testo integrale con note e bibliografia

L’evento odierno è costruito intorno a un famoso Trattato di cui si celebra un importante anniversario. Esso è anche congegnato intorno agli studiosi che hanno reso vivo il Trattato con i loro contributi, ciascuno con il proprio stile.
In questi casi lo stile dei singoli confluisce in uno stile narrativo comune, adoperato e affinato nei Trattati, opere letterarie che più di altre forniscono un’idea di unitarietà.
Lo stile, che è insieme accuratezza nella esposizione dei contenuti e attenzione nell’uso del linguaggio, deve sempre essere elogiato, così come deve essere preservato il patrimonio di idee che in quella narrazione si sedimenta attraverso un metodo di sistematica ricostruzione delle singole materie discusse in ogni volume del Trattato.
Questo comune impegno riflessivo si deve alla stratificazione di interpretazioni, oltre che all’intento di fornire un quadro complessivo e una esposizione esaustiva.

Una prima domanda da porsi oggi è se questo metodo debba essere rivalutato nell’era della comunicazione digitale, della rapidità e talvolta dell’informalità delle comunicazioni accademiche e in generale della diffusione di testi che sono per definizione testi di approfondimento.
La risposta, qualunque essa sia, non può eludere un dato di fatto, ovvero la costatazione che quei testi sono essenziali, anche paerché sovente destinati alla formazione e perciò rivolti a chi affronta una fase di apprendimento, per aprirsi alla conoscenza di una specifica disciplina.
Pur consapevoli dei benefici che la comunicazione affidata a strumenti di rapida divulgazione, immediatamente fruibili online, porta con sé e nella convinzione che si tratta pur sempre di una comunicazione scientifica, tuttavia, in quel tipo di comunicazione si avverte il rischio di sottrarre qualcosa alla cura dei dettagli e alla ricerca, se necessario, di ogni parola giusta al posto giusto.
Se questo vuol essere l’elogio di un metodo – e in particolare del metodo voluto dai curatori del Trattato che qui onoriamo – questo stesso elogio deve essere trasferito intatto all’autore del volume dedicato al lavoro, Oronzo Mazzotta. Questo Autore, peraltro, mantiene inattaccabile il suo stile anche nella comunicazione online, come dirò fra poco con riferimento a una sua recente intervista.

Ci sono però alcune premesse che subito devo fare per motivare meglio e rendere più solido l’entusiasmo del mio elogio iniziale.
La prima serve a sfatare il mito di una storica rivalità fra Lecce e Bari. Ebbene, Oronzo ed io siamo amici da tanto tempo nonostante le nostre città natali. Abbiamo voluto rappresentare – peraltro in buona compagnia con altri colleghi – una sorta di orgoglio pugliese all’interno di una comunità scientifica caratterizzata da tanti accenti regionali e non solo.
La seconda si collega alla prima perché noi due – per un breve, ma intenso periodo – siamo stati colleghi nell’ateneo fiorentino e abbiamo dovuto entrambi risciacquare i nostri panni in Arno, ma io, arrivata dopo, con più difficoltà di lui, perché Oronzo già conosceva il fiume nei suoi alvei pisani.
Non vi nascondo che, nonostante la consapevolezza dell’essere noi coetanei, ho sempre avvertito un po’ di timore nel confrontarmi con lui. Questa confessione è il segno di un grande rispetto per la persona e per il suo magistero, mentre il timore di cui ho detto nasce da una irrazionale associazione che creavo tra lui – pugliese, pacato, dolce e convincente nel tono della voce – e il suo Maestro Giuseppe Pera – toscano, burbero, talvolta irraggiungibile, sarcastico.
Senonché il segno dei grandi Maestri si vede proprio nel saper lasciare andare i propri allievi per la loro strada, nel vederli sbocciare e nell’ammirare orgogliosamente quella fioritura. Oronzo Mazzotta ha sempre avuto un suo personale percorso da seguire, una sua genuina originalità di metodo e di scrittura, ma anche una sua lealtà nei confronti della Scuola pisana e una sua coerente appartenenza alla stessa .

La conclusione di questo preambolo mi porta al merito del mio intervento di oggi.
I tratti salienti della cultura giuridica di O. M., studioso che spazia e si diffonde sull’intera materia, si traggono dalle prime pagine del volume del Trattato dedicato al lavoro.
Innanzi tutto, vi è il rapporto del diritto del lavoro con il diritto civile, «un topos della letteratura manualistica al quale non intendo sottrarmi» , come scrive l’Autore. Il suo risalente interesse per questi profili è dimostrato dal fatto che il legame fra diritto del lavoro e diritto civile fu il terreno elettivo degli scritti da lui raccolti in un libro del 1994 .
È convinto che il diritto del lavoro abbia contribuito al rinnovamento del diritto dei contratti e orgogliosamente rivendica un ruolo autonomo, tutt’altro che ancillare, del diritto del lavoro.
Del pari, segnala con chiarezza alcuni punti di attrito fra le due discipline. Ne ricordo solo alcuni.
L’ origine contrattuale o meno del rapporto di lavoro è un tema che porta con sé il nodo della valorizzazione dell’autonomia privata a fronte della norma inderogabile. Si tratta di un argomento da sempre controverso, tutt’altro che formalistico, poiché disvela profonde opzioni metodologiche della dottrina.
Altrettanto evocativa è la tensione fra subordinazione e organizzazione , che per certi aspetti corre in parallelo alla verifica di una asimmetria dei poteri esercitati dalle parti contraenti. Questi grandi temi, che diacronicamente segnano l’evoluzione della dottrina giuslavoristica, non perdono di attualità a fronte delle novità emerse in tempi recenti, quali ad esempio il lavoro prestato tramite piattaforme digitali.

Dalla puntigliosa ricostruzione dei caratteri della subordinazione, che O.M. ci offre con maestria, emerge la lettura, da un lato storica, dall’altro sistematica, che vede il lavoratore “esautorato” e al contempo alienato. Non si può non ricordare, a questo proposito, la condizione di doppia alienità del lavoratore, propria della subordinazione, descritta da Mengoni in veste di redattore di una nota sentenza della Corte costituzionale .
La subordinazione, così intesa, serve a illustrare la ratio dell’intervento normativo rivolto a una particolare categoria di soggetti. E Mazzotta esalta il dato della dipendenza dalla altrui direzione, sempre in una lettura costituzionalmente orientata.
Il riferimento costante alla Costituzione e ai valori fondanti è un dato ineludibile nella intera narrazione giuslavoristica di O. M., lo è in modo evidente e chiaro nel volume del Trattato, come se fosse un filo teso o, se si preferisce, un motivo conduttore che non è mai retorico.

L’equilibrio riversato nell’analisi nella nostra materia – che può risultare divisiva e a volte lo è stata in modo anche eclatante – si deve ricercare nella piena comprensione della sua evoluzione diacronica, da proporre con toni obiettivi, senza oscurare le opzioni di fondo, che sono innanzi tutto metodologiche.

Un altro dato che non si perde mai di vista nella chiara esposizione proposta in quel volume è la costante interrelazione fra legge e diritto vivente, nonché il riferimento alla giurisprudenza costituzionale, letta anche questa nel suo dinamismo evolutivo, con i suoi tratti di interna coerenza. Nella scrittura di Mazzotta la giurisprudenza si innesta costantemente nella illustrazione dei dati normativi e diviene, in tal modo, un’autorevole guida per il lettore, che può assorbire nozioni dinamiche, talvolta dissonanti, radicate nell’interpretazione.

Tutti questi elementi, uno dopo l’altro, ci lasciano scoprire una oculata scelta di campo: quella di un riformismo costruttivo, nel solco della migliore dottrina fondativa della materia . Un riformismo ordinato, che non fa salti, proprio perché costruisce sulla storia le sue proposte.
Non si corre il rischio, leggendo Mazzotta, di rammaricarsi – come tempo addietro segnalò autorevolmente Mengoni – per «l’impoverimento del pensiero sistematico» .
In queste pagine il metodo è linearmente delineato, proprio perché l’Autore non si lascia trascinare da quella sorta di sindrome che a volte colpisce una parte della dottrina e che consiste nell’inseguire il presente, cercando a ogni passo il vuoto lasciato dal legislatore, l’errore o l’assenza di equilibrio, inseguendo un approccio soggettivo e talvolta estemporaneo.
Torna in primo piano la questione del metodo, poiché la comunità scientifica non può farsi trascinare dalla «razionalità della politica [che] accresce la contingenza e la strumentalità dell’elaborazione giuridica» .
Torniamo a leggere le pagine introduttive del volume in cui il diritto del lavoro è presentato di per sé quale svolgimento del principio espresso dall’art. 41 Cost. .
L’insegnamento che ci proviene dalla dottrina costituzionalistica conduce a leggere l’art. 41 quale classico esempio cui si fa riferimento per “pesare” i principi, secondo una tecnica di bilanciamento della libertà economica con gli altri interessi in gioco, soprattutto se si valorizza nel secondo comma il riferimento alla dignità, oltre che all’utilità sociale . La libertà economica nasce limitata e al tempo stesso bilanciata.
Ed ecco le parole di Mazzotta: «l’intervento del legislatore in materia lavoristica rappresenta infatti la materializzazione degli interessi che si contrappongono, limitandola, all’iniziativa economica privata» . Inoltre, la norma lavoristica è letta come guida nella «mediazione del conflitto di interessi» .
Per queste scelte di fondo Mazzotta si colloca fra i più rigorosi esponenti di quello che egli stesso definisce “garantismo normativo”. Questa espressione particolarmente nitida ben si attaglia alla sua statura di studioso. È importante che si identifichino gli esordi di questa formula con la sentenza n. 63/1966 della Corte costituzionale, che dichiara l’illegittimità dell’art. 2948, n. 4, c.c. nella parte in cui consente la decorrenza della prescrizione in costanza di rapporto, in presenza dell’allora vigente libertà di licenziare .
Si coglie, in questo storico passaggio, una funzione emancipatrice del diritto del lavoro, letto costantemente attraverso la lente della Costituzione. E infatti non è mai superfluo il richiamo che si legge nell’art. 1 Cost., in quanto espressivo del principio lavorista e dello stretto rapporto che intercorre fra lavoro e democrazia.
Il diritto del lavoro attuativo dei principi costituzionali dialoga con la dottrina costituzionalistica che vede i principi concretizzarsi nelle regole, perché solo in questo modo i principi possono vivere ed essere inverati.
L’espandersi del diritto del lavoro e in particolar modo dei diritti sociali segna in modo netto il passaggio dallo stato liberale allo stato sociale. Come ha scritto recentemente Gaetano Silvestri in un volume dell’Enciclopedia del Diritto, in quel passaggio l’attenzione si sposta sulla persona, poiché le istituzioni si aprono «ai conflitti e alle contraddizioni presenti nella società civile, che, sempre meno separata dalle istituzioni, trova all’interno di esse campo aperto e terreno fertile per introdurre interessi collettivi diversi ed, in ipotesi, confliggenti» .
La funzione normativa si esercita nel rispetto dei principi fondamentali e anche la giurisdizione sempre più spesso interviene in funzione di controllo per favorire «l’adattamento dell’ordine normativo al mutamento dei fatti». I fatti si riversano nei casi che sono “casi vivi” .
Solo l’interpretazione è in grado di adeguare il diritto alla vita reale. Questa convinzione mi porta a condividere quanto ha scritto recentemente Raffaele De Luca Tamajo, che reputa incomprensibili le posizioni dottrinarie animate da un pregiudizio nei confronti dell’interpretazione , alcune delle quali, non sempre ben argomentate, svelano talvolta un antistorico e irrazionale sussulto contro la discrezionalità dell’interprete .

Torniamo a Mazzotta e alla sua analisi storica. Verso la metà degli anni Sessanta cominciò ad avvertirsi come “intollerabile” – in relazione all’evoluzione dello stato sociale – il mantenimento di un sistema che faceva perno su di una assoluta libertà di licenziamento e la questione venne posta alla Corte costituzionale. Si cita la sentenza n. 45 del 1965 della Corte che, come è noto, aprì la strada al legislatore con la prima disciplina dei licenziamenti individuali, la legge n. 604 del 1966.
Non è, per me, mai ridondante ricordare che in quella decisione di non fondatezza della questione di costituzionalità dell’art. 2118 c.c., sollevata in riferimento all’art. 4 Cost., la Corte usò parole suadenti oltre che incisive nel rivolgere un monito al legislatore. Resta, quello ora citato, un esempio virtuoso di ascolto del giudice delle leggi da parte del legislatore, recentemente non replicato.
Questi, in estrema sintesi, i passaggi argomentativi essenziali allora espressi dalla Corte. Il diritto al lavoro, «fondamentale diritto di libertà della persona umana», pur non garantendo la stabilità dell’occupazione, quindi «il diritto alla conservazione del lavoro», tuttavia «esige che il legislatore ... adegui ... la disciplina dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato al fine ultimo di assicurare a tutti la continuità del lavoro e circondi di doverose garanzie … e di opportuni temperamenti i casi in cui si renda necessario far luogo a licenziamenti». Il corsivo, che ho inserito io nella citazione di un brano di questa storica sentenza, consente a chi legge di apprezzare l’uso di un linguaggio evocativo di un metodo orientato a funzionalizzare le tutele ponendo al centro la persona umana, il che vuol dire indirizzando verso la persona del lavoratore un principio che irradia la carta fondamentale.
Mazzotta accoglie l’interpretazione dell’art. 4 Cost. data da Mortati, il quale, nell’ottica dell’art. 41, comma 2, Cost., ritenne di inquadrare il diritto al lavoro nel superamento del recesso ad nutum .
Anche per questo non è superfluo, né tanto meno retorico, il riferimento congiunto agli articoli 4 e 35 Cost.: diritto al lavoro e tutela del lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni servono a corroborare la «necessaria giustificazione del recesso» come la Corte ha ribadito in seguito (ad esempio con la pronuncia n. 41 del 2003).
Apro ora una parentesi personale che riguarda la mia fortunata – e aggiungo privilegiata – esperienza di giudice costituzionale, in particolare quando mi è stata affidata la prima di quella che sarebbe divenuta una lunga serie di questioni in materia di licenziamenti.
Le sentenze della Corte sono precedute da una meticolosa ricerca, svolta dagli assistenti di studio, basata soprattutto sui precedenti della Corte stessa e sulla giurisprudenza di legittimità. Non si trascura la dottrina, ma questa, nella prassi che guida gli assistenti di studio, viene centellinata, con il solo ricorso ai contributi più autorevoli ed equilibrati.

In quell’opera minuziosa di selezione un nostro punto di riferimento – dico “nostro” perché ho lavorato in stretta simbiosi con i miei assistenti di studio, cui non smetto mai di esprimere gratitudine e, in particolare, uno di loro, il dott. Angelo Cerulo, si è formato nell’Università di Pisa – sono stati gli scritti di Mazzotta, limpidi, saggiamente orientativi nelle scelte difficili, misurati proprio perché obiettivi nella linearità di una ricostruzione della materia che, come prima evidenziato, si deve definire nel senso più concreto storico-sistematica.
Abbiamo poi ricercato ansiosamente i suoi scritti, a seguito della pubblicazione delle sentenze, per cogliere i toni del commento tempestivo e tuttavia mai disallineato dalla lettura dei precedenti, scritti che spesso abbiamo visto affidati alla rivista Labor, magistralmente diretta dallo stesso Mazzotta.
Questo metodo si rivela ancor più importante quando il giudice delle leggi si confronta con una produzione normativa frastagliata, che spezzetta i fili di un ragionamento e rende arduo il ruolo dell’interprete.
Luca Nogler, in modo arguto come di consueto, ha sollecitato una riflessione «anzitutto sociologica» sul modo in cui la dottrina giuslavoristica ha inteso incidere sulle scelte del legislatore e giungere in tal modo a «sviscerare il perché di questa brama di resettare di continuo il sistema normativo giuslavoristico», riflessione che dovrebbe far comprendere meglio un atteggiamento che ha attraversato intere generazioni e che ha interessato figure accademiche di provenienze diverse .

Per contrastare questo fenomeno e restare nel campo della disciplina dei licenziamenti, torno alle rassicuranti parole della ‘‘dottrina Mazzotta’’, decisamente non afflitta dalla sindrome prima descritta, che accoglie l’impostazione della sentenza 194/2018 sul punto della «indebita omologazione di situazioni che possono essere e sono nell’esperienza concreta diverse» e sulla piena attuazione del principio di eguaglianza attraverso la personalizzazione del danno.
Pure adesiva è la sua posizione circa il richiamo a criteri diversi e ulteriori rispetto a quello dell’anzianità per calcolare l’indennizzo, criteri «desumibili in chiave sistematica dalla evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti» , in sostanza con riferimento all’art. 8 della l. n. 604 del 1966.
Il licenziamento, afferma Mazzotta in uno scritto recente, è «atto irriducibilmente individuale» e si inserisce nella dinamica di ogni singolo rapporto. Pertanto, la sanzione non può essere standardizzata.

Questo è un esempio calzante di un diritto del lavoro incardinato nel secondo comma dell’art. 41 della Costituzione: ispirato al valore della dignità della persona umana che rende diverso il rapporto di lavoro da tutti gli altri rapporti di lunga durata, come la Corte ha voluto ribadire più volte.
Seppur la cosa potrà destare sorpresa, distaccandomi dalla completezza rigorosa del Trattato che ho elogiato, faccio riferimento, come anticipato nell’esordio di queste mie brevi considerazioni, a una recente intervista rilasciata da Oronzo a Vincenzo Poso, un altro pugliese e un altro illustre componente della scuola pisana.
L’intervista, pubblicata online nella rivista Giustizia Insieme è incentrata sulle due recenti sentenze della Corte costituzionale (relatore Giovanni Amoroso) sempre in materia di licenziamenti, tema cui O. M. ha dedicato molte delle sue migliori pagine. Oltre quelle assai organiche del Trattato, mi piace ricordare, nella sua immensa produzione scientifica, le pagine racchiuse in un prestigioso Commentario .
Può sembrare che mi contraddica, poiché avendo esaltato il Trattato come esempio di stile narrativo dettagliato e ponderato, propongo ora il riferimento a un’intervista e per giunta online.
In realtà il rigore linguistico del nostro Autore, specchio della sua coerenza di pensiero e di metodo, non cambia con il mutare del genere letterario, ma resta impeccabile anche in questa modalità comunicativa, sollecitato da un interlocutore altrettanto rigoroso e accurato nel linguaggio.
Il contributo sotto forma di intervista si intitola La revisione costituzionale dei licenziamenti come disciplinati dal Jobs Act e pone in evidenza, anche in questo caso, un punto saliente che guida la ricostruzione sistematica di una materia fra le più frammentate .
Oronzo ha chiaro il peso dei valori costituzionali nella formazione del diritto del lavoro italiano, ne percepisce l’attualità e, come sostenuto da molti, la praticità, se è vero che i valori sono indicati come tali, senza che occorra positivizzarli.
Lo stesso accade – è bene ricordarlo – nel diritto dell’Unione Europea e nella giurisprudenza della Corte di giustizia, sempre più orientata verso una lettura congiunta degli articoli 2 e 4 del Trattato sull’Unione Europea. La CGUE, nel garantire una interpretazione uniforme dei Trattati e con essa l’eguaglianza degli Stati membri, non trascura di evidenziare il riferimento, contenuto nell’art. 4, alla «struttura costituzionale» degli Stati.

Nell’intervista che ho voluto citare, Mazzotta ribadisce la necessaria causalità del recesso sostenuta dagli articoli 4 e 35 della Costituzione e da qui fa partire la sua condivisione circa il ricorso a criteri di adeguatezza e sufficienza della sanzione.
Si sofferma sulla disciplina delle tutele crescenti e scrive: «Lungi dal rappresentare un nuovo modello negoziale … consistono in nient’altro che in una tecnica per determinare l’entità dell’indennizzo dovuto in caso di licenziamento illegittimo, entità che viene ancorata agli anni di servizio’». A questa tecnica si attribuisce un peso specifico importante se si ritiene che porti con sé la certezza del diritto e se – scrive Mazzotta – le si attribuisce l’obiettivo “meno nobile” di una giustizia predittiva.
Ciò che più mi piace richiamare di questa intervista, in uno stile fresco e non paludato, è l’immagine dell’imprenditore «capitano coraggioso» che misura «con il bilancino del farmacista quanto gli costerà il licenziamento illegittimo».
Fra questa riuscita metafora, collocata in uno scritto breve ma completo che porge con spirito critico e anche immaginifico il senso di una contraddizione, e il suo meditato contributo contenuto nel volume del Trattato di cui oggi ci occupiamo in questo convegno, corre un unico filo di coerenza. La solidità della ricostruzione proposta dal nostro Autore, necessaria in un’opera destinata a durare nel tempo, gli fornisce tutti gli strumenti per valutare criticamente, anche con l’occhio dell’osservatore contemporaneo, quello che non ha funzionato.
Non vi è prova – afferma con forza – che un minor costo dei licenziamenti favorisca l’occupazione. E vi è tristemente prova che le politiche del lavoro messe in atto da oltre quarant’anni non abbiano avuto esito positivo.
Il discrimine temporale introdotto dal legislatore del Jobs Act – in questo Mazzotta concorda con la Corte costituzionale – deve essere letto in maniera sincronica per affrontare lo spinoso aspetto della diseguaglianza di trattamento fra i lavoratori rientranti nella vecchia o nella nuova disciplina dei licenziamenti.
Ci sarebbe da commentare, giunti a questo punto, il silenzio del legislatore, più volte allertato dai moniti della Corte costituzionale. Ci sarebbe da ripercorrere il dibattito fra quanti stigmatizzano l’attivismo delle Corti costituzionali, quasi a voler profilare una precisa strategia delle stesse nel varcare la linea di confine che le separa dal legislatore, e quanti vedono come indispensabile l’intervento del giudice delle leggi, quando sono in discussione diritti fondamentali da garantire subito, senza indugio .
Non è questa la sede in cui avviare un approfondimento sul punto, ma mi conforta pensare che Oronzo Mazzotta ha sempre colto in pieno la misura della giurisprudenza costituzionale, che, non a caso, cita nel volume del Trattato quasi fosse una trama su cui tessere altri argomenti.
In conclusione, in tale volume si ritrova un esempio di concretezza nel metodo, oltre che di eleganza nello stile, una saggezza espositiva che orienta il lettore, un distillato di pluralismo, tutte caratteristiche da non perdere e da insegnare alle nuove generazioni di giuslavoristi.

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