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Per ricordare il professor Renato Scognamiglio, mancato a Roma all’età di 98 anni il 21 agosto scorso, con la gentile autorizzazione della Casa Editrice Giuffrè Francis Lefèbvre riprendiamo questa sua intervista, svoltasi a Roma il 2 e 17 settembre 1993, originariamente pubblicata sulla Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, parte I, 1994, pp. 3-28, poi nel libro Il diritto del lavoro nell’Italia repubblicana. Teorie e vicende dei giuslavoristi dalla Liberazione alla fine del secolo, a cura di Pietro Ichino, Giuffrè, 2008, pp. 519-542. Le tre interviste precedenti, a Luigi MENGONI, Gino GIUGNI e Federico MANCINI, sono state pubblicate nella stessa Rivista, rispettivamente 1992, I, 109-122 e 411-456, e 1993, I, 143-187, e anch’esse riprese nel libro del 2008, pp. 409-517. Seguì a qualche anno di distanza l’intervista a Giuseppe PERA, pubblicata sulla rivista nel 2006, I, pp. 107-140, e nel libro del 2008, pp. 543-576.

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Aperta con l’intervista al civilista MENGONI, la nostra inchiesta sulla storia del diritto del lavoro nel secondo dopoguerra si chiude con l’intervista a un altro civilista, che pure ha svolto un ruolo di primo piano in campo giuslavoristico e da un quarto di secolo al diritto del lavoro si è prevalentemente dedicato. Vorremmo conoscere più da vicino la storia di questo Suo passaggio dal diritto civile al diritto del lavoro, anche per capire meglio il rapporto che, nella Sua concezione, corre tra le due branche dell’ordinamento.


Subito dopo la laurea fui attratto da Francesco SANTORO PASSARELLI per la modernità del suo insegnamento; fu lui a propormi di restare all’Università. “Restare” per modo di dire, perché la Facoltà giuridica napoletana poteva contare, nell’immediato dopoguerra, complessivamente, su quattro posti di assistente ordinario; all’inizio mi si offriva dunque soltanto la posizione di “assistente di fatto”. Poi, nel ’46, si ricorse all’espediente di dividere in due un posto di assistente, naturalmente con divisione dei relativi magri compensi; condividevano con me questa non comoda posizione Giuseppe GUARINO, Gustavo MINERVINI, Francesco CAPOTORTI, Francesco Paolo BONIFACIO.

Uno staff di grande levatura.

C’erano anche altri collaboratori, di minore vaglia, presso le cattedre napoletane, che si sono persi per strada; ma effettivamente il vivaio di giovani studiosi era di primo ordine. Peraltro la mia esperienza di maestro e docente mi ha consentito di constatare che i giovani meridionali sono maggiormente portati per gli studi giuridici che non quelli del nord, inclini invece verso le materie tecnico-commerciali (lungi da me, beninteso, ogni valutazione di stampo razzista).

Ritorniamo ai Suoi studi.
Dopo la laurea ho iniziato a occuparmi dell’invalidità del negozio giuridico, prendendo le mosse dal tema specifico, allora di moda, della invalidità successiva. Ma mi resi ben presto conto che non potevo venire a capo dei problemi dell’invalidità e/o inefficacia, senza una visione generale del fenomeno negoziale. In quell’epoca imperava presso i nostri studiosi la dogmatica tedesca, alla quale si ispiravano da vicino i giuristi di maggiore spicco. Si riteneva indispensabile, per affrontare con forze adeguate lo studio di un problema di diritto civile, specialmente nel campo dell’autonomia negoziale, la conoscenza approfondita della dottrina tedesca, da quella pandettistica ai suoi epigoni, con elaborazioni scientifiche di particolare pregio che risalivano tuttavia ad epoca non tanto recente: i primi decenni del secolo. A stimolare maggiormente l’impegno verso una revisione della teoria del negozio giuridico contribuì fortemente l’importante monografia del BETTI sul negozio giuridico che, attaccando alla radice la concezione volontaristica fino allora dominante, suscitò un acceso dibattito tra i maggiori civilisti italiani. Certo doversi misurare, su un argomento così arduo, con le trattazioni di studiosi ben più maturi e agguerriti, era una impresa da far tremare le vene e i polsi. E lascio immaginare quale fosse la preoccupazione mia, e in minor misura anche del mio maestro Francesco SANTORPOA SSARELLI, che la volontà e l’ingegno risultassero inadeguati al compito.

Per quanto tempo è durata questa fase di studio?

Ho dedicato allo studio dell’argomento alcuni anni e finalmente nel 1950 l’opera ha visto la luce. Sulle orme della concezione oggettivistica proponevo una costruzione del negozio giuridico imperniata principalmente sul profilo funzionale, che intendeva recare un contributo originale alla conoscenza e alla risoluzione dei molteplici problemi sollevati dalla qualificazione e dalla disciplina della figura. Il libro incontrò un notevole successo: talvolta la fortuna aiuta gli audaci. Ricordo tra l’altro che Francesco CARNELUTTI, nella sua rassegna della dottrina pubblicata nella Rivista di diritto processuale, espresse un giudizio sintetico, come era solito fare, ma molto favorevole. Nello stesso anno mi si presentò la possibilità di ottenere un incarico di insegnamento di istituzioni di diritto privato e di diritto civile (all’epoca le due materie erano assegnate non di rado allo stesso docente) presso le Università di Camerino e Urbino e scelsi quest’ultima. Nel corso del 1950 ottenni altresì la libera docenza in istituzioni di diritto privato.

Chi furono gli altri vincitori?

Furono RESCIGNO, MIRABELLI e PINO. Passai subito dopo a studiare un argomento di taglio diverso, il diritto di accrescimento nelle successioni causa mortis, che doveva costituire l’oggetto della seconda monografia, all’epoca indispensabile o quasi per poter vincere un concorso a cattedra.

Che cosa la indusse a scegliere questo argomento?

Volevo dimostrare, dopo l’esperienza del Negozio giuridico, di saper trattare anche un argomento di limitato respiro e di prevalente carattere tecnico, in un settore del diritto civile lontano dalla materia dell’autonomia privata. Nel 1952 partecipai al mio primo concorso a cattedra, di diritto civile, e riuscii vincitore insieme ancora una volta a RESCIGNO e a FEDELE. La Commissione era composta, se male non ricordo, da CICU, SCADUTO, TRABUCCHI, DE JANA e RUBINO. Incontrammo qualche difficoltà per le chiamate: la mia, ad Urbino, poté avvenire solo nel febbraio 1954. Nell’ottobre 1955 fui chiamato a Catania per succedere a Michele GIORGIANNI; e qui ebbe inizio la mia esperienza di studioso e docente di diritto del lavoro. Infatti, per una antica tradizione, nella Facoltà di giurisprudenza di Catania il titolare di diritto civile era chiamato a insegnare per incarico il diritto del lavoro. Nello stesso periodo iniziavo a svolgere la mia attività professionale, anche, per una singolare coincidenza, nell’area delle controversie del lavoro: divenni consulente e difensore della Camera del lavoro di Napoli e dei lavoratori aderenti ad alcuni sindacati della CGIL.

Cera dunque già, da parte Sua, un impegno giuslavoristico “militante”.

In effetti trovai un vivo interesse, e soddisfazioni morali (ben più che materiali), nel battermi per i lavoratori, che all’epoca, e in una zona depressa come quella di Napoli, erano soggetti particolarmente deboli, anche e specialmente sul piano processuale, data la macchinosità e la lentezza del processo civile. Occorre far presente anche che in quei tempi, dopo tutto non tanto lontani, il diritto del lavoro era la Cenerentola della scienza giuridica, e le cause del lavoro erano guardate con sufficienza, a dir poco, dagli avvocati e dagli stessi giudici, che non gradivano di occuparsene e non mancavano di farlo notare. Tornando al mio impegno scientifico, fui indotto a dedicarmi maggiormente allo studio del diritto del lavoro anche dall’esempio dei mio maestro, SANTORO PASSARELLI, che nel 1946, se male non ricordo, era stato chiamato a Roma appunto per insegnare diritto dei lavoro, ma sarebbe passato ben presto a coprire anche l’insegnamento del diritto civile. Debbo dire che all’epoca coltivavo la speranza di poter essere chiamato a Napoli alla cattedra di diritto del lavoro per la quale si profilava la possibilità di una vacanza, mentre la situazione appariva chiusa, verosimilmente per molti anni, riguardo agli insegnamenti delle istituzioni di diritto privato e di diritto civile. Ma fui chiamato a Napoli, dopo un triennio di insegnamento a Bari nelle materie civilistiche, al diritto privato comparato per coprire successivamente per incarico le cattedre di diritto commerciale e di diritto del lavoro.

Le Lezioni di diritto del lavoro erano comunque già uscite.

Sì, ed erano il frutto dell’insegnamento presso la Facoltà giuridica di Catania. Poi, nel 1970 fui chiamato a Roma alla cattedra di diritto del lavoro, lasciata libera da SANTORO PASSARELLI, alla quale sono rimasto legato, malgrado dopo breve tempo si aprisse la possibilità, con la proliferazione delle cattedre nella Facoltà di Roma, di ritornare all’insegnamento di istituzioni di diritto privato e di diritto civile. E anche le cattedre di diritto del lavoro si moltiplicarono, cosicché fu possibile chiamare, nell’ordine, i colleghi Gino GIUGNI, Mattia PERSIANI, Matteo DELL’OLIO.

Fin qui abbiamo parlato del Suo passaggio dal diritto civile al diritto del lavoro nell’attività di insegnamento; vorrei che Lei ora ci dicesse dello stesso passaggio sul piano scientifico e di come Lei vede il rapporto fra le due branche dell’ordinamento.

Mi sono formato, come ricordavo, nello studio del diritto civile e principalmente dell’autonomia negoziale. Per questa ragione, forse, quando i miei interessi si sono rivolti anche al diritto del lavoro, sono rimasto colpito da quella che mi è sempre apparsa una sorta di acquiescenza, quasi di timore reverenziale, della dottrina giuslavoristica nei confronti di quella civilistica, con particolare riguardo alla materia dei contratti. A me è sembrato invece – e il punto è stato oggetto da allora in poi di ricorrente meditazione – che esistesse un divario abbastanza netto tra il diritto del lavoro e il diritto, vorrei chiamarlo così, dei contratti. Una prima considerazione risulta fortemente suggestiva, pur nella sua semplicità: se fosse bastato il diritto dei contratti a soddisfare le esigenze di disciplina del rapporto di lavoro subordinato, non sarebbe sorto, né si sarebbe sviluppato, il ramo speciale del diritto intitolato al lavoro. Che in effetti si è andato costituendo – secondo una opinione diffusa nella nostra dottrina, che forse non ne trae le giuste conseguenze – proprio per la riconosciuta insufficienza della figura del contratto a sostenere il peso del lavoro subordinato.

In quale senso insufficienza?

Nel senso che il contratto è l’espressione tipica, quanto insostituibile, della libertà dei privati: la libertà, intendo, di dare regola da sé ai propri interessi. Non per caso le figure del negozio giuridico e del contratto assumono un ruolo centrale nell’esperienza giuridica del secolo scorso. Era l’epoca nella quale trionfavano sul piano sociale, economico e culturale, le ideologie dell’autonomia dell’individuo e della supremazia del suo volere. Vorrei ricordare che solo attraverso un cospicuo sforzo di pensiero la dottrina tedesca dei primi decenni dell’Ottocento pervenne alla conclusione che la volontà dei privati non costituisce la fonte diretta degli effetti negoziali: effetti che essa è in grado di produrre solo in quanto la legge lo consente.

Questa acquisizione fondamentale essere, cioè, sempre l’ordinamento, non la volontà delle parti, la fonte prima degli effetti del contratto si riferisce all’intera materia del diritto dei contratti; perché dunque essa non potrebbe agevolare l’integrazione del diritto del lavoro (dove pure il ruolo della legge nella disciplina del rapporto è assai più ampio che altrove) nel diritto dei contratti?

La ragione è che il rapporto di lavoro presenta elementi di diversità, o specialità, che lo contraddistinguono nettamente dalla categoria e dai singoli tipi legali di contratto. In un regime di libertà e in uno Stato di diritto, di fronte ai quale tutti i cittadini sono uguali, il rapporto di lavoro subordinato genera un vincolo di assoggettamento della persona del prestatore al servizio e per la realizzazione dei fini di un altro soggetto, particolarmente pesante in quanto incide su esigenze e interessi vitali della persona, cosicché male si addice all’idea stessa del contratto. E invero la volontà del lavoratore subordinato è fortemente condizionata dalla difficoltà, per lo più grave, in cui egli versa, di impiegare diversamente e utilmente le proprie energie psicofisiche, che è poi anche la ragione per cui egli non è in grado di assumere un ruolo effettivo ed efficace di controparte contrattuale.

Considerazioni analoghe possono valere anche nel caso in cui il lavoratore si ponga al servizio (magari esclusivo) di un altro soggetto, ma in regime di autonomia?

No, se si considera che qui il prestatore conserva la possibilità di gestire la propria attività di lavoro, essendo tenuto soltanto a fornire un opus al committente. Il quale, come creditore qualificato dei risultato dell’attività lavorativa, può esercitare poteri di indirizzo e controllo sulla sua realizzazione, non assimilabili però ai poteri direttivo, gerarchico e disciplinare del datore di lavoro.

Però anche il lavoratore autonomo può essere debitore di una mera attività (operae) e può trovarsi, al momento della costituzione del rapporto, in una situazione di necessità, cioè di non libertà effettiva. Penso al caso comunissimo dell’agente di commercio: anche questi può essere di fatto costretto, per poter lavorare, a porsi al servizio di un determinato committente. E, viceversa, accade che il lavoratore possa effettivamente scegliere l’azienda da cui farsi assumere come dipendente.

La differenza sostanziale rimane quella che passa tra l’autodeterminazione del lavoratore autonomo e I’assoggettamento del lavoratore subordinato riguardo all’espletamento di attività, che per il resto possono svolgersi in condizioni abbastanza simili e avere contenuti analoghi. E qui non va omesso di considerare che il rapporto di lavoro autonomo può assumere la fisionomia del lavoro parasubordinato, in cui il prestatore si trova anche in condizione di relativa inferiorità e ha bisogno di una adeguata protezione, che gli viene concessa dai legislatore e dalla autonomia collettiva, con la estensione, che deve essere però disposta espressamente, di diritti elo misure protettive, derivati dalla disciplina del rapporto di lavoro subordinato.

Qualcuno obietta che, cosi ragionando, il rapporto di lavoro, ponendosi al di fuori del contratto, dovrebbe collocarsi nell’area dell’« istituzione

Affermare che l’essenza e la funzione caratteristica del rapporto di lavoro subordinato, e le ragioni della sua disciplina, non possono essere correttamente apprezzate sotto la lente deformante del contratto, non significa certo ammettere che il rapporto di lavoro nasce e si svolge all’interno di un’istituzione. L’alternativa è viziata da un errore o equivoco di fondo, ove si consideri che, al di là del contratto e tanto più dell’istituzione, il rapporto di lavoro si caratterizza per lo stato di assoggettamento, e conseguente inferiorità, del prestatore, nei confronti del datore, a cui il diritto del lavoro reagisce, realizzando un complesso e articolato sistema di norme e di istituti a protezione delle categorie deboli. Si tratta di norme e di istituti che, per la ratio ispiratrice e i contenuti, non si lasciano inquadrare nello schema del contratto, né ricondurre alla sua disciplina; essi anzi presuppongono la inadeguatezza dell’uno e la insufficienza dell’altra. Da tutto questo è lontana mille miglia la concezione istituzionistica, che si riferisce invece all’inserimento dei lavoratori nell’ordinamento dell’impresa, così evidenziandone ed accentuandone, semmai, la condizione di assoggettamento.

La Engliederung dei tedeschi.

Per l’appunto. Una concezione che, se in astratto può conservare un qualche valore, è del tutto al di fuori del mio pensiero, come ho cercato di esprimerlo anche in questo incontro; e, quel che più conta, rimane del tutto estranea alla nostra tradizione giuridica. A mio avviso, dunque, il rapporto di lavoro subordinato resta estraniato dall’area del contratto, non già perché nasce e si svolge all’interno dell’impresa-istituzione, ma perché consiste in un vincolo di dipendenza che espone le categorie lavoratrici, come esperienze antiche ma non tramontate ammoniscono, a un grave e intollerabile sfruttamento. La coscienza politica e sociale dei Paesi evoluti riconosce la necessità di soccorrere la forza lavoro, altrimenti destinata a diventare una condizione di debolezza, e reagisce realizzando, attraverso la legge e la contrattazione collettiva, una disciplina giusta e soddisfacente dei rapporti di lavoro. Qui prendono il sopravvento i valori e le ragioni della giustizia sociale, tanto più importanti in quanto le categorie lavoratrici costituiscono la parte di gran lunga prevalente della popolazione.

Quali sono le conseguenze di questa concezione, sul piano sistematico?

La conseguenza più rilevante, sotto il profilo sistematico normativo, è che la regolamentazione del rapporto di lavoro esce sostanzialmente dalla sfera di disponibilità dei suoi soggetti, per entrare, e restare stabilmente, nell’ambito di operatività delle fonti eteronome: la legge, come espressione della volontà generale del popolo, e la contrattazione collettiva, come strumento di rilevazione e regolamentazione di interessi unitari dei prestatori e datori di lavoro, delle categorie e delle aziende, che trascendono il livello individuale.

Rimane la possibilità di pattuizioni migliorative.

Certamente, ma si tratta di una sfera residuale di disponibilità nei riguardi di interessi che tornano a essere individuali, una volta che la legge e la contrattazione collettiva abbiano provveduto, con forza autoritativa, alla tutela degli interessi generali e collettivi dei lavoratori. E si noti ancora che i pilastri, sui quali si fonda la nascita e lo sviluppo del diritto del lavoro, sono costituiti dalla legge e dalla contrattazione collettiva, che lasciano uno spazio minimo, e non rilevante ai fini della qualificazione del fenomeno, alla libertà dei privati di integrare o migliorare le condizioni di trattamento dei lavoratori.

I “contrattualisti” obiettano che è di natura negoziale la scelta dell’assetto fondamentale degli interessi: la scelta, cioè, di assoggettare, o no, la prestazione all’obbligo di obbedienza, al potere direttivo del datore.

Questo è vero. Peraltro, come sopra osservavo, qui è in gioco la libertà personale del lavoratore, fortemente condizionata dal bisogno di prestare la sua opera alle altrui dipendenze, bisogno che si proietta, e si aggrava anzi, al di fuori deli’attualità del rapporto di lavoro, e per un altro verso si manifesta con particolare evidenza nei confronti dei lavoratori che versano in condizioni di particolare debolezza (per cui soccorrono gli istituti della parità di trattamento uomo-donna, delle assunzioni obbligatorie, ecc.). Ma la determinazione del lavoratore, incontrandosi con quella del datore, vale soltanto a costituire il rapporto di lavoro, che, una volta venuto in essere, esce dall’area della libertà personale dei soggetti per passare sotto il mantello protettivo del diritto del lavoro.

L’orientamento più recente della Cassazione sembra però attribuire un ruolo più esteso alla volontà negoziale delle parti individuali, facendo dipendere dal suo contenuto circa l’assetto del rapporto la qualificazione del rapporto stesso.

La Cassazione ha ritenuto che il Giudice, nel risolvere la questione se un rapporto di lavoro qualificato come autonomo abbia invece natura subordinata, non può prescindere dalla scelta che le parti hanno effettuato nella valutazione delle proprie convenienze, così determinando anche un reciproco affidamento sulla disciplina legislativa applicabile alla specie. Costituisce un dato di comune esperienza, del resto, che determinate esigenze di collaborazione – si pensi al personale docente di una scuola privata, ai venditori esterni, ecc. – possano essere soddisfatte sia nella forma della collaborazione autonoma sia in quella subordinata; ne conseguono situazioni di vantaggio e svantaggio che, una volta apprezzate al fine di porre in essere un rapporto di lavoro autonomo, non possono essere rinnegate quando, per lo più al termine dei rapporto, il collaboratore autonomo ha interesse a ottenere con effetto retroattivo l’attribuzione delle condizioni di trattamento spettanti al lavoratore subordinato, così da cumulare ingiustamente gli elementi favorevoli dei due tipi di rapporto. Ma la Cassazione insegna anche, e nessuno potrebbe contraddirla ragionevolmente, che rientra nel potere del Giudice accertare se il rapporto di lavoro si sia svolto invece sotto il vincolo della subordinazione...

... perché in tal caso ci si trova di fronte a una simulazione. Ma, secondo la Cassasione, è pur sempre in definitiva la volontà negoziale effettiva delle parti circa l’assetto del rapporto a costituire l’oggetto dell’accertamento giudiziale.

Non si tratta di scoprire la volontà negoziale che le parti hanno celato sotto una fallace apparenza, bensì di verificare le modalità di svolgimento del rapporto di lavoro. Ciò in base al principio dell’effettività, che presiede alla configurazione del rapporto di lavoro, in stretta correlazione al dato non contrattuale, per le considerazioni sopra svolte, costituito dal vincolo della subordinazione.

Qual è dunque, secondo il Suo pensiero, il procedimento corretto di qualificazione del rapporto di lavoro? A quali elementi deve fare riferimento l’interprete, e come?

L’elemento qualificante della figura è costituito dal vincolo della subordinazione nel lavoro. Esso consiste nell’assoggettamento del prestatore al datore per poter espletare la sua attività lavorativa o, per usare un’espressione forse più suggestiva, nell’alienazione ad altri della sua capacità lavorativa. Di questo vincolo, primigenio per così dire, costituisce il riflesso immediato e più appariscente I’assoggettamento del prestatore ai poteri direttivo, gerarchico e disciplinare del datore di lavoro. A cui si rifà soprattutto, ed opportunamente, la giurisprudenza, al fine di stabilire nei casi concreti, che si presentano in numero non irrilevante e danno tanto filo da torcere sulle linee di confine, se il rapporto controverso sia di natura autonoma o subordinata.

Poteri a cui il lavoratore si è assoggettato contrattualmente, all’atto della costituzione del rapporto?

Debbo insistere sul punto centrale, e non sembri un chiodo fisso. Il regolamento di interessi, che costituisce l’anima del contratto, non è dettato dagli stipulanti per la massima parte delle sue componenti essenziali, bensì da fonti eteronome. Si tratta peraltro di una regolamentazione estremamente articolata, capillare quasi, proprio per i molteplici conflitti di interessi che suscitano la costituzione e lo svolgimento dei rapporti di lavoro in stato di subordinazione all’interno delle categorie e delle aziende. E al rapporto di lavoro si riferiscono direttamente le norme di legge e le clausole di contratti collettivi che regolano la materia: una mole imponente di disposizioni non volute, e per lo più neppure conosciute dalle parti, al momento della costituzione del rapporto.

Si potrebbe obiettare che lo stesso accade nei c.d. “contratti di massa”, o nei contratti in cui il prezzo e molti altri aspetti sono disciplinati inderogabilmente dalla legge.

A dire il vero, anche in questi casi dell’autonomia privata rimane ben poco; e proprio i civilisti francesi, che avevano teorizzato al più alto livello l’idea del ruolo dominante della volontà contrattuale, hanno posto in evidenza il declino dell’autonomia contrattuale fin dai primi decenni di questo secolo. Ma qui la situazione si prospetta in termini del tutto diversi, tenuto conto del tipo di interessi in gioco. Ci troviamo di fronte a operazioni di serie o di massa, che richiedono una regolamentazione estremamente semplificata, riguardante le modalità di erogazione del bene o del servizio, la fissazione del prezzo e poco altro. Il rapporto di lavoro subordinato, in quanto implica l’assoggettamento alle dipendenze di altri, con le esigenze fondamentali di salvaguardare gli interessi del lavoratore ma anche di rendere possibile l’utilizzazione ottimale delle sue energie psico-fisiche da parte del datore di lavoro, specialmente se imprenditore, richiede, come anche sopra osservavo, una regolamentazione estremamente articolata e capillare, che può essere adottata a livello di legge o anche, ed è un’altra caratteristica della materia, di contrattazione collettiva, mentre l’autonomia individuale passa ad un ruolo marginale.

Quali conseguenze pratiche derivano da questa concezione?

Le conseguenze pratiche più significative si colgono, a mio avviso, quando ci si volge alla interpretazione e ricostruzione dei dati normativi, inerenti alla disciplina del lavoro subordinato. Qui si prospetta in tutta la sua evidenza il divario tra l’intervento della legge volto a riconoscere e sostenere, all’occorrenza, l’autonomia dei privati, come avviene con le norme generali sui contratti, e invece la tutela forte accordata ai lavoratori bisognosi di protezione, per la scarsa effettività della loro libertà contrattuale, prevista dalle norme di legge e dalle disposizioni del contratto collettivo in materia di lavoro subordinato. Le norme generali sui contratti si imperniano in primo luogo sulla rilevanza della volontà negoziale, a cui consegue l’invalidità del contratto nei casi in cui quella risulti carente o viziata: principalmente i casi di vizi del consenso (errore, violenza, dolo). Ma la rilevanza della volontà, e la sua disciplina, appaiono un fuor d’opera o quasi nei riguardi del c.d. contratto di lavoro subordinato, per la semplice, quanto irresistibile, ragione che qui alle parti non è consentito di provvedere alla autoregolamentazione dei propri interessi, riguardo alla quale soltanto importa stabilire se la volontà si sia manifestata in modo adeguato e si sia formata consapevolmente e liberamente.

Si registra però qualche caso di impugnazione per vizio della volontà delle dimissioni del lavoratore.

Si tratta dell’atto unilaterale con il quale il lavoratore manifesta la sua determinazione di porre fine al rapporto. E ho già osservato che nella disciplina del rapporto di lavoro permangono pur sempre elementi di negozialità, che nulla tolgono alla diversità di natura e alla relativa incommensurabilità del rapporto di lavoro subordinato con i contratti a prestazioni corrispettive. Il senso del mio discorso è che il rapporto di lavoro subordinato non si lascia configurare come un contratto, né soggiace alla disciplina generale dei contratti, almeno nelle linee essenziali, che sono quelle che contano, poi, per la corretta costruzione della figura e la puntuale applicazione delle norme regolatrici.

Proseguiamo nel confronto tra il rapporto di lavoro subordinato e lo schema del contratto a prestazioni corrispettive, al quale la dottrina dominante tuttora seguita a riferirsi.

Una prima considerazione appare determinante: nel contratto a prestazioni corrispettive vige il principio della equivalenza soggettiva, frutto anch’essa delle valutazioni e delle determinazioni degli stipulanti, entro i limiti stabiliti dalla legge; invece nel rapporto di lavoro subordinato vigono i principi, costituzionalmente garantiti, della proporzionalità del salario all’entità del lavoro in termini quantitativi e qualitativi e non già all’utilità che la controparte datoriale ritenga di trarne, e della sua sufficienza ancorata a un criterio estraneo, questa volta, alla prestazione lavorativa, quale appare l’esigenza di assicurare al lavoratore e alla famiglia una esistenza libera e dignitosa.

Qui si innesta la Sua tesi sulla inammissibilità del lavoro gratuito.

Sì; dalla tematica del lavoro gratuito – pure controversa in dottrina e in giurisprudenza – si trae una conferma dell’interesse dogmatico e pratico della concezione acontrattuale (la chiamo così per brevità anche se l’espressione può apparire un po’ infelice). Se la retribuzione del lavoratore costituisce una condizione essenziale del trattamento minimo inderogabile stabilito dalle fonti eteronome che regolano il rapporto di lavoro subordinato, come risulta anche dalla norma costituzionale, non può essere certo consentito all’autonomia individuale di stralciarla dal suo assetto. Ma è soprattutto sul versante del sinallagma genetico e funzionale che si misura la differenza tra la disciplina del contratto a prestazioni corrispettive e quella del rapporto di lavoro subordinato. Non trovano applicazione al rapporto di lavoro subordinato i rimedi, attinenti al sinallagma genetico, della rescissione per lesione enorme e per il caso di pericolo. Né, passando al sinallagma funzionale, il rimedio della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta. Si applicano in termini sostanzialmente diversi i rimedi della risoluzione per inadempimento, che nella disciplina del lavoro subordinato può rilevare nei confronti del lavoratore come un provvedimento disciplinare e nei confronti del datore di lavoro come una giusta causa di dimissioni; e della risoluzione per impossibilità sopravvenuta che nei riguardi del lavoratore subisce molteplici deviazioni per la traslazione del rischio sul datore di lavoro (nei casi di malattia, infortunio, ecc. a norma dell’art. 2110 c.c.) e nei riguardi del datore di lavoro assume il contenuto specifico del giustificato motivo oggettivo di licenziamento o configura una fattispecie del licenziamento collettivo, quando non interviene in caso di crisi aziendale o del mercato la cassa integrazione guadagni straordinaria. Per un altro verso l’uso di concetti o di tecniche sanzionatorie, proprie del diritto civile, provoca confusione di linguaggio o addirittura scompensi sostanziali quando se ne faccia applicazione alla disciplina del rapporto di lavoro subordinato.

Il legislatore stesso usa, in materia di lavoro, i termini di “nullità”, annullabilità”, “inefficacia”, con significati ed effetti di volta in volta diversi.

Intendiamoci: nelle mie diverse esperienze di giurista devo ammettere che anche alla dottrina civilistica questi concetti hanno dato del filo da torcere. E tuttavia quella dottrina è pervenuta a risultati abbastanza consolidati e confortanti riguardo alla distinzione tra i concetti di inesistenza, invalidità nelle sue diverse forme e inefficacia del negozio giuridico. Mentre, per fare qualche esempio significativo, riesce difficile inquadrare nella teoria generale della invalidità l’impugnabilità delle rinunzie e transazioni a norma dell’art. 2113 c.c., l’inefficacia del licenziamento per vizi formali a norma della l. n. 604/1966 e della l. n. 108/1990, o l’annullamento del licenziamento per carenza di giusta causa o di giustificato motivo. Problemi anche più gravi nei loro riflessi pratici si sollevano a proposito delle misure di repressione delle violazioni di norme di legge a tutela dei lavoratori, con particolare riguardo al risarcimento del danno.

Immagino che Lei si riferisca, in particolare, al risarcimento del danno conseguente al licenziamento.

Sì; penso alla lunga evoluzione giurisprudenziale che, con il superamento di tanti contrasti, ha indotto le Sezioni Unite della Corte Suprema a stabilire il principio, poi recepito dal legislatore del 1990, della spettanza al lavoratore illegittimamente licenziato delle retribuzioni maturate dal giorno del licenziamento fino alla reintegrazione nei posto di lavoro, salvo la prova a carico del datore di lavoro dell’aliunde perceptum e a carico del lavoratore di aver subito un maggior danno. In tal modo l’aggravio dell’indennizzo a carico del datore può risultare eccessivo e particolarmente ingiusto, anche per la pratica impossibilità in cui egli versa di dedurre in tempo e provare in modo adeguato, nel quadro instaurato con il ricorso ex art. 414 c.p.c., che il lavoratore, nel corso di un periodo che può essere di lunga durata (per l’intreccio ad esempio di un processo penale con la controversia di lavoro), abbia trovato un’altra occupazione remunerata o non ne abbia fatto ricerca con l’impiego della ordinaria diligenza. Senza dire del vantaggio che può rappresentare pur sempre, per il lavoratore, in termini di relazioni sociali e umane, la disponibilità di tempo libero, anche se non gradita o in misura sovrabbondante.

Poi c’è il risarcimento del danno conseguente a dequalificazione professionale.

Qui va affermandosi l’indirizzo giurisprudenziale secondo cui il danno si verifica in re ipsa, venendo identificato specificamente e/o globalmente nella stessa dequalificazione professionale, nel pregiudizio alla salute (la solita sindrome ansioso-depressiva o reattiva, di regola non verificabile oggettivamente), nella lesione dell’immagine e nella compromissione della vita di relazione. D’altra parte, non si può non concordare sulle aperture di alti consessi giudicanti, la Corte costituzionale e la Corte di cassazione, e di una autorevole dottrina verso la considerazione di danni che trascendono quelli meramente patrimoniali da un lato e si distinguono da quelli morali dall’altro: penso per tutti all’ormai famoso danno biologico. Se è consentita l’autocitazione, almeno in un’intervista, vorrei ricordare che in un’epoca ormai lontana ho pubblicato un saggio che ha incontrato notevole successo (è stato tradotto anche in lingua spagnola) sul danno morale, in cui evidenziavo la configurabilità di un danno personale e non meramente subiettivo (come quello morale) a fianco del danno patrimoniale.

Dunque è corretta la tesi del danno in re ipsa?

Non direi. Non si può essere d’accordo con chi ravvisa una sorta di automatismo tra la violazione del diritto del lavoratore a prestare la propria opera nelle mansioni di spettanza o in altre equivalenti e la produzione di danni di vario contenuto, alla professionalità, alla salute, all’immagine e alla vita di relazione, con la condanna del datore di lavoro al pagamento di somme di cospicuo ammontare. Così ragionando, si omette di considerare che il nostro ordinamento, se consente la considerazione dei diversi beni-interessi della persona ai fini del risarcimento del danno da determinarsi secondo una valutazione equitativa, non prevede un risarcimento punitivo, ove un danno effettivo non ricorra elo non sia verificato – gli exemplary damages degli ordinamenti di common law –, ma soltanto la riparazione dei danni morali, o pretium doloris, nei casi stabiliti dalla legge (ex art. 2059 c.c.), che si identificano sostanzialmente con le fattispecie criminose (reati).

Qui, dunque, è giusto fare applicazione del diritto comune delle obbligazioni.

Quanto meno, non mi sembra corretto applicare i criteri di valutazione equitativa proposti da alcuni giudici di merito: mi limito a ricordare quello macroscopicamente iniquo, a mio avviso, della corresponsione al dipendente privato del lavoro o spostato a mansioni dequalificanti, di una doppia retribuzione. Iniquo anche nei confronti degli altri lavoratori, che prestando la loro attività nelle mansioni di spettanza percepiscono il salario contrattuale, mentre quelli che lavorano di meno o per nulla, sia pure per un comportamento imputabile al datore, verrebbero a percepire, con l’aggiunta dell’indennizzo stabilito dal giudice, il doppio della retribuzione altrimenti spettante.

La Sua concezione del rapporto di lavoro appare ben distante da quella che ha ispirato la Responsabilità contrattuale del prestatore di lavoro di Federico MANCINI o Il contratto di lavoro nel diritto italiano di Luigi MENGONI.

Non tanto come potrebbe sembrare a prima vista. La diversità concerne i criteri, o forse meglio, le linee di tendenza, da tenere presenti ai fini della costruzione del sistema e dell’interpretazione delle norme regolatrici. A mio avviso, e debbo ripetermi, la nostra dottrina giuslavoristica ha conservato, principalmente in tema di rapporto di lavoro subordinato, una posizione di male inteso ossequio agli schemi concettuali e ai criteri esegetici validi nei confronti dei diritto civile e dei contratti, senza avvertire l’esigenza, che a me appare ineludibile, di formulare i concetti e ricercare il senso delle norme, tenendo conto della diversità, sul piano della realtà giuridica, del rapporto di lavoro subordinato e degli strumenti principali dell’attività sindacale: il contratto collettivo e lo sciopero. In quest’altra prospettiva il rapporto di lavoro subordinato non è un tipo di contratto, né è disciplinato come tale dal diritto. Si tratta invece di un rapporto nuovo e speciale che si qualifica avuto riguardo alla condizione di assoggettamento del prestatore al datore di lavoro. Questo rapporto è la fattispecie centrale intorno alla quale si innesta il complesso di norme preordinato alla tutela forte dei beni-interessi dei lavoratori. In una recente trattazione della materia ho cercato, e non so se vi sono riuscito, di costruire l’ordinamento giuridico del lavoro, riferendo al rapporto di lavoro, e per esso al lavoratore, le molteplici situazioni giuridiche soggettive in cui quella tutela si realizza: i diritti lavorativi (al posto di lavoro e alla esecuzione della prestazione lavorativa), i diritti retributivi, i diritti personali e i diritti sindacali.

La negazione della natura negoziale del rapporto di lavoro subordinato non potrebbe offrire fondamento al principio di parità di trattamento in azienda?

Ritengo di poterlo escludere. Del tema della parità di trattamento mi sono occupato commentando la sentenza costituzionale n. 103/1989 e me ne sto occupando ancora in questi giorni in un commento pienamente adesivo alle sentenze delle Sezioni Unite n. 6030 e seguenti del 1993. Si deve convenire che le condizioni minime di trattamento stabilite da fonti eteronome nei riguardi dei lavoratori della categoria o della azienda sono uguali per tutti. Ma al di là rimane uno spazio residuale in cui l’autonomia individuale e collettiva possono accordare trattamenti differenziati ai lavoratori in base a valutazioni e determinazioni che, costituendo il frutto di una discrezionalità legittima, quanto ragionevole, si sottraggono al potere di controllo e di invalidazione dei giudici.

Si può ravvisare un nesso stretto fra la Sua concezione acontrattuale del rapporto di lavoro e la teoria sull’efficacia del contratto collettivo da Lei proposta con il saggio del 1971 sull’autonomia collettiva?

Direi di sì e sotto un duplice profilo. Da un lato anche il contratto collettivo costituisce un fenomeno nuovo e originale dell’esperienza sindacale, non diversamente dallo sciopero, che lo è in modo anche più appariscente. Cosicché non è dato di comprendere la sua specifica realtà, adottando gli schemi civilistici del mandato e della rappresentanza di volontà. Da un altro lato la ragione e la funzione originali del contratto collettivo consistono proprio nel poter operare come una fonte eteronoma, che viene a occupare il posto lasciato sguarnito dalla autonomia individuale. Insomma la contrattazione collettiva assolve nel diritto del lavoro quella funzione di autoregolamentazione dei rapporti tra i privati, alla quale risulta dei tutto inadeguata l’autonomia individuale.

La sua costruzione del1’autonomia collettiva che peraltro oggi sembra condivisa dalla dottrina prevalente si pone in netto contrasto non soltanto con quella di Francesco SANTORO PASSARELLI, ma anche con quella, nata per così dire nell’ambito della stessa scuola, proposta da Mattia PERSIANI.
A mio avviso la supremazia della contrattazione collettiva su quella individuale si spiega in base alla considerazione che a suo mezzo le associazioni e/o organizzazioni, titolari degli interessi collettivi, esercitano, mediante la statuizione di condizioni minime di trattamento, un potere dispositivo, che non può spettare ai singoli, titolari soltanto di interessi individuali. Si applica allora il principio fondamentale dell’autonomia privata in base al quale un soggetto può disporre soltanto riguardo ai propri interessi: altrimenti gli atti dispositivi che pone in essere rimangono irrilevanti e/o non possono derogare alle regole fissate dalle parti sociali, operanti in una dimensione diversa e trascendente.

Ancora in tema di autonomia collettiva, qual è la Sua opinione sulle diverse proposte in discussione per l’attuazione o la modificazione degli ultimi tre commi dell’art. 39 Cost.?

Ritengo estremamente difficile attribuire al contratto collettivo efficacia erga omnes, seguendo la via tracciata dalla norma costituzionale. Le ragioni per cui il disposto dell’art. 39, commi dal secondo al quarto, non ha avuto attuazione, sono da ricercare non tanto nella opposizione delle forze politiche e sociali maggiormente legate al movimento sindacale, bensì nella difficoltà di conciliare due principi radicalmente contrastanti come quelli di libertà e di autorità. Ma vorrei aggiungere che il problema ha perso gran parte della sua drammaticità, almeno per quel che riguarda l’esigenza di vincolare il datore di lavoro all’osservanza delle condizioni pattuite mediante il contratto collettivo. Non si riflette abbastanza, mi sembra, sul fatto che in un sistema come il nostro, che pure è retto dal principio di libertà sindacale, non si è affatto verificato il fenomeno, che si poteva paventare, della pluralità dei contratti collettivi, concorrenti alla regolamentazione dei rapporti di lavoro nella stessa categoria o azienda. In realtà nella nostra esperienza sindacale il contratto collettivo è rimasto uno solo nelle diverse categorie e aziende, così imponendosi man mano, se non altro sul piano dell’effettività, a tutti i datori di lavoro, interessati anch’essi, ben presto, alla sua applicazione per conseguire condizioni di pace sociale in azienda e poter resistere più validamente alle pressioni maggiormente preoccupanti, rivolte alla stipula di condizioni di trattamento più favorevoli di quelle stabilite dal contratto di categoria. A sostegno della contrattazione collettiva di categoria si è mosso anche il legislatore con una serie di interventi; in un caso, la c.d. legge erga omnes, di portata generale e in altri di portata speciale, come la legge sull’apprendistato ecc. E si sono mosse anche la giurisprudenza e la dottrina, riconoscendo fin dal 1950, con la forza precettiva dell’art. 36, primo comma, il diritto del lavoratore al giusto salario, determinato in relazione alle paghe sindacali. Cosicché il problema rimane confinato principalmente nell’area dei lavoro nero.

Ci sono, però, anche i contratti collettivi che portano ai lavoratori dei sacrifici e non solo dei vantaggi.

Sì, il problema si ripropone di recente con maggiore drammaticità per l’atteggiamento di rifiuto di questi contratti collettivi da parte di gruppi dissidenti di lavoratori che usufruiscono, per la natura delle mansioni espletate, di una posizione contrattuale di particolare forza, come può avvenire soprattutto nell’area dei pubblici servizi. Proprio a questo proposito sono in corso da tempo studi e progetti, volti a definire in forma autoritativa la c.d. rappresentatività sindacale. Ma rimango perplesso circa la opportunità di un intervento di forza sulle relazioni tra sindacati e lavoratori che, a mio avviso, devono trovare spontaneamente gli equilibri interni auspicabili: equilibri che in passato sono stati raggiunti – come l’esperienza ammonisce – non senza costi beninteso, ma sempre in tempi e in modi tali da evitare pericolose rotture del sistema. Peraltro la possibilità che la contrattazione collettiva a livello aziendale stabilisca trattamenti differenziati anche in pejus, destinati a prevalere su quelli risultanti dal contratto collettivo di categoria, deriva, come afferma un indirizzo ormai consolidato del Supremo Collegio, dalla stessa libertà sindacale. Alla cui stregua possono stipularsi accordi e/o contratti collettivi, tutti di uguale forza in quanto legati alla stessa matrice (l’autonomia sindacale per l’appunto) con la prevalenza della regolamentazione successiva e speciale.

Rimane il problema della sorte degli ultimi tre commi dell’art. 39. Lei sarebbe favorevole a una pura e semplice abrogazione?

Direi di sì. La sopravvivenza formale di queste disposizioni della Carta costituzionale, rimaste inattuate per tanti decenni, ha qualcosa di patetico. In realtà può valere soltanto come motivo di studio e di riflessione sulla via che non si deve battere per risolvere il problema della efficacia normativa del contratto collettivo, o della capacità rappresentativa del sindacato. Ammesso e non concesso – e rimando a quel che sopra osservavo – che vi sia un’altra via da battere, esclusa quella, poco soddisfacente forse da un punto di vista politico, ma di applicazione pratica abbastanza agevole, di un provvedimento normativo, che recepisca te1 quel il contratto collettivo (è il caso della legge erga omnes), qualsiasi altra soluzione si esporrebbe con ogni probabilità a molteplici contestazioni da destra o da sinistra o da entrambe le parti contemporaneamente.

A suo avviso esistono ancora una sinistra e una destra giuslavoristiche?

Vorrei chiarire che ho parlato di destra e sinistra in modo dei tutto casuale, al solo fine di indicare posizioni contrapposte di politica del diritto su una problematica che si presta ad essere affrontata e risolta in termini del tutto diversi. Passando alla risposta, non credo che si possa attribuire attualmente un significato ben preciso, né sul piano giuridico, né forse neppure su quello politico, a espressioni come la destra o la sinistra. Il discorso è diverso per il passato; soprattutto nei decenni ’60 e ’70, la sinistra giuslavoristica era rappresentata validamente da quei cultori e operatori della materia che propugnavano la tutela a oltranza – fino ai limiti del c.d. diritto alternativo – degli interessi dei lavoratori, con l’affermazione di contropoteri sindacali all’interno delle categorie e delle aziende, destinati a prendere il sopravvento sui tradizionali poteri dei datori di lavoro. C’è da dire anche, e riprendo un precedente motivo della nostra discussione, che, prima della contestazione di base della fine degli anni ’60, si era creato intorno ai diritti dei lavoratori e dei sindacati un clima stagnante di scarsa considerazione, se non di repressione, che richiedeva probabilmente un’azione di rottura. In questo contesto si collocava anche, e trovava la sua ragion d’essere, l’impegno militante dei giuristi che gravitavano intorno alla Rivista giuridica del lavoro, di conferire maggior dignità ed effettività alla nostra materia.

Per molti di questi giuristi la Sua costruzione acontrattuale del rapporto di lavoro subordinato ha costituito e costituisce tuttora un punto di riferimento di primaria importanza.

Può essere vero. Ma io personalmente non ho mai fatto parte di una sinistra giuslavoristica. In realtà non ho coltivato un impegno politico, dividendo sempre il mio tempo – evidentemente per una scelta vocazionale – tra l’attività scientifica e quella professionale. In questo spirito ho fatto parte molti anni addietro anche della direzione della Rivista Giuridica, nella quale si trovavano giuristi come Salvatore PUGLIATTI e Cesare GRASSETTI, per fare dei nomi particolarmente significativi. Peraltro verso la metà degli anni ’70 mi fu chiesto, nella forma più cortese beninteso, di uscire dalla direzione in quanto si riteneva che fossi troppo tiepido verso la sinistra sindacale, alla quale in quel tempo la Rivista era strettamente legata. Ma, a mio avviso, le tensioni della lotta politica dovrebbero restare al di fuori, nei limiti del possibile almeno (tutti gli uomini e in particolare gli uomini di pensiero, finiscono con l’avere una inclinazione politica più o meno consapevole e maturata), dalla costruzione e dall’interpretazione delle norme giuridiche. Questo deve valere soprattutto per i giudici, anche se, come è noto, le cose sono andate talora diversamente: mi riferisco ai primi anni ’70, quando nella giurisprudenza del lavoro imperversava la corrente dei pretori di assalto.

Ora il clima è un po’ diverso.

Nella mia esperienza professionale mi sembra di poterlo confermare. Rasserenatosi il clima dottrinale e giudiziario, con l’accresciuta tutela dei diritti dei lavoratori e l’avanzata affermazione dei valori del diritto del lavoro e della sua applicazione, si torna a ragionare obiettivamente nelle aule dei giudici del lavoro – mi riferisco alla gran maggioranza dei casi – nella divisione tra la ragione e il torto dei litiganti. Non è detto infatti che il lavoratore debba avere tendenzialmente ragione nel processo in cui ogni litigante porta con sé rivendicazioni e aspirazioni, che, a prescindere dalla sua collocazione nel rapporto sottostante (il lavoratore come parte debole), possono essere o no fondate. A mio avviso la critica principale che può muoversi a una certa sinistra giuslavoristica è di aver propugnato un’interpretazione di parte delle norme disciplinatrici del rapporto di lavoro subordinato, così da estendere gli elementi di favore e/o tutela dei lavoratori al di là della corretta ricostruzione della portata delle disposizioni in essa contenute. Non si è considerato a sufficienza che, se la legge o la contrattazione collettiva concedono ai lavoratori una tutela solo parziale dei beni-interessi regolati, rispetto all’optimum logico e normativo di una tutela integrale, ciò può avvenire non già per una sorta di insufficienza o incapacità di esprimersi della volontà normativa, bensì per la scelta politica di mediare tra gli opposti interessi.

Dunque, se ben comprendo, il favor per il lavoratore non deve costituire criterio di interpretazione.

In realtà questa tendenza dell’interprete a potenziare il favor per i lavoratori, già recepito dalla legge e dalla contrattazione collettiva, ha lasciato la sua impronta, non saprei dire fino a qual segno positiva, nell’interpretazione, poi consolidatasi, di non poche norme di diritto del lavoro. Ma per il resto la storia si è incaricata di fare giustizia della “sinistra” giuslavoristica, come di quella politica, fortemente scosse, se non travolte, dalle vicende più recenti, cosicché ai loro sostenitori è rimasto in mano ben poco: forse soltanto i cocci di un sogno infranto.

Questi giuristi si richiamavano direttamente alla Costituzione.

La Costituzione è la legge fondamentale dello Stato e sul suo contenuto si misura la validità delle norme di legge ordinarie, con l’avallo garantistico del giudice delle leggi. Ma la Costituzione italiana, specificamente in materia di lavoro subordinato, non contiene soltanto disposizioni dotate di immediata forza precettiva (gli artt. 36, 37, 39 primo comma e 40). Non poche disposizioni, con particolare evidenza quelle contenute nei principi fondamentali, si volgono a prefigurare un modello ideale di società, indicando valori e fornendo direttive di disciplina, che richiedono l’attività di mediazione e/o di integrazione, riservata dal nostro ordinamento al legislatore ordinario. Al quale non si possono sostituire, sia pure con le migliori intenzioni, interpreti, che si tratti di giudici o di studiosi, attribuendo a valori e direttive un contenuto precettivo che, in mancanza di solidi referenti nella legislazione ordinaria, finisce per essere il frutto di scelte e valutazioni personali con la messa a repentaglio della certezza ed eguaglianza del diritto.

Ne deduco che lei è contrario alle tesi esposte da GIUGNI e MANCINI nelle loro interviste sul carattere inevitabilmente politico dell’opera del giurista e sull’esaurimento del ruolo della dogmatica nella nostra cultura giuridica e in quella giuslavoristica in particolare.

Vorrei sgombrare il campo da un possibile equivoco. Ritengo che anche GIUGNI e MANCINI concordino sul punto che l’indagine del giurista debba sottrarsi nei limiti del possibile all’influenza dell’impegno politico. Gli interpreti e gli studiosi del diritto sono legati nel nostro ordinamento alla osservanza delle leggi e devono astenersi di conseguenza, per quanto ad essi riesca, dal considerarne il contenuto sotto la lente deformante di una ideologia politica. Un discorso più articolato e complesso, sia pure nei brevi termini concessi dall’intervista, deve farsi a proposito della ritenuta crisi della dogmatica. A mio avviso il tema è strettamente legato a quello del metodo da seguire nella scienza del diritto, che, anche per il partito della crisi, se non vado errato, deve proseguire il suo cammino. Orbene, se dogmatica sta a significare la costruzione del sistema mediante l’impiego di concetti, riterrei inaccettabile, ed anzi impossibile, un esaurimento del suo ruolo. Occorre tener presente che nell’ordinamento giuridico di un Paese di civil law fondato sulla attività legislativa, piuttosto che sulla forza dei cases, sono le stesse norme di diritto a indicare il cammino, assumendo la forma di comandi o giudizi ipotetici, in cui la premessa principale, quanto meno, può trovare una congrua formulazione solo attraverso il meccanismo concettuale. La questione della sopravvivenza della dogmatica si risolve allora in quella della corretta costruzione dei concetti normativi, di cui si compone il sistema. Quindi ci si deve sottrarre alla prospettiva, ma anche, direi, alla tentazione di procedere all’interpretazione e costruzione del materiale normativo seguendo la via della derivazione da concetti astratti, logicamente ineccepibili, ma privi forse di adeguata rispondenza nella realtà normativa. Adottando tale metodo, si corre il rischio inaccettabile di sostituire alle ragioni del legislatore quelle che appartengono invece alla logica diversa dell’interprete o del giurista.

L’applicazione eccessiva del metodo concettualistico si scontra oggi con la rapidità dell’evoluzione della società civile e dei suoi valori dominanti.

Nelle condizioni socio-politiche e culturali del secolo scorso poteva apparire che il pensiero umano, e in specie quello giuridico, fosse in grado di dominare con le sue categorie una realtà pensata come esterna e immutabile. Ma il sistema dei dogmi si è infranto da tempo di fronte alle convulse esperienze dell’epoca attuale: una stagione, chiamiamola ancora così, nella quale le basi stesse dei concetti, che potevano apparire validi per l’eternità, vacillano e crollano con inusitata frequenza, così da richiederne la ricorrente verifica alla luce dei dati normativi e dei fatti. Queste considerazioni assumono un particolare rilievo riguardo al diritto del lavoro, che per la sua stretta connessione con le condizioni socio-economiche di vita e il suo intreccio altresì con un ordinamento diverso e autonomo, come quello sindacale, deve fare di continuo i conti con le vicende della realtà sottostante.

Donde anche, nel nostro campo, una conferma della fecondità dello studio del cosiddetto ordinamento intersindacale.

Certamente, e per quel che ho detto finora. L’ordinamento sindacale possiede una sua realtà, anche giuridica, autonoma e distinta da quella statuale. Che può assumerlo tuttavia ad oggetto della sua normativa nel duplice proposito di riconoscerne l’esistenza e operatività, e di garantirne lo sviluppo, attribuendo diritti e/o privilegi ai soggetti sindacali per il ruolo che assolvono e l’attività che sono chiamati a svolgere. Si intende allora che lo studioso della fenomenologia sindacale non possa sottrarsi all’onere di una conoscenza sufficientemente approfondita della realtà fattuale, in cui consiste il suo ordinamento, senza esporsi al rischio di correre dietro a mere astrazioni. Questa è probabilmente la ragione per cui la dottrina giuslavoristica italiana si è impegnata maggiormente negli ultimi decenni sul versante dell’ordinamento sindacale, trascurando, o ritardando forse, l’affrancamento del rapporto di lavoro subordinato dalle strettoie del diritto civile.

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