testo integrale con note e bibliografia

Vado per punti schematici. Primo punto. Siamo, credo, tutti consapevoli che il problema del funzionamento delle Relazioni Industriali non è solo italiano ma almeno europeo, anche se presenta specificità proprie del nostro ordinamento, come risulta dal nostro dibattito.
Inoltre le questioni da considerare non riguardano solo la fissazione del salario minimo, ma più in generale la dinamica complessiva dei salari e a monte quelli della produttività del Sistema, degli investimenti e dell’innovazione.
Molte di queste sono questioni che dovevano essere affrontate e risolte 10-15 anni fa, nel vecchio secolo dell’industria.
Ma devono essere riconsiderate alla luce dell’attuale contesto che ha alterato le strutture fondamentali dell’economia e l’habitat delle Relazioni Industriali, influenzate dalle tecnologie digitali e della intelligenza artificiale.
Questo contesto va considerato per verificare l’impatto sugli obiettivi e sui contenuti della contrattazione e della partecipazione, come stanno facendo altri paesi e come ci sollecita a fare l’Europa con le recenti direttive, non solo quelle sul salario minimo, ma quelle CSRD (Disclosure and Reporting) sulla Due Diligence e il regolamento in arrivo sulla Intelligenza Artificiale.
Punto secondo: le regole del gioco.
Le regole fondamentali di ogni sistema di Relazioni Industriali sono quelle che definiscono gli attori del sistema e ne misurano la rappresentatività. Così dovrebbe essere anche da noi. Il nostro problema è che le regole stabilite dall’autonomia collettiva, anche quelle degli accordi interconfederali e del Patto per la fabbrica, pur largamente condivise, non sono riconosciute da tutti né generalmente vincolanti.
Questa è una debolezza strutturale che mette in crisi gli stessi criteri di identità degli interlocutori e quindi la stabilità della struttura. Su questo dovrebbe intervenire una legislazione di sostegno.
Nel 1970 lo Statuto dei lavoratori diede forza generale nelle fabbriche ai principi generali della Costituzione per l’esercizio dei diritti fondamentali di libertà e della contrattazione sindacale.
Ora il sostegno andrebbe diretto anzitutto a sostenere l’efficacia delle regole sulla rappresentatività degli attori collettivi.
Questo servirebbe anche per dare forza alla via contrattuale al salario minimo.
Al riguardo va precisato un punto che non viene sempre considerato, riguardo al tasso di copertura dei nostri contratti collettivi di categoria. Ritengo che ai fini della applicazione della direttiva non sia pertinente richiamare il tasso medio di copertura intersettoriale, che sarebbe addirittura superiore al 90%.
Occorre considerare il tasso per i vari settori, che è alquanto differenziato. Non tutti i settori hanno la diffusione e la forza del contratto dei metalmeccanici. Quelli dei servizi di pulizia, di vigilanza, ma anche parte della logistica, hanno una copertura sindacale e contrattuale molto più ridotta, e una tenuta delle regole più debole.
Varie ricerche dell’OCSE e da noi dell’INPS, mostrano che i contratti di questi settori presentano tassi di evasione/erosione consistenti e diffuse (del 20-30%). E cioè senza conseguenze giuridiche rilevanti, data la natura privatistica dei contratti collettivi nel nostro ordinamento.
Invito tutti a riflettere su questo problema, in primis la CISL, che ha sempre dato importanza centrale alla contrattazione collettiva.
Nei settori ricordati al di là delle dichiarazioni formali delle parti, occorre guardare al grado effettivo di efficacia degli accordi, che non è garantito.
Questa è una delle cause dei bassi salari, certo non l’unica, ma di indubbia rilevanza. Per questo servirebbe un intervento di sostegno volto a garantire l’effettività dei contratti stipulati dalle parti sociali maggiormente rappresentative.
Un simile intervento, unito al riconoscimento della rappresentatività degli attori, darebbe forza alla contrattazione e ridurrebbe o supererebbe la necessità di un intervento legislativo.
Ricordo per memoria che alcuni paesi europei hanno previsto sia l’intervento legislative sul salario minimo, sia la possibilità di dare efficacia erga omnes ai contratti collettivi, non necessariamente in tutti i settori, ma quelli in cui il sostegno è più necessario per la debolezza delle parti, ad es. l’edilizia o l’agricoltura.
Questo tipo di sostegno differenziato è più rispettoso dell’autonomia collettiva. Mentre il meccanismo previsto dall’art. 39 Cost. è automatico e anche per questo è stato ritenuto poco congruo a un sistema differenziato come anche il nostro.
Punto terzo: la questione dei perimetri contrattuali. A lungo tale questione non si è posta perché la identità dei vari settori merceologici era definita e relativamente stabile. Da tempo non è più così. Ora un fattore di incertezza che sta destabilizzando i rapporti contrattuali e alimentando contese fra le stesse organizzazioni rappresentative, è la accresciuta variabilità dei perimetri entro cui misurare la
rappresentatività delle varie organizzazioni, in primis datoriali, ai fini contrattuali, e di conseguenza definire i loro ambiti d’azione. Un fattore di incertezza che sta destabilizzando I rapporti contrattuali e alimentando contese fra le stesse organizzazioni rappresentative, è la accresciuta variabilità dei perimetri entro cui misurare la rappresentatività delle varie organizzazioni, in primis datoriali, ai confini
contrattuali, e di conseguenza definire i loro ambiti di azione.
Con tale incertezza si sono confrontati altri paesi; da noi è importante il criterio previsto nel Patto della fabbrica del 2018 che fa riferimento alla “reale attività svolta dall’impresa come criterio oggettivo di individuazione delle categorie contrattuali”. Una indicazione simile che conferma e rafforza il criterio del Patto per la Fabbrica, che proviene dal Codice degli appalti (d.lgs. n. 59/2016, art. 30, comma 4), confermato dal più recente d.lgs. n. 36/2023, art. 57.
Questa norma modifica il quadro ordinamentale facendo entrare (o meglio rientrare) la categoria oggettiva nel sistema contrattuale italiano.
Tale indicazione, pur limitata all’applicazione degli appalti pubblici, segna una indicazione di policy in grado di estendersi, se non altro per l’importanza qualitative di tali appalti, ora esaltato dalle risorse del PNRR.
In ogni caso potrebbe stimolare progressi anche nella definizione consensuale dei perimetri utili a identificare gli ambiti contrattuali, riducendo così gli ostacoli (o gli alibi) alla individuazione dei criteri di rappresentatività degli attori.
Il punto quarto riguarda gli interventi della giurisprudenza, che hanno invalidato le tabelle di alcuni contratti collettivi ritenendole non rispettose delle indicazioni costituzionali sulla retribuzione sufficiente e proporzionale. Si tratta di un segnale che deve preoccupare, perché, al di là del merito delle due decisioni, che possono riguardare casi limite, segnala una crisi di credibilità della contrattazione come autorità salariale.
Ho letto attentamente queste decisioni, che sono scritte e argomentate molto bene. Ma rileva la grande incertezza e variabilità dei dati e delle fonti normative, contrattuali e amministrative cui I giudici possono attingere per decider il livello adeguato delle retribuzioni. Anche questo è un indicatore del disordine del nostro ordinamento che rende difficile anche l’opera dei giudici.
Un criterio menzionato, fra gli altri dalla Cassazione, che potrebbe essere utile, è quello consigliato dalla direttiva europea sul salario minimo, secondo cui il livello del salario minimo adeguato dovrebbe attestarsi entro una forchetta fra il 50% del salario medio e il 60% del salario mediano.
A dire il vero l’applicazione di un simile criterio al caso italiano, presenterebbe varie incertezze in ordine al livello di salario minimo orario, a seconda di quali sono i dati delle dinamiche salariali. presi a riferimento I quali vanno aggiornati per tener conto dell’inflazione.
L’opera di supplenza dei giudici, pur necessaria, incontra quindi non poche difficoltà.
Un ultimo rilievo a proposito dell’intervento del prof. Ferraro che ha espresso riserve su questo intervento della giurisprudenza.
Si tratta di un intervento di supplenza che mi sembra inevitabile e doveroso. In presenza di una carenza e disordine del Sistema contrattuale che non garantisce ai lavoratori le tutele retributive dell’art. 36.
Nell’ incertezza dei dati di riferimento mi sembra ragionevole che i criteri per correggere situazioni contrattuali ritenute insufficienti siano ricercate anzitutto all’interno dello stesso ordinamento contrattuale, cioè guardando ai livelli salariali di base dei settori vicini a quelli in esame (a meno che non si ritenga possibile, come ho suggerito sopra, guardare ai livelli medi o mediani delle retribuzioni del sistema).

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