una zona relativamente ampia, dove fosse possibile svolgere la propria attività lavorativa con un livello di produttività nettamente superiore rispetto al lavoro agricolo; e svolgerla per tutto l’anno, non soltanto durante la buona stagione. A fronte della domanda di manodopera espressa dalla nuova fabbrica stava il grande “esercito” dei disoccupati e dei sotto-occupati agricoli, i quali non avevano scelta: se volevano uscire dalla condizione di miseria e precarietà a cui erano stati condannati fino ad allora, dovevano accettare quanto l’imprenditore offriva. È questo un mercato del lavoro che la scienza economica rappresenta con il modello del monopsonio, ovvero quello in cui un unico soggetto acquista un bene o un servizio, mentre una ampia pluralità di altri soggetti lo offrono: questi ultimi non hanno altra possibilità se non quella di venderlo all’unico compratore. Il modello del monopsonio spiega perché e come il “compratore unico” possa approfittare della propria posizione per forzare il prezzo della forza-lavoro acquistata al di sotto del livello della sua produttività marginale, così ottenendo una rendita (la rendita monopsonistica, appunto) a spese del livello dei salari. Il modello spiega anche come e perché la distorsione monopsonistica abbia l’effetto ulteriore di ridurre la quantità della forza-lavoro occupata rispetto al livello di occupazione ottenibile quando una pluralità di imprenditori siano realmente in concorrenza tra loro nella ricerca della manodopera.
Tra la seconda metà del secolo XIX e la prima metà del XX il movimento operaio si propone di erodere la rendita monopsonistica degli industriali mediante la mobilitazione politico-sindacale, lo sciopero e la contrattazione collettiva. Nel 1928 entra in vigore la convenzione O.I.L. n. 26, che impone agli Stati aderenti di adoperarsi per combattere la distorsione mediante la fissazione di standard minimi inderogabili.
Nel corso del secolo XX, poi, nelle economie più mature la figura dell’impresa industriale come “cattedrale nel deserto” tende a sparire, sostituita da un tessuto produttivo caratterizzato da una grande pluralità di imprese in concorrenza tra loro nel mercato del lavoro. Questa evoluzione, però, non determina la scomparsa della distorsione monopsonistica, perché le persone che vivono del proprio lavoro – e in particolare quelle che lo prestano continuativamente per una sola azienda –, a differenza degli imprenditori, non frequentano quotidianamente e quindi non conoscono il mercato; esse inoltre sovente non dispongono dei percorsi di formazione necessari per adattare le proprie capacità alla domanda di lavoro specificamente espressa dal tessuto produttivo circostante; esse infine sono solitamente molto meno mobili di quanto lo siano i capitali destinati all’investimento, a causa di vincoli familiari e di altra natura. I difetti di informazione, di formazione mirata a ciò che specificamente il tessuto produttivo richiede e di mobilità fanno sì che anche in un’economia matura la persona che vive del proprio lavoro possa trovarsi in una condizione di non libertà di scelta tra le aziende potenzialmente interessate al suo lavoro. Gli economisti parlano a questo proposito di “monopsonio dinamico”, in contrapposizione alla nozione di “monopsonio strutturale”, corrispondente al mercato del lavoro delle origini dell’era industriale.
Anche i sistemi economici maturi, dunque, ben conoscono la distorsione monopsonistica e la rendita che può derivarne per l’imprenditore, nonostante la grande quantità di imprese in concorrenza tra loro sul lato della domanda di manodopera. Anche nei sistemi economici maturi, dunque, la correzione autoritativa della distorsione svolge un ruolo socio-economico doppiamente positivo: produce per un verso un aumento degli standard retributivi e con essi del benessere dei lavoratori, per altro verso un aumento dei livelli occupazionali. Questo è stato oggetto di una robusta verifica empirica nel notissimo saggio degli economisti statunitensi D. Card e A.B. Krueger, Myth and Measurement (1995), sugli effetti pratici dei diversi standard di minimum wage praticati in diversi Stati nord-americani. Il risultato della ricerca ha confermato l’effetto positivo dell’introduzione di uno standard minimo inderogabile universale, sia in termini di aumento effettivo dei livelli retributivi, sia in termini di aumento dell’occupazione, a due condizioni: a) che il minimum wage “morda” per davvero, cioè sia determinato in misura tale da ridurre drasticamente se non azzerare la rendita da monopsonio dinamico, avendo come obbiettivo di ristabilire la parità tra livello retributivo minimo e produttività marginale minima del lavoro; b) che tuttavia esso non sia stabilito al di sopra di quel punto di equilibrio tra retribuzione e produttività marginale del lavoro, oltre il quale lo standard minimo inderogabile genera un aumento della disoccupazione.

3. Meidner-Rehn vs. Thatcher-Reagan: uno spazio ulteriore entro il quale i livelli retributivi possono essere forzati verso l’alto senza produrre effetti negativi sui livelli occupazionali
Nel dibattito sulla politica del lavoro e in particolare sulla politica dei redditi ha avuto un ruolo di primo piano, nella seconda metà del secolo scorso, anche la tesi secondo cui il policy maker dispone di uno spazio ulteriore entro il quale l’intervento autoritativo volto a incrementare i livelli retributivi può operare senza causare disoccupazione: se un aumento dello standard minimo inderogabile stimola le imprese a investire in tecnologia e in formazione dei propri dipendenti, esso può innescare un processo virtuoso caratterizzato da un aumento della produttività marginale del lavoro, tale per cui il punto di equilibrio (ovvero di intersezione tra curva della domanda e curva dell’offerta di manodopera) si sposta verso l’alto. È questa, per esempio, la politica dei redditi praticata in Svezia tra gli anni ’50 e gli anni ’70, fondata sulle indicazioni dei suoi ideologi Rudolf Meidner e Gösta Rehn, alle quali si sono ispirati anche i Governi di altri Paesi in Europa e in Nord-America nella seconda metà del secolo scorso.
La possibilità che un aumento dello standard retributivo minimo inderogabile stimoli un aumento della produttività marginale determina dunque uno spazio ulteriore di possibile variazione della retribuzione senza effetti negativi sull’occupazione. È lo spazio in cui si colloca – almeno in parte – la dialettica tra destra e sinistra, in materia di politica del lavoro, nei Paesi liberal-democratici: nei quali a quella che (per semplificare il discorso) qui chiamiamo “linea Meidner-Rehn” si contrappone quella tipica dei governi di destra, i quali – come hanno fatto negli anni ’80 Margaret Thatcher in Gran Bretagna e Ronald Reagan negli U.S.A. – limitano il proprio compito a correggere la distorsione monopsonistica, sempre che di questo intendano farsi carico, sul presupposto che ogni velleità di forzare ulteriormente lo standard retributivo minimo verso l’alto per stimolare l’aumento della produttività del lavoro porterebbe più danni che benefici. Per semplificare il discorso, nel prosieguo possiamo indicare questa come “linea Thatcher-Reagan”.
I fautori di un approccio à la Meidner-Rehn sono ben consapevoli del fatto che, nell’immediato, l’incremento dello standard minimo inderogabile può determinare la perdita di tutti i posti dove il lavoro fa registrare in concreto una produttività inferiore allo standard stesso; fino a determinare la chiusura delle imprese la cui attività sia interamente o prevalentemente alimentata da manodopera caratterizzata da quel basso livello di produttività. Ma gli stessi confidano che il tessuto produttivo sia in grado di reagire, attraverso investimenti in tecnologia e in riqualificazione professionale, facendo aumentare nella misura necessaria il livello di produttività del lavoro in tutta quella fascia inferiore. I fautori di un approccio à la Thatcher-Reagan, al contrario, sono convinti che il tessuto produttivo non abbia alcun bisogno di uno stimolo di quel genere, nel quale essi vedono invece soltanto il rischio di un danno sul piano economico-sociale, derivandone disoccupazione non destinata a essere riassorbita e dunque aumento della spesa pubblica per il necessario sostegno del reddito a chi perde il lavoro.

4. Il vincolo costituzionale: correggere la distorsione del mercato, azzerare la rendita monopsonistica, assicurare l’equilibrio tra il diritto di tutti alla giusta retribuzione e il diritto di tutti al lavoro
Se la convenzione O.I.L. n. 26 del 1928 vincolava gli Stati aderenti a impedire che i salari scendessero a livelli “eccessivamente bassi”, l’art. 36 della nostra Costituzione enuncia in questa materia un principio formulato in modo assai più compiuto e anche più ambizioso, attribuendo a ogni persona il diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato, cioè alla sua produttività, e comunque sufficiente per assicurare alla persona stessa e alla sua famiglia “un’esistenza libera e dignitosa”. Si pone al riguardo la questione circa il significato concreto che può essere attribuito a quest’ultima espressione usata dal legislatore costituente.
Non è forse inutile, a questo proposito, ricordare la lezione di Norberto Bobbio circa la relatività storica del contenuto dei diritti sociali: il contenuto di questi diritti non può essere determinato in astratto, ma deve esserlo in concreto, in riferimento al livello massimo di benessere concretamente perseguibile per tutti in un contesto dato. Per tutti: non è neppure pensabile un diritto sociale che, stante il suo contenuto, possa essere di fatto garantito soltanto a una parte dei consociati, restandone esclusa un’altra parte. Questo significa – per tornare al nostro tema – che il contenuto del diritto della persona alla giusta retribuzione di cui all’art. 36 della Costituzione deve essere determinato al livello massimo compatibile, nella situazione data, con il diritto al lavoro che è riconosciuto a ogni persona dall’art. 4 della stessa Carta. Poiché stabilirlo a un livello superiore rispetto al punto di equilibrio tra costo e produttività marginale del lavoro equivarrebbe ad accettare che una parte delle persone interessate ne sia esclusa, quel punto di equilibrio deve essere considerato come il limite storicamente dato, oltre il quale il policy maker non può spingersi nella determinazione dello standard minimo inderogabile.
La determinazione dello standard retributivo minimo inderogabile non può, dunque, prescindere dall’entità della produttività marginale del lavoro nel contesto economico-sociale dato: prescinderne comporterebbe riconoscere a una parte – sia pure maggioritaria – della platea di potenziali interessati un diritto dal quale è ragionevolmente prevedibile che resti esclusa un’altra parte di essi.
Certo, il policy maker ben può ragionevolmente – e senza violare l’art. 4 della Costituzione – compiere la scelta di stabilire lo standard minimo universale a un livello superiore rispetto a quello della produttività marginale minima attuale del lavoro, proponendosi in questo modo (ed eventualmente anche con altre misure) di stimolare gli investimenti in tecnologia e in formazione suscettibili di portare entro un lasso di tempo ragionevole a un aumento corrispondente della produttività, ristabilendosi in questo modo l’equilibrio indispensabile per la piena occupazione. Ma questa scelta non può considerarsi obbligata a norma dell’art. 36, dal momento che la nostra Costituzione, collocandosi nell’alveo degli ordinamenti liberal-democratici e ammettendo pertanto (anzi, espressamente garantendo) la dialettica tra orientamenti di politica economica tendenzialmente ispirati al modello socialdemocratico e orientamenti tendenzialmente ispirati al modello conservatore, non può essere interpretata nel senso di imporre politiche del lavoro à la Meidner-Rehn mettendo al bando quelle à la Thatcher-Reagan.

5. L’applicazione dell’art. 36 Cost. in Italia e il recente superamento della presunzione di corrispondenza tra standard collettivo e giusta retribuzione
Fino al settembre scorso l’orientamento prevalente tra i giudici del lavoro e gli studiosi, in riferimento all’ordinamento italiano, era nel senso che anche chi non fosse iscritto ad alcun sindacato avesse diritto a una retribuzione pari quanto meno ai minimi tabellari previsti dal contratto collettivo nazionale di settore stipulato dalle associazioni sindacali e imprenditoriali maggiormente rappresentative. In altre parole, il sistema era fondato sulla presunzione generale che, salvo eccezioni, per un verso le associazioni sindacali maggiori avessero la forza di correggere efficacemente la distorsione monopsonistica, per altro verso le associazioni imprenditoriali maggiori avessero la forza di contenere la spinta all’aumento delle retribuzioni entro il limite della produttività marginale effettiva del lavoro in ciascun settore e in riferimento a ciascun livello professionale.
La Corte di Cassazione riconosceva, beninteso, la possibilità che il giudice, nello stabilire la “giusta retribuzione”, si discostasse dallo standard stabilito dal contratto collettivo stipulato dalle associazioni maggiori, sia verso l’alto sia verso il basso; ma questo solo in via eccezionale e in considerazione di circostanze del tutto particolari allegate e provate da una delle parti in causa. In via generale valeva la presunzione che il “giusto salario” corrispondesse agli standard contrattati dai sindacati più rappresentativi nel settore.
Ultimamente, con le sentenze della Sezione Lavoro della Cassazione n. 27711 e 27769 depositate il 2 ottobre dello scorso anno e alcune altre successive, questo orientamento giurisprudenziale ha subito una modifica molto incisiva, anche in conseguenza di una grave crisi del sistema della contrattazione collettiva, che – soprattutto nei settori dei servizi labour intensive – si è mostrata incapace di mantenere il ritmo regolare del rinnovo dei contratti collettivi nazionali, e comunque di assicurare una dinamica salariale adeguata anche in riferimento alla parte endogena dell’inflazione. La Corte di Cassazione – richiamando la direttiva UE dell’anno precedente, n. 2041, sulla determinazione dei minimi retributivi – ha stabilito che il giudice chiamato a decidere una controversia in materia salariale non può limitarsi a presumere che lo standard contrattato dai sindacati maggiori sia sufficiente ad assicurare un’esistenza libera e dignitosa al lavoratore e alla sua famiglia, come prescrive l’articolo 36 della Costituzione, ma deve controllare questa corrispondenza in concreto, in relazione alle circostanze, caso per caso. E indica i nuovi parametri che devono essere considerati dal giudice nel rideterminare lo standard retributivo minimo applicabile: tra questi vengono menzionati la soglia di povertà individuata dall’Istat, il salario medio o mediano individuabile attraverso i dati Uniemens sulle retribuzioni correnti censite dall’Inps, ma anche altri, come il costo della vita nella zona, o gli standard retributivi stabiliti dalla contrattazione collettiva per altri settori. La Corte, richiamando la direttiva UE, ha peraltro attribuito al giudice il compito di controllare che la retribuzione non soltanto protegga dalla povertà, ma assicuri un’esistenza “libera e dignitosa”; ciò che implica qualche cosa di più del rispetto della soglia di povertà, secondo i parametri forniti da Istat e Inps: la retribuzione minima – avverte la Corte – deve soddisfare anche, tra le altre esigenze, quella di poter partecipare alla vita sociale della collettività, assistere a spettacoli o a iniziative diverse di carattere culturale.
Tra i criteri indicati dalla Corte manca, però, il riferimento alla produttività marginale del lavoro.

6. Il lavoro povero: il caso a cui si riferiscono le sentenze che hanno determinato la svolta giurisprudenziale
Il caso cui si riferiscono le sentenze della Cassazione dell’ottobre scorso che hanno segnato la svolta giurisprudenziale di cui si è detto riguarda il settore dei “servizi fiduciari” (vigilanza privata, trasporto di valori, reception e custodia), per il quale fino al maggio 2023 un contratto collettivo da tempo scaduto prevedeva una paga minima mensile molto bassa – 930 euro, corrispondenti a una paga oraria complessiva di circa 6,13 euro –, di poco superiore agli 834,66 euro che all’epoca erano indicati come soglia di povertà relativa. Sulla base dei criteri di cui si è detto la Corte di Cassazione ha ritenuto che il giudice di merito dovesse fare riferimento come parametro per la determinazione dello standard minimo a un altro contratto collettivo nazionale, stipulato per un settore produttivo diverso ancorché affine: il contratto per il settore “multiservizi”, o quello per il settore del portierato.
Se si interrogano i dirigenti nazionali dei sindacati confederali che avevano firmato il contratto collettivo del settore dei “servizi fiduciari” delegittimato dai giudici, questi – pur riconoscendo di aver commesso un errore – ne spiegano la sottoscrizione osservando che i lavoratori della fascia più bassa del settore dei “servizi fiduciari” sono per la maggior parte di recente immigrazione in Italia, con una conoscenza molto scarsa della lingua italiana e un livello di professionalità inferiore rispetto a quello che si richiede normalmente per un portiere di condominio, dal quale ci si attende che possa interloquire con gli abitanti del palazzo e con l’amministratore, tenere un registro delle raccomandate e governare il sistema di riscaldamento. I dirigenti sindacali protagonisti della vicenda spiegano dunque – anche se oggi non difendono – la scelta compiuta negli anni scorsi con l’intendimento di stabilire il minimo tabellare della categoria professionale più bassa a un livello che consentisse di assegnare mansioni che richiedono poco più della mera presenza fisica, di persone altrimenti destinate a incontrare difficoltà rilevanti per l’inserimento nel tessuto produttivo.
È questa, a ben vedere, una scelta per certi aspetti analoga a quella che venne compiuta da Cisl e Uil insieme alle associazioni imprenditoriali dell’industria e del terziario con il c.d. Patto per Milano del febbraio 2000: per iniziativa del Comune di Milano venne stipulato un accordo collettivo metropolitano che prevedeva la possibilità, per le imprese cui fosse stato conferito dal Comune l’appalto di determinati servizi, di assumere lavoratori extracomunitari con livelli di tutela della stabilità inferiori rispetto agli standard generali. Il Comune e le associazioni confederali firmatarie dell’accordo sostenevano che esso mirava a favorire l’accesso al lavoro regolare dei lavoratori extracomunitari, in aderenza a quanto previsto dalla Convenzione O.I.L. n. 143/1975 sulla protezione dei lavoratori migranti; la Cgil rifiutò invece di sottoscriverlo, sostenendo che esso violava il divieto di discriminazione posto dalla legge n. 40/1998: lo scontro era, in sostanza, tra una politica volta ad “abbassare l’asticella” per favorire l’accesso al lavoro regolare, tenendo conto di un obiettivo difetto di produttività di una parte della forza-lavoro, e una politica non disposta ad attribuire rilievo a quel difetto di produttività. Nel caso del contratto collettivo del 2023 per il settore dei “servizi fiduciari”, però, la questione che si è posta non riguardava la parità di trattamento tra lavoratori immigrati e lavoratori indigeni, bensì la legittimità della scelta delle associazioni sindacali di “abbassare l’asticella” per l’accesso alla categoria professionale più bassa di un settore caratterizzato nel suo complesso da un livello particolarmente basso di produttività del lavoro.
Sta di fatto che la svolta giurisprudenziale di cui si è detto ha travolto la clausola del contratto nazionale per il settore “servizi fiduciari” che stabiliva il “minimo tabellare” a 930 euro al mese, imponendo di fatto un suo incremento di circa 200 euro, disposto dalle parti collettive a correzione del minimo tabellare pattuito nel rinnovo contrattuale del maggio 2023. E la svolta si è compiuta senza che i giudici si ponessero la domanda se il minimo fissato originariamente a 930 euro mensili corrispondesse a una scelta di politica sindacale ragionevolmente mirata a favorire l’inserimento nel tessuto produttivo di una forza-lavoro caratterizzata da capacità professionali molto scarse, o fosse invece – come pure è ragionevole ritenere – una manifestazione di un tipico fenomeno di distorsione monopsonistica del mercato nel settore specifico: le persone di recente immigrazione sono infatti, oltre che più facilmente ricattabili dal datore di lavoro per il rischio di perdere il permesso di soggiorno per lavoro, anche tipicamente meno capaci di orientarsi, di informarsi, di accedere alla formazione utile, quindi di scegliere l’impresa che può meglio valorizzare le loro capacità.
Ora sarà interessante vedere il risultato delle ricerche che gli economisti condurranno sugli effetti della svolta giurisprudenziale e del conseguente brusco aumento dello standard retributivo minimo: se non si osserverà un calo dell’occupazione nel settore, questo sarà il segno che l’intervento dei giudici del Lavoro ha corretto una distorsione monopsonistica; se invece si osserverà un calo dell’occupazione, sarà il segno che effettivamente il minimo tabellare contestato corrispondeva a un livello molto basso della produttività marginale del lavoro in questo segmento di manodopera. In quest’ultimo caso si porrà una questione di notevole rilievo e di altrettanto difficile soluzione: qual è il limite dell’autonomia collettiva (ma in un altro contesto si potrebbe dire: qual è il limite della discrezionalità del legislatore ordinario che si proponga di stabilire uno standard retributivo minimo universale) nella scelta del livello minimo di produttività del lavoro e quindi di retribuzione accettabile, cioè compatibile con l’art. 36 Cost.?

7. Altri problemi che si pongono in conseguenza della svolta giurisprudenziale dell’ottobre 2023
La Cassazione avrebbe potuto compiere la stessa operazione anche nell’ambito del vecchio orientamento giurisprudenziale, giustificandola con l’eccezionalità della situazione che era venuta a determinarsi nel settore; ha invece preferito prendere spunto dal caso specifico per compiere la svolta di cui si è detto, scardinando la presunzione generale di corrispondenza dello standard contrattato dai sindacati maggiormente rappresentativi con il precetto costituzionale.
In questo modo, perdurando l’astensione del legislatore italiano dal dettare uno standard retributivo minimo universale, lo scettro dell’“autorità salariale” passa inevitabilmente dalle associazioni sindacali e imprenditoriali maggiormente rappresentative ai giudici del Lavoro. Qui si pone un altro problema: i giudici sono molti, ciascuno con la propria idea del parametro della vita “libera e dignitosa” prevista dall’articolo 36 della Costituzione. Ciascun giudice dispone, nell’esercizio di questa funzione, di “una ampia discrezionalità” (questo è più volte ribadito in entrambe le sentenze della Cassazione dell’ottobre 2023 che hanno inaugurato il nuovo orientamento giurisprudenziale): può dunque determinarsi un contrasto anche assai rilevante tra gli standard retributivi minimi sanciti non solo da tribunali diversi, ma anche da giudici diversi nell’ambito dello stesso ufficio giudiziario. Per esempio, in un capoluogo di provincia di dimensioni medie nel quale la Sezione Lavoro sia composta da diversi magistrati, ben può determinarsi una divergenza tra i modi in cui ciascuno di essi coniuga i molti criteri indicati dalla Cassazione; cosicché – salvo che tra i magistrati stessi venga praticata una sorta di coordinamento informale – potrebbe accadere che venissero fissati, per lo stesso tipo di lavoro e nella stessa zona, più standard retributivi minimi diversi in altrettante sentenze.
Fino all’estate dell’anno scorso, un imprenditore intenzionato a compiere un investimento in Italia poteva formulare un piano industriale fondato sullo standard retributivo previsto dal contratto collettivo applicabile nel settore, stipulato dalle associazioni sindacali e imprenditoriali maggiormente rappresentative, nonché sulla sua dinamica prevedibile nel tempo; oggi la possibilità di fare pieno affidamento su quello standard viene meno, soprattutto nei settori produttivi caratterizzati da una produttività del lavoro più bassa, perché qualsiasi giudice potrà ritenerlo – sulla base di un’applicazione largamente discrezionale dei criteri indicati dalla Corte di Cassazione – insufficiente rispetto a quanto previsto dall’articolo 36 della Costituzione.

8. Segue – La questione della retroattività del nuovo standard retributivo minimo stabilito in sede giudiziale
L’assetto del sistema delle relazioni industriali conseguente al nuovo orientamento della Cassazione presenta poi un altro profilo di criticità che non può essere sottovalutato. A differenza di uno standard retributivo fissato dalla legge o dal contratto collettivo, che si applica soltanto dal momento in cui la legge viene emanata o il contratto viene stipulato, la sentenza del giudice del lavoro può applicarsi anche retroattivamente. Ipotizziamo che dieci dipendenti di un’azienda ricorrano al giudice sostenendo che la propria retribuzione mensile di 1.200 euro (corrispondente a una paga oraria complessiva di circa 7,9 euro) non rispetti il precetto costituzionale e non lo abbia rispettato anche negli ultimi dieci anni; e ipotizziamo che il giudice ritenga effettivamente dovuti, per il lavoro da esse svolto, 1.400 euro al mese (che portano la paga oraria complessiva a circa 9,2 euro); questa decisione non si applicherà soltanto al lavoro svolto dal momento del deposito della sentenza in poi, ma anche al lavoro svolto in precedenza. Una differenza di 200 euro al mese riferita, per esempio, ai dieci anni di lavoro precedenti (ma potrebbero essere anche venti o trenta), maggiorata del relativo onere contributivo, più le sanzioni per i contributi omessi, può generare un debito, riferito al lavoro fin qui svolto dalle dieci persone interessate, anche dell’entità di un milione di euro.
Mentre per il futuro l’impresa potrà cercare di coprire il maggior costo del lavoro determinato dalla sentenza negoziando in modo diverso il prezzo dei beni o dei servizi offerti ai propri committenti da oggi in poi, altrettanto essa non può fare per beni o servizi che sono stati oggetto di contratti stipulati ed eseguiti in passato. Col risultato che l’improvviso aumento dello standard retributivo deciso dal giudice del lavoro con effetti retroattivi può determinare uno squilibrio nel bilancio aziendale tanto più grave, quanto maggiore è il peso del costo del lavoro nella produzione del bene o del servizio che è oggetto dell’attività imprenditoriale.
Non è un’ipotesi teorica: casi di crisi aziendali gravi causate dall’applicazione retroattiva dei nuovi standard fissati dai giudici già incominciano a verificarsi.
È questo il motivo per cui appare ragionevole che, nell’applicare il nuovo orientamento giurisprudenziale inaugurato con le sentenze della Cassazione dell’ottobre 2023, il giudice attribuisca rilievo all’affidamento che l’impresa può aver fatto in buona fede fino a quel momento sulla presunzione di corrispondenza dello standard collettivo stipulato dalle associazioni più rappresentative con la “giusta retribuzione” di cui all’art. 36 Cost., accogliendo pertanto la domanda di condanna alle differenze retributive soltanto a partire dall’ottobre 2023. Si tratterebbe, in altre parole, di applicare alla svolta giurisprudenziale qui in discussione – poiché di una svolta giurisprudenziale certamente si è trattato – lo stesso principio di irretroattività che la Corte di Giustizia ha enunciato per la prima volta nella sentenza Defrenne del 1976 (e poi riaffermato in numerose sentenze successive, tra le quali la Adeneler del 2006 e la Sorge del 2010), in nome della certezza del diritto e della ragionevole considerazione del rischio di scardinamento dei bilanci aziendali. Lo stesso orientamento espresso dalla Corte di Giustizia in queste sentenze circa l’irretroattività della nuova disciplina applicabile, per la tutela della certezza del diritto applicato in buona fede dall’impresa, è del resto opportunamente citato anche nella motivazione delle due sentenze della Cassazione del 2 ottobre 2023 (§ 24 in entrambe le motivazioni).

9. L’intervento legislativo che a questo punto appare indispensabile
Che, comunque, non sia concepibile un sistema delle relazioni industriali nel quale la determinazione degli standard retributivi di settore sia in via ordinaria affidata al giudice del Lavoro, sembra difficilmente discutibile. I problemi e le aporie che si evidenziano in questa fase transitoria, nella quale a una crisi grave del sistema della contrattazione collettiva ha posto rimedio l’intervento dei giudici, dovrebbe indurre il Governo a rivedere la decisione presa l’anno passato di mantenere il regime di abstention of law su questa materia che ha caratterizzato il sistema italiano delle relazioni industriali negli ultimi ottant’anni, rifiutando di porre mano a una legge che stabilisca la retribuzione oraria minima universalmente applicabile.
Quella decisione – presa in risposta alla direttiva UE sopra citata, n. 2041 del 2022, che richiede l’esistenza in ciascuno Stato membro di uno standard retributivo minimo, sia esso di fonte legislativa o contrattuale collettiva – era motivata col fatto che in Italia lo standard retributivo minimo era fornito dalla contrattazione collettiva nazionale di settore. Senonché quel regime funzionava sul presupposto dell’estensione di fatto a tutti i rapporti di lavoro dello standard stabilito dal contratto collettivo nazionale di categoria stipulato dai sindacati maggiori: in applicazione dell’articolo 36 della Costituzione, il giudice lo applicava a tutte le persone impiegate nel settore, indipendentemente dalla loro iscrizione ai sindacati stipulanti. Dal momento in cui il contratto collettivo stipulato dai sindacati maggiori perde il valore di sicuro parametro cui fare riferimento per applicare il principio costituzionale della “giusta retribuzione”, quel regime di abstention of law non può più funzionare come ha funzionato fino all’anno scorso. Per altro verso, come si è visto, il ruolo di autorità salariale, non più svolto in via esclusiva dalle associazioni sindacali e imprenditoriali maggiori, non può essere assunto dai giudici del lavoro perché essi sono molte centinaia e ciascuno di essi può applicare i criteri indicati dalla Corte di Cassazione a modo proprio, oltretutto anche con effetti retroattivi.
Nell’ottobre scorso il CNEL ha supportato la scelta astensionista del Governo con un documento nel quale ha indicato come preferibile il mantenimento del sistema tradizionale fondato sul riferimento agli standard fissati dalla contrattazione collettiva, puntando semmai a rafforzare quest’ultima. Ma nel momento in cui la giurisprudenza della Cassazione, imprimendo una svolta al cosiddetto “diritto vivente”, depotenzia drasticamente la tradizionale presunzione di adeguatezza degli standard retributivi fissati dalla contrattazione collettiva, il Governo non può chiudere gli occhi sulla situazione di grave incertezza che viene a determinarsi circa lo standard applicabile e dall’adottare l’iniziativa legislativa necessaria per porvi rimedio.
Certo, un intervento legislativo su questa materia presuppone che in qualche modo si risolva il problema della rilevantissima differenza del costo della vita tra le diverse realtà del Paese. Si può pensare, per esempio, alla fissazione di un salario minimo orario nazionale che in ciascuna regione o provincia possa essere corretto mediante un’addizionale in relazione all’indice Istat del costo della vita. Ma a questo punto è comunque necessario che il legislatore intervenga su questa materia, perché solo un parametro minimo fissato dalla legge consentirà ai soggetti della contrattazione collettiva di riposizionarsi recuperando il ruolo di “autorità salariale”, che dovrebbe appartenere loro ma che rischia di andare perduto.

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