testo integrale con note e bibliografia

L’interlocuzione fra diritto del lavoro e diritto commerciale, che questo convegno si propone di sollecitare in riferimento ad alcune rilevantissime novità legislative in materia di responsabilità dell’imprenditore, ha una storia cospicua alle spalle. Ricordo, in particolare, l’acceso dibattito che si sviluppò tra la seconda metà degli anni ’40 e la prima degli anni ’50, in riferimento agli articoli 2085 del Codice civile e 41 della Costituzione, sulla c.d. “funzionalizzazione dell’impresa”, cioè sul punto se l’impresa sia libera di perseguire il solo interesse dell’imprenditore o debba operare anche in funzione di un “interesse unitario dell’economia nazionale” o di una “utilità sociale”, costituenti in entrambi i casi un interesse ben distinto da quello del titolare dell’azienda. Niente di rivoluzionario in senso bolscevico, beninteso, considerato che la concezione dell’imprenditore come una sorta di “funzionario” al servizio dell’interesse della collettività era stata fatta propria a destra dal regime fascista in Italia e da quello nazionalsocialista in Germania, i quali non avevano certo scardinato il sistema economico capitalista; e, a sinistra, era stata proposta dal revisionista Eduard Bernstein già alla fine dell’‘800 ed era stata fatta propria dal partito socialdemocratico tedesco e da altri partiti socialdemocratici del centro e nord-Europa nel corso della prima metà del ’900.
La linea del fronte tra chi sosteneva e chi negava la “funzionalizzazione dell’impresa” divideva la comunità dei giuscommercialisti come quella dei giuslavoristi. In seno a quest’ultima, in particolare, si osservava una curiosa convergenza tra i c.d. “istituzionisti”, che sostenevano la “funzionalizzazione” perché ancora ideologicamente legati alla cultura giuridica dalla quale era nato il libro V del Codice civile e dunque all’idea di derivazione germanica del Betrieb (o Unternehmen) an sich – penso per esempio alla relazione di Renato Balzarini e agli interventi di Widar Cesarini Sforza e Luigi Miglioranzi al convegno di Torino del 1954 su La tutela della libertà nei rapporti di lavoro (atti Giuffrè 1955) – e chi invece sosteneva qualche cosa di sostanzialmente molto simile, facendo però riferimento soprattutto alla norma costituzionale, come Salvatore Pugliatti e Ugo Natoli ( v. di quest’ultimo, Limiti costituzionali dell’autonomia privata nel rapporto di lavoro, Milano, 1955, p. 104: “l’iniziativa privata è garantita […] purché dia luogo ad una attività socialmente utile”).
È interessante per noi giuslavoristi osservare come questa “linea di faglia” tra favorevoli e contrari alla “funzionalizzazione” dell’impresa almeno in parte coincidesse con quella che divideva – e continuò successivamente a dividere ancora per almeno un quarto di secolo, fino all’incirca alla metà degli anni ’80 – i contrari alla natura contrattuale del rapporto di lavoro da coloro che invece la teorizzavano e difendevano. Ma è forse ancor più interessante osservare come questa linea di contrapposizione non coincidesse affatto, invece, con quella tra giuslavoristi più orientati a destra e giuslavoristi più orientati a sinistra: per un verso, tra i “funzionalisti” e i a-contrattualisti di quel primo decennio post-bellico – come si è appena visto – si annoveravano al tempo stesso giuslavoristi schiettamente di sinistra e giuslavoristi ancora legati a ideologie dominanti nel ventennio precedente; per altro verso, tra i contrattualisti si annoveravano giuslavoristi comunemente considerati più vicini alla parte imprenditoriale, come Giuliano Mazzoni, Luisa Riva Sanseverino o Giuseppe Pera, e giuslavoristi di area socialista come Gino Giugni e Federico Mancini, o addirittura di area comunista come Carlo Smuraglia (non per caso allievo a Pisa della professoressa Riva Sanseverino), il quale nella sua monografia su La Costituzione e il sistema del diritto del lavoro (Feltrinelli, 1958) prende nettamente posizione a sostegno della natura contrattuale del rapporto e contro la concezione istituzionista dell’impresa, costruendo la protezione del prestatore contro la facoltà di recesso dell’imprenditore più sull’art. 4 Cost. che sull’art. 41.
Fatto sta che sulla questione della “funzionalizzazione” o no dell’impresa parve dire la parola finale, in senso negativo, il giuscommercialista Gustavo Minervini con il suo articolo Contro la “funzionalizzazione” dell’impresa privata pubblicato sulla Rivista di Diritto civile nel 1958 (parte I, pp. 618 ss.). Sul terreno giuslavoristico, però, la questione rimase sostanzialmente aperta anche dopo che quella stessa nozione era stata bandita dal lessico corrente nei dibattiti accademici: era, infatti, proprio su un sostanziale vincolo di coerenza con l’utilità sociale che continuava a essere fondata da diversi autori, a cavallo tra gli anni ’50 e gli anni ’60 – in assenza di una disciplina legislativa esplicita della materia –, il tentativo di costruire una protezione del lavoratore contro il licenziamento deciso dall’imprenditore in modo arbitrario e ingiustificato (in linea con l’intervento di Ugo Natoli al convegno di Torino testé citato, pp. 26 e 33). La cosa merita di essere ricordata, pur a 70 anni di distanza, perché la posizione soggettiva del prestatore di lavoro nei confronti della facoltà di recesso unilaterale dell’imprenditore era da quegli autori, coerentemente, costruita non nei termini di un limite “esterno” alla libertà di impresa, ma nei termini di un limite “interno”: al lavoratore non veniva attribuito un diritto soggettivo alla conservazione del posto, bensì un interesse tutelato dall’ordinamento solo indirettamente, attraverso il controllo circa la coerenza dell’attività dell’imprenditore con l’utilità sociale. In altre parole, la posizione soggettiva del lavoratore veniva costruita nei termini di una sorta di “interesse legittimo” di diritto privato (idea, questa, che sarebbe stata poi coltivata e organicamente costruita da una allieva pisana dello stesso Natoli, Lina Bigliazzi Geri, nel suo Contributo allo studio dell’interesse legittimo nel diritto privato, Giuffrè, 1967).
Poco dopo, a dettare una disciplina specifica del licenziamento individuale e del trasferimento del lavoratore arriveranno la legge del 1966 sui licenziamenti individuali e lo Statuto dei lavoratori, la cui lettura prevalente è nel senso dell’imposizione di un “limite esterno” all’esercizio dell’attività imprenditoriale. Però, a ben vedere, il concetto di “giustificato motivo oggettivo” sul quale la disciplina limitativa è imperniata implica un controllo giudiziale sulla corretta gestione dell’impresa che ben può far – per così dire – rientrare dalla finestra un principio di sostanziale controllo della gestione stessa alla stregua della sua coerenza con l’utilità sociale: ciò a cui, del resto, assistiamo tuttora quotidianamente in una parte rilevante della giurisprudenza di merito su questa materia (v. in proposito quanto osserva Massimo Pallini commentando Cass. n. 21967/2010 in L’utilità sociale quale limite interno al potere di licenziamento, Riv. it. dir. lav., 2012, II, pp. 90-97). Col che torna d’attualità l’idea che la posizione soggettiva del lavoratore nei confronti del potere imprenditoriale di recesso o di trasferimento corrisponda strutturalmente alla figura dell’interesse legittimo piuttosto che a quella del diritto soggettivo. Per dirlo con altre parole, l’ordinamento in questo modo non garantisce al prestatore di lavoro direttamente il soddisfacimento della sua pretesa, bensì soltanto la correttezza dell’esercizio dei poteri imprenditoriali vagliata alla stregua di un modello di “buona impresa”; dove la “bontà” dell’impresa tende di fatto, nella prassi amministrativa e nella giurisprudenza di merito, a coincidere con una sua “utilità sociale” identificata con la difesa dei livelli occupazionali (per un approfondimento di questo discorso rinvio alla mia relazione al congresso dei civilisti del 2011 su Il percorso tortuoso del diritto del lavoro tra emancipazione dal diritto civile e ritorno al diritto civile, in Riv. it. dir. lav., 2012, I, partic. pp. 101-104).
Altrove mi sono proposto di mostrare come la struttura propria dell’interesse legittimo, riferita alla posizione del lavoratore nei confronti dell’esercizio da parte dell’imprenditore dei propri poteri, ricompaia anche nella materia dell’attivazione della Cassa integrazione guadagni e dei suoi riflessi sulla sospensione o riduzione delle due prestazioni contrapposte (lavoro e retribuzione): anche qui l’ordinamento non tutela un diritto alla continuità delle prestazioni stesse in modo diretto, bensì soltanto in modo indiretto, consentendone la sospensione o riduzione purché nell’ambito di un procedimento gestionale mirato a garantire l’informazione preventiva della controparte sindacale, nonché trasparenza e oggettività dei criteri delle scelte compiute dall’imprenditore. Ancora una volta, dunque, la protezione del lavoro passa attraverso una procedimentalizzazione della gestione dell’impresa i cui confini rispetto a una dichiarata finalizzazione dell’impresa stessa all’utilità sociale sono assai labili, facilmente valicabili; e che comunque rende la struttura della posizione soggettiva della persona che lavora nei confronti delle scelte di gestione dell’impresa strutturalmente più simile a una sorta di “interesse legittimo di diritto privato” che a un vero e proprio diritto soggettivo (rinvio in proposito a Il tempo della prestazione nel rapporto di lavoro, vol. I, Giuffrè 1984, pp. 132-139).
La realtà è che ogni procedimentalizzazione della gestione aziendale, essendo finalizzata a favorire il conformarsi della gestione stessa a un modello di “buona impresa”, anche se concettualmente non coincide con una schietta finalizzazione delle scelte dell’imprenditore all’“utilità sociale”, ne è però una parente prossima. L’idea della “funzionalizzazione dell’impresa”, dunque, pur ritualmente esorcizzata e ufficialmente relegata tra i reperti archeologici, in realtà è sempre dietro l’angolo; e non è un male che lo sia, purché a chi fa le leggi e a chi le applica sia ben chiaro, almeno in linea teorica, il confine tra i due regimi.
Donde l’importanza di questo nostro incontro: le recenti novità in tema di governance dell’impresa da cui esso trae spunto, introdotte o preannunciate nell’ordinamento europeo e in quello nazionale, tendono esplicitamente a delineare un modello di “buona impresa”, attenta a non produrre esternalità negative; e il confine tra questo modello di “buona impresa”, preoccupata anche degli interessi della collettività, e quello dell’impresa impegnata a perseguire l’“utilità sociale” merita sempre di essere esplorato con grande attenzione. Mi sento di aggiungere: senza eccessive preoccupazioni per i casi in cui il confine stesso si rivela evanescente: negli ultimi 75 anni, almeno negli ordinamenti dell’Europa continentale, lo è sempre stato.
Buon lavoro, dunque, ai nostri relatori e a chi vorrà arricchire il dibattito con il proprio contributo.

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