Lei è una celebrità in ambito giuslavoristico, eppure molti, soprattutto i giovani, non sanno nulla delle sue origini familiari, della sua infanzia e prima formazione tra gli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso, che pure immagino la segnarono, in quanto a loro volta drammaticamente segnati dal fascismo e dal conflitto mondiale. La faccio breve, chi era il giovane Mattia Persiani?
Devo subito mettere le mani avanti: se mai sono una celebrità è solo per l’età e perché sono tra i pochi sopravvissuti della generazione ricordata da molti per avere rifondato il diritto del lavoro.
Sulle mie origini familiari posso dire che vengo da una famiglia del cosiddetto generone romano e ho avuto un padre generoso che, equiparando lo studio al lavoro, mi ha permesso di formarmi per molti anni. Soprattutto, prima della laurea, mi ha consentito lunghi soggiorni a Londra, nel 1953 e nel 1954, dove ho frequentato la London School Economics e raccolto materiale per la tesi che era di diritto del lavoro comparato utilizzando le indicazioni che mi vennero fornite dal prof. Otto Kahn-Freud al quale mi presentò l’Istituto italiano di cultura di Londra.
… e che impressione le fece?
Allora il prof. Otto Kahn-Freud era ancora sconosciuto in Italia e, a dir la verità, confrontandolo con i professori de La Sapienza che già avevo conosciuto, mi fece una scarsa impressione.
Tornando alla domanda, sempre grazie a mio padre, dopo la laurea, ho potuto svolgere alcuni soggiorni a Stoccarda durante i quali, però, studiai poco e feci, invece, belle gite nella Foresta Nera. In compenso, tentai di consolidare la rudimentale conoscenza che avevo della lingua tedesca.
Sulla mia infanzia e sulla mia formazione posso anche dire che, essendo nato nel gennaio del 1932, negli anni ’30 e ’40 del secolo scorso ho fatto le elementari e le medie al Collegio San Giuseppe – Istituto De Merode dei Fratelli delle Scuole Cristiane che sta a Piazza di Spagna e dove, nel 1950, ho conseguito la maturità classica. Può sembrare un presagio, ma la commissione di maturità era presieduta dal prof. Renato Balzarini che allora era tornato da pochi anni ad insegnare diritto del lavoro a Trieste.
Per quanto riguarda il fascismo, ho soltanto ricordi frammentari perché, quando è caduto nel 1943, avevo solo undici anni. Ricordo, però la sera in cui i miei genitori mi portarono a vedere l’illuminazione predisposta per la visita di Hitler a Roma del 1938. La divisa di Balilla che indossavo per il sabato fascista - conservo ancora la tessera di iscrizione - e il saluto romano che praticavamo a scuola.
… della guerra che ricordi ha?
Anche per la guerra i ricordi non possono che essere frammentari e sfumati.
Oltretutto la guerra influì poco sulla vita della mia famiglia perché mio padre non era richiamato a ragione dell’età e, sebbene avessi due cugini più grandi di me al fronte, come si usava allora, chi aveva dodici o tredici anni non veniva coinvolto nelle preoccupazioni familiari. Ricordo, però, che quando il 10 giugno 1940 sentimmo alla radio Mussolini che annunciava l’entrata in guerra dell’Italia, pianse, non solo mia madre, ma anche mio padre.
Ricordo, poi, che quando gli americani bombardavano Roma chi, come noi, abitava a Prati, continuava la vita normale considerandosi al sicuro per la vicinanza alla Città del Vaticano.
Ricordo, infine, la silenziosa fuga dei tedeschi che passavano sotto la chioma degli alberi di Via Crescenzio, dove abitavamo, per sfuggire ad eventuali mitragliamenti aerei e, poi, un silenzio assordante interrotto, la notte del 4 giugno 1944, da un vocio sempre più intenso provocato dall’ingresso degli americani a Roma che ci svegliò.
Poi arrivano gli anni della formazione universitaria, perché scelse la Facoltà di giurisprudenza e che impressione le fece il prestigioso corpo insegnate de La Sapienza romana di allora, che noi che apparteniamo tutti a tutt’altra generazione possiamo solo immaginare come una schiera di “mostri sacri” alle prese con gli ingombranti lasciti del ventennio corporativo.
Dopo la maturità classica iniziai a collaborare saltuariamente con mio padre e con i suoi fratelli nelle attività commerciali che gestivano in comune e che, allora, erano floride. Mi iscrissi, dunque, alla Facoltà di giurisprudenza perché ritenevo che una infarinatura giuridica mi avrebbe potuto essere di aiuto per l’attività che, allora, ritenevo sarebbe stata la mia.
Senonché, dopo che, nel 1955, mi ero laureato iniziò, per tante ragioni, la crisi delle attività commerciali nelle quali cominciavo ad impegnarmi.
Ed è così che, terminata nell’autunno del 1956 una lunga permanenza a Nancy durante la quale avevo fatto un’esperienza universitaria che aumentò la mia passione per gli studi, ritenni opportuno tentare di guadagnarmi una posizione personale. Mi iscrissi, così, alla Scuola di perfezionamento in diritto del lavoro de La Sapienza e, al tempo stesso, cominciai a prepararmi per il concorso in magistratura.
L’esperienza francese e quella della Scuola di perfezionamento mi rimisero in contratto, con maggiore intensità, con il mondo universitario. Contatto che consentì di avvicinarmi a quelli che chiami “mostri sacri”. E tali erano. Basti pensare che la Facoltà giuridica romana aveva, allora, soltanto tredici professori di ruolo tra i quali: Gaspare Ambrosini, Pietro De Francisci, Gaetano Arangio Ruiz, Tullio Ascarelli, Alberto Asquini, Emilio Betti, Carlo Arturo Jemolo, Francesco Calasso, Francesco Carnelutti, Francesco Santoro Passarelli, Filippo Vassalli.
Di loro mi interessava la razionalità della visione che davano dell’ordinamento giuridico come sistema organico, l’abilità nell’argomentare le interpretazioni della legge e, almeno in alcuni casi - Tullio Ascarelli ed Emilio Betti - anche la sensibilità alla dimensione sociale.
Si aggiunga il fascino che derivava dalla riconosciuta autorevolezza e, in qualche caso e per qualche verso, anche dagli atteggiamenti aristocratici.
Veniamo al Maestro, Francesco Santoro Passarelli, con cui ha collaborato fino al 1977 anno di uscita dai ruoli. Come vi conosceste? Se non erro proprio negli anni delle sue esperienze di comparatista a Nancy cui faceva prima cenno…
Avevo seguito le sue lezioni di diritto del lavoro - ai miei tempi l’insegnamento del diritto civile era ancora affidato al prof. Emilio Betti - ma ho conosciuto da vicino il prof. Francesco Santoro Passarelli soltanto il giorno in cui, nel luglio del 1955, mi sono laureato in diritto del lavoro discutendo con lui una tesi sul licenziamento nel diritto italiano e in quello inglese. La tesi era stata seguita da Giuseppe Suppiej, all’epoca aiuto del prof. Francesco Santoro Passarelli, che mi insegnò tante cose come ho raccontato, in occasione del convegno di Padova che lo commemorava, con una relazione pubblicata nel 2016 su Argomenti di diritto del lavoro.
Dopo essermi laureato, nell’autunno del 1955, Giuseppe Suppiej mi avvertì che aveva suggerito al prof. Francesco Santoro Passarelli di proporre la mia candidatura all’École d’études supérieures europeennes dell’Università di Nancy.
Fui ammesso alla Scuola e, dal gennaio al luglio 1956, frequentai assiduamente nell’Università di Nancy corsi che affrontavano, nella allora recentissima prospettiva eurocomunitaria, non solo temi giuridici, ma anche storici, economici e diplomatici.
Fatto è che, agli esami orali e nonostante il mio francese romanesco, riuscii primo di trentatré studenti di varie nazionalità. Di conseguenza, il direttore dell’École, il prof. Yves Seguillon, scrisse al prof. Francesco Santoro Passarelli una lettera - che ho recuperato in un trasloco dell’Istituto di diritto privato - complimentandosi con lui per aver segnalato un allievo così bravo da riuscire il primo.
Devo ritenere che questa è stata la ragione per cui, dopo il mio rientro a Roma, sempre Giuseppe Suppiej mi telefonò per avvertirmi che aveva suggerito al prof. Francesco Santoro Passarelli la mia nomina ad assistente volontario e per chiedermi se avrei accettato.
Ed è da lì che è cominciato tutto.
…e per altro verso è sfumato un possibile cursus honorum in magistratura …
Devo, però, dire che la propensione alla magistratura che in quell’occasione venne abbandonata, si è realizzata in seguito. Ed infatti, nel 1991, essendo cavaliere di grazia magistrale del Sovrano Militare Ordine di Malta, fui chiamato a far parte del Tribunale Magistrale Superiore di Appello. Poco dopo, fui chiamato a far parte del Collegio di conciliazione e arbitrato organo dell’Ufficio del lavoro della Sede Apostolica che era stato da poco istituito da Giovanni Paolo II e che, nonostante il nome, funziona come tribunale del lavoro. Di quel Collegio fui, poi e a lungo, presidente essendo succeduto a Gaetano Afeltra, già presidente della Sezione lavoro della Suprema Corte. Da questa esperienza, nasce il libro Il lavoro sub umbra Petri. Poi, quando fui giubilato per avere raggiunto, com’è in uso nella curia romana, i settantaquattro anni, mi venne data una onorificenza che dà diritto al titolo di eccellenza e che, come mi dissero, attribuisce il privilegio di poter entrare a cavallo nella Basilica di san Pietro in Vaticano.
… tornando a Francesco Santoro Passarelli come è cambiato nel tempo il suo rapporto con il Maestro sul versante umano oltre che scientifico?
Per quanto riguarda i rapporti con il prof. Francesco Santoro Passarelli il versante scientifico deve essere tenuto distinto da quello umano.
Come assistente, ho frequentano le lezioni del prof. Santoro Passarelli, sia quelle di diritto del lavoro che quelle di diritto civile, dal 1957 al 1969 e, cioè, fino a quando, dopo aver vinto il concorso a cattedra nel 1967, decisi, appunto nel 1969, di trasferirmi a Sassari dove insegnavo.
La frequenza a quelle lezioni, caratterizzate da un’eloquenza pacata ed efficacissima, è stata fondamentale per la mia formazione.
Ed infatti, quelle lezioni mi hanno insegnato a ragionare partendo dalla legge - si faceva lezione con il codice in mano - e, al tempo stesso, mi hanno consentito di apprendere le tecniche dell’interpretazione utilizzando il metodo dei concetti e non, come a volte si dice, dei dogmi.
Devo anche dire, però, che in quegli anni molto importante per la mia formazione fu anche l’assidua frequentazione del prof. Emilio Betti, che già avevo avuto come professore di diritto civile e che, allora, dirigeva l’Istituto di teoria dell’interpretazione con il quale collaboravo.
Sul versante umano i rapporti con il prof. Francesco Santoro Passarelli sono sempre stati molto formali, forse a ragione del suo e del mio carattere. Se mai, per spiegare meglio cosa intendo, posso riferire che il prof. Walter Bigiavi, che aveva scritto di lui che “a quelle altezze non si respira”, quando gli fui presentato a Bologna mi portò in un bar e, mentre aspettavamo la consumazione, mi chiese con l’ironia che lo caratterizzava “ma il tuo Maestro ti ha mai offerto un caffè?”.
Cosa era la cd. scuola romana di quegli anni vista e vissuta dal di dentro. Era più un luogo di amicizia o di rivalità?
La Scuola romana, almeno se con questo termine si intende la scuola degli allievi del prof. Francesco Santoro Passarelli, era, almeno nel periodo che va dal 1957 al 1969, un luogo di amicizia e di elaborazione culturale anche perché inserita in un complesso in cui trovavano espressione interessi e competenze diverse.
Ricordo ancora che ebbi un continuo scambio culturale non solo con gli altri assistenti in utroque del prof. Francesco Santoro Passarelli - penso a Giuseppe Benedetti, Nino Cataudella, Nino Freni, Angelo Lener, Nicola Lipari, Giuseppe Suppiej - ma anche con gli assistenti di altre cattedre privatistiche come Giovanni Ferri, Agostino Gambino, Duccio Libonati, David Messinetti, Stefano Rodotà - e di altre materie come Vittorio Bachelet, Giuliano Crifò e Elio Fazzalari.
Ripresi, poi, ad avere rapporti con molti di loro quando, nel 1978, venni chiamato ad insegnare nella Facoltà giuridica romana della quale molti di loro già facevano parte.
Ricordo, soprattutto, che Giuliano Crifò, verso la fine degli anni ’90, mi fece avere il dattiloscritto, con correzioni autografe a penna, del testo in tedesco delle lezioni sul corporativismo che il prof. Emilio Betti aveva tenuto, verso il 1935, in Germania.
Feci tradurre quel testo sperando di poterlo pubblicare, ma, letta la traduzione, rimasi deluso perché mi sembrò molto piatto. Non mancava, però, un guizzo in quanto, rivolgendosi ai tedeschi, il prof. Emilio Betti diceva che la loro era la “civiltà del fumaiolo”. E penso si riferisse al mitico concetto di Betrieb, mentre quella fascista era la “civiltà della solidarietà corporativa”.
Non ricordo se a quel tempo ci fossero rivalità tra i giovani giuristi romani. Se mai, facevamo tutti la corsa a pubblicare una monografia prima che scadessero i cinque anni dalla laurea per poter aspirare alla libera docenza e, quindi, c’era, piuttosto, una certa invidia, mista ad ammirazione, per chi riusciva a conseguire quel traguardo.
Il quadro dei giuslavoristi romani può essere completato ricordando che, in un modo o nell’altro, intorno al prof. Santoro Passarelli ruotavano anche Ubaldo Prosperetti, Valente Simi, Adolfo Miglioranzi e Leonello Levi-Sandri. Con tutti questi ho avuto frequenti rapporti anche perché insegnavamo tutti alla Scuola di specializzazione in diritto del lavoro.
In quegli anni Lei frequentava anche l’Unione dei giuristi cattolici, dove pure non mancavano le personalità di spicco, penso a veri e propri personaggi come Carnelutti. Come era possibile far convivere approccio laico e prospettiva valoriale cristiano cattolica?
In quegli anni frequentavo l’Unione dei giuristi cattolici della quale il prof. Santoro Passarelli era il presidente nazionale.
Anche questa è stata una frequentazione molto importante per la mia formazione soprattutto per gli interessanti convegni annuali ai quali partecipavo come uditore e per le conoscenze che mi fu possibile fare anche con magistrati di alto livello come il Cons. Berri e il Presidente Senerchia.
Soprattutto, quella frequentazione mi consentì di conoscere e di sentire dal vivo veri e propri “mostri sacri”, per tornare alla tua espressione, come Francesco Carnelutti. Con lui ebbi, poi, occasione di numerosi incontri. Ricordo che, in un convegno dei giuristi cattolici, suscitò una standing ovation quando, intervenendo, chiese di parlare seduto a differenza di quanto avevano fatto gli altri e giustificò la sua richiesta ricordando che nel Vangelo sta scritto “il Maestro sedette e parlò alla turba”.
Frequentando i giuristi cattolici ebbi occasione di conoscere dal vivo Guido Astuti, Carlo Esposito e gli, allora giovanissimi, Pietro Rescigno e Sergio Cotta prima maniera. Ricordo che la comunità dei giovani giuristi cattolici romani - Antonio Nasi, Agostino Gambino, Francesco Zanchini, oltre me – era entusiasmata dall’aria nuova che gli ultimi due avevano portato.
Quanto alla possibile convivenza tra laicità e valori cristiani ho l’impressione che il problema sia più sentito oggi che allora. I giovani giuristi a cavallo tra gli anni ‘50 e ’60 avevano un terreno comune, la Costituzione repubblicana.
La sua produzione è sterminata. Il suo primo articolo viene pubblicato nel 1956 sulla Rivista degli infortuni e delle malattie professionali. Nei successivi quasi sessantacinque anni si è occupato di tutti i settori del diritto del lavoro. Forse un buon modo per approcciare la sua produzione è muovere dal trittico di lavori monografici più noti. E cioè: Il sistema giuridico della previdenza sociale del 1960, Contratto di lavoro e organizzazione del 1966, fino al Saggio sull’autonomia privata collettiva del 1972. Tralasciamo dunque gli altri (n.d.r.: Politica della famiglia e politica previdenziale, pure del 1966, I nuovi problemi della retribuzione del 1982, La previdenza complementare del 2010, Il Lavoro sub umbra Petri del 2016) e la fortunata produzione manualistica per concentrarci sui tre volumi, tutti presenti nella lista di letture “consigliate” dal mio maestro Matteo Dell’Olio, ma presenti penso anche in molte altre, al di là delle appartenenze di scuola. Partiamo dal primo fortunatissimo, più volte tradotto, libro. Recentemente il Prof. Josè Luis Monereo Pérez durante la pausa di un convegno napoletano mi ha raccontato che il suo maestro José Vida Soria ne prescriveva la lettura ai suoi collaboratori, al di là se avessero interesse per la materia previdenziale, perché lo definiva un “libro iniziatico”…
…con José Vida Soria eravamo, anzitutto, amici, fu lui a tradurlo in spagnolo, forse la sua benevolenza si spiega con questo…
Non direi. Ad ogni modo la genesi de Il sistema è ora ricostruita nella più recente ristampa anastatica, non le chiedo dunque ancora una volta dei dissidi con Luigi Sturzo rispetto alla tesi centrale del libro, quanto invece se ritiene ancora attuale quell’idea lì di welfare pubblico come inferenza diretta della Costituzione. E quanto il nostro sistema previdenziale corrisponde a quell’idea lì e quanta influenza di quel libro ritrova nelle interpretazioni della nuova dottrina previdenzialista?
Quando, nel 1957, come è noto perché ne ho parlato più volte, fui indotto da Francesco Santoro Passarelli ad occuparmi di previdenza sociale, mi resi subito conto che la letteratura allora esistente era quasi esclusivamente costituita da monografie scritte da ottimi dirigenti degli enti previdenziali che avevano aspirazioni accademiche. Monografie, però, che, se riferivano la disciplina legislativa vigente e le interpretazioni che ne dava la giurisprudenza, non si erano liberate dalle ricostruzioni in termini giuridici dei rapporti di previdenza sociale che erano state date dalla dottrina corporativa. Penso soprattutto agli importanti contributi del prof. Vincenzo Gueli. Ricostruzioni che ancora riconducevano la previdenza sociale all’assicurazione privata anche a ragione dell’influenza esercitata dal principio espresso dalla Carta del lavoro del 1927, secondo il quale “la previdenza è compito delle categorie interessate”.
Eppure, la più attenta dottrina pubblicistica aveva già messo in luce come la Costituzione repubblicana, che allora già aveva una decina di anni, accoglie il principio della solidarietà generale all’art. 2 e afferma quello dell’uguaglianza sostanziale al secondo comma dell’art. 3.
Applicando questi principi costituzionali alla previdenza sociale, suggerii una prospettiva teorica che, superando le ambiguità ancora esistenti nella legislazione vigente, dava una lettura pubblicistica del sistema.
Venendo ai giorni di oggi, credo che, a voler rispettare gli enunciati costituzionali, quella prospettiva sia ancora valida.
Certo, il nostro sistema previdenziale, soprattutto per la tutela che si realizza mediante l’erogazione di pensioni, presenta ancora sostanziali ambiguità nel senso che, mentre per alcuni aspetti risulta ispirato ad una solidarietà generale, per altri aspetti ancora conserva elementi corporativistici in quanto privilegia non solo la tutela dei lavoratori con occupazione costante rispetto ai sempre più numerosi lavoratori precari, ma anche i lavoratori anziani rispetto ai giovani.
A mio avviso, questa situazione è determinata soprattutto dai compromessi imposti al legislatore dal condizionamento derivante dalle sempre più ridotte disponibilità finanziarie, ma anche dalle inarrestabili pressioni delle parti sociali. Basti pensare che, a quanto leggiamo, i pensionati iscritti ai sindacati sarebbero più numerosi dei lavoratori attivi e alle reazioni, spesso assecondate dai giudici costituzionali, con le quali è stata contestata la riduzione dei trattamenti previdenziali di importo elevato.
… esagera dunque il suo allievo Martone quando, scherzosamente, le imputa una quota parte rilevante del debito pubblico?
So che Michel Martone in alcune occasioni convegnistiche con tono ironico ha imputato alla mia prospettiva pubblicistica di avere contribuito alla formazione del debito pubblico. Al riguardo, vorrei però dire due cose.
La prima è che ho sempre rifiutato l’illusione, che hanno alcuni di noi, secondo la quale un giurista che, come me, non è inserito in una struttura politica e quindi non partecipa all’attività parlamentare - come, invece, Gino Giugni o Tiziano Treu -, possa con un libro, letto appena da qualche centinaia di persone, determinare o condizionare gli sviluppi della legislazione.
Questi sviluppi, infatti, sono determinati esclusivamente dalle scelte politiche, a loro volta inevitabilmente condizionate dalla costante evoluzione della realtà economica e sociale e dal modo in cui le esigenze che ne derivano sono poi valutate da chi ha il potere di farlo.
La seconda cosa che vorrei dire è che, rispetto alla prospettiva da me suggerita nel 1960, il costante incremento del debito pubblico non è determinato dall’accettazione di una prospettiva pubblicistica, in quanto questa postula soltanto vengano garantiti “mezzi adeguati alle esigenze di vita”. Piuttosto quell’incremento è stato determinato dalla scelta del legislatore di continuare a finanziare prestazioni destinate a conservare il tenore di vita maturato durante lo svolgimento dell’attività lavorativa con l’ulteriore conseguenza di imporre contribuzioni obbligatorie elevate che appesantiscono il costo del lavoro.
E però, dopo quasi trent’anni di riforme ci ritroviamo un sistema con enormi difficoltà di equilibrio, prospettive demografiche terrorizzanti e prestazioni sempre più povere. Non le sembra lecito coltivare il dubbio che forse era necessario adottare un modello diverso?
A mio avviso, il modello alternativo a quello tradizionale ancora adottato per la tutela pensionistica, sarebbe quello al quale è stato ispirato, nel 1978, il Servizio sanitario nazionale e, cioè, prevedere una tutela estesa a tutti i cittadini con trattamenti più favorevoli per chi avendo lavorato ha contribuito al “progresso materiale o spirituale della società”. Tutela, a questo punto, finanziata completamente dallo Stato.
Modello che avrebbe potuto essere politicamente corretto in quanto la Costituzione repubblicana assegna allo Stato, e alle strutture pubbliche di cui si avvale, soltanto il compito di realizzare la garanzia dei “mezzi adeguati alle esigenze di vita”.
Per contro l’interesse al mantenimento del tenore di vita conseguito durante lo svolgimento dell’attività lavorativa è un interesse privato, sicuramente meritevole di tutela e che, però, non può essere soddisfatto a carico della collettività, ma da chi ne è titolare. Pertanto, quell’interesse dovrebbe, a mio avviso, essere soddisfatto dall’iniziativa privata o con il risparmio, non a caso incoraggiato e tutelato dall’art. 47 della Costituzione, o con il ricorso alle assicurazioni private o alla previdenza integrativa.
Sei anni dopo esce Contratto di lavoro e organizzazione. A proposito cosa le successe in quei sei anni? ci furono, se non erro, gli incarichi a Pescara e Sassari…
La monografia sul sistema giuridico della previdenza sociale mi fece conseguire, nel 1962, la libera docenza in diritto del lavoro. Al riguardo, ricordo che la Commissione, proprio per contrastare le pretese all’autonomia scientifica della materia, ritenne opportuno specificare, nel verbale, che il diritto della previdenza sociale fa parte del diritto del lavoro.
Conseguita la libera docenza ottenni, nel 1963, l’incarico dell’insegnamento di diritto del lavoro nella Facoltà di economia e commercio nell’Università di Pescara che, allora, era stata recentemente istituita. Incarico che mi fu attribuito per iniziativa del prof. Carlo Esposito che insegnava a La Sapienza diritto costituzionale e che faceva parte del comitato tecnico di quella Università. Ricordo che, quando mi convocò, feci presente il problema di sapere se il prof. Francesco Santoro Passarelli avrebbe avuto nulla in contrario e il prof. Carlo Esposito mi rassicurò dicendo che ci avrebbe pensato lui.
Nel frattempo, Giuseppe Suppiej aveva vinto il concorso a cattedra ed era stato chiamato ad insegnare diritto del lavoro nella Facoltà di giurisprudenza nell’Università di Sassari che, almeno allora, era considerata dagli appartenenti alla scuola romana una “sede di passaggio”. Ed infatti, Giuseppe Suppiej quasi immediatamente dopo venne chiamato alla cattedra di diritto del lavoro in quella che, allora, era ancora la sede distaccata di Verona dell’Università di Padova.
Fu lui, quindi, ad indicarmi come suo successore e, dal 1964 al 1971, ho insegnato diritto del lavoro nell’Università di Sassari che, poi, mi bandì il concorso a cattedra che vinsi nel 1967. Abitai a Sassari dal 1969 al 1971 e in quel periodo ho ulteriormente arricchito la mia esperienza culturale avendo ritrovato colleghi che, come Agostino Gambino, avevano come me frequentato, come assistenti, l’Istituto di diritto privato de La Sapienza e avuto occasione di conoscere e frequentare altri professori di culture diverse, ma che mi hanno insegnato tante cose, come il penalista Franco Bricola, prematuramente scomparso, il romanista Pierangelo Catalano, l’economista Pierangelo Garegnani, l’amministrativista Ugo Bassi di Parma e l’ecclesiasticista Antonino Di Stefano, allievo di Arturo Carlo Jemolo e, poi, giudice costituzionale. Successivamente ho avuto come colleghi nell’insegnamento Natalino Irti, Floriano D’Alessandro, Valerio Onida, Gustavo Zagrebelsky e Domenico De Masi.
Devo dire che gli anni sassaresi sono stati forse i più belli della mia carriera di docente e anche di studioso.
…lì conobbe tra gli altri anche Francesco Cossiga e Giovanni Berlinguer, dico bene?
All’epoca, il mondo universitario sassarese era dominato, sia pure per ragioni diverse, da Francesco Cossiga e da Giovanni Berlinguer.
Il primo insegnava, per incarico, diritto costituzionale nella Facoltà di giurisprudenza e, però, avendo incarichi governativi che comportavano la sua presenza a Roma - allora era sottosegretario al Ministero della difesa - faceva raramente lezione suscitando così il malcontento degli studenti sassaresi che, tra l’altro, cominciavano ad avvertire i primi sintomi di quello che sarebbe stato il maggio studentesco.
Poiché io risiedevo a Sassari e, quindi, vivevo praticamente all’Università, avevo instaurato un intenso rapporto con i miei studenti condividendone le preoccupazioni. Sentii, quindi, il dovere di fare un tentativo per convincere Francesco Cossiga a intensificare la sua presenza accademica e ricordo un colloquio che ebbi con lui nello studio di Palazzo Chigi del prof. Piga - che era al tempo Capo di Gabinetto del Presidente del Consiglio Mariano Rumor - mentre lavoravo con Gino Giugni alla stesura definitiva di quello che poi diventerà lo Statuto dei lavoratori.
In quell’occasione, nel vano di una finestra prospicente Piazza Colonna, chiesi a Francesco Cossiga di inviare almeno una lettera al Preside con la promessa che, nel prossimo anno accademico, avrebbe garantito una maggiore presenza alle lezioni. Peraltro, condizionai espressamente all’invio di quella lettera il mio appoggio per il rinnovo dell’incarico di insegnamento che, allora, era temporaneo perché veniva conferito dai Consigli di facoltà anno per anno.
Poiché questa lettera non fu mai inviata, quando il Consiglio di facoltà fu chiamato a decidere l’attribuzione degli incarichi di insegnamento, mi opposi al conferimento dell’incarico di diritto costituzionale a Francesco Cossiga motivando con il suo assenteismo.
Mi spalleggiò Floriano D’Alessandro che votò con me contro il conferimento dell’incarico, mentre i professori continentali si astennero e solo i quattro professori sassaresi votarono a favore. Mancò, quindi, la maggioranza con la conseguenza che l’incarico di diritto costituzionale che era di Francesco Cossiga non venne confermato con conseguente ampia risonanza sulla stampa locale.
Ricordo che, qualche tempo dopo, incontrai a Sassari Francesco Cossiga che, con un tono minaccioso, mi apostrofò dicendo “te la farò pagare” e gli risposi polemicamente che, stando già a Sassari, non sapevo cosa di peggio mi poteva capitare.
Ricordo anche, però, che quando era Presidente della Repubblica e andai al Quirinale per presentare, insieme agli altri autori, una ricerca sulla giurisprudenza costituzionale in tema di diritto del lavoro, Francesco Cossiga mi volle onorare perché mi venne incontro e mi abbracciò.
Ho poi avuto occasione di risentirlo quando non era più Presidente della Repubblica e si rivolse a me per chiedermi di patrocinarlo in una causa che avrebbe voluto proporre contro il Senato della Repubblica per ottenere, invocando il principio di uguaglianza che secondo lui doveva trovare applicazione anche ai presidenti della Repubblica, lo stesso trattamento pensionistico di cui godeva Azeglio Ciampi e che era molto più cospicuo del suo. Al riguardo, tentai inutilmente di convincerlo che l’entità del trattamento pensionistico di Azeglio Ciampi era dovuto soprattutto alla quota costituita dalla pensione maturata come ex governatore della Banca d’Italia.
Diversamente è da dire per Giovanni Berlinguer che, a quei tempi, insegnava medicina del lavoro nella Facoltà di medicina dell’Università di Sassari. Si instaurò tra noi non solo un’amicizia personale, ma anche un’intensa collaborazione perché collaboravamo anche nella didattica organizzando seminari sulla sicurezza del lavoro comuni agli studenti di medicina e a quelli di giurisprudenza. Ricordo che quando partii da Sassari per andare ad insegnare a Venezia mi suggerì di non farmi irretire dai “compagni miglioristi”, ma mi dovetti far spiegare chi erano.
…e dell’esperienza a Ca’ Foscari?
A Ca’ Foscari arrivai nel 1971 per l’interessamento di Agostino Gambino che, avendo anche lui insegnato a Sassari, mi aveva preceduto.
Ancora una volta mi trasferii ed andai ad abitare a Venezia, ma devo dire che l’esperienza dell’insegnamento veneziano non fu pari a quella dell’insegnamento sassarese anche perché quella di Ca’ Foscari non era una facoltà giuridica.
Tuttavia, ebbi la direzione del Seminario giuridico e mi meritai la considerazione del prof. Pasquale Saraceno, che negli anni ’30 aveva ispirato l’istituzione dell’IRI e che ancora insegnava a economia aziendale, che mi candidò per la presidenza della Facoltà, che, però, venne poi affidata ad un professore locale.
Con riguardo al periodo veneziano e a dimostrazione di quanto allora era importante per i giovani professori arricchire le loro esperienze insegnando in varie università, devo anche dire che a Venezia, ancora una volta, imparai molto dal prof. Feliciano Benvenuti e dal prof. Guido Rossi.
Parliamo del secondo libro che, insieme con gli scritti di Mancini e Mengoni di quegli anni realizza un’operazione scientificamente vincente e culturalmente determinante, la sistemazione della subordinazione nell’alveo contrattuale. Vorrei chiederle cosa pensa oggi di quella tesi? Voglio dire, sa bene che molte delle critiche che le sono state mosse costituiscono una sorta di processo alle sue intenzioni. E le hanno portato in dote una sorta di fama di autore di destra, non saprei definirla altrimenti. Quando poi, sia il primo che il terzo libro non li possiamo certo ascrivere al pensiero conservatore e neppure liberale. Il punto è forse che nella sua nota costruzione su contratto di lavoro e organizzazione molti hanno visto una sorta di legittimazione della nuova schiavitù contrattuale. Nella subordinazione si collabora, ma per permettere la soddisfazione dell’interesse al risultato del capitalista, interesse cui l’organizzazione è per intero protesa. Ma questa tensione, le viene contestato, serve proprio ad allargare in maniera indefinita la sfera obbligatoria del contraente debole, in vista peraltro di una organizzazione che non ha cittadinanza normativa, dunque finisce per costituire una sovrastruttura concettuale. C’è del vero in queste critiche?
Quanto al modo in cui avevo ricostruito le situazioni caratterizzanti il rapporto di lavoro subordinato, ricordo che, subito dopo la pubblicazione del mio libro, le prime critiche, come si dice, da sinistra mi vennero fatte a voce da Federico Mancini. A lui risposi quello che, poi, ho continuato a rispondere agli altri critici e, cioè, che non aveva senso farsi illusioni inventandosi le favole e che, invece, era necessario tener conto della realtà così come era. Il mio atteggiamento rassomigliava un po' a quello che, secondo Ugo Foscolo, sarebbe stato quello di Nicolò Machiavelli che “alle genti svela di che lagrime grondi e di che sangue” il potere dei datori di lavoro.
Peraltro, continuo ad essere convinto dell’inutilità di ricostruzioni teoriche che non tengono conto della realtà e, cioè, del fatto che, una volta garantita in Costituzione la libertà di iniziativa privata economica, l’impresa non può che gestire i rapporti di lavoro in modo da garantirsi un profitto.
Peraltro, non direi che l’allargamento della sfera obbligatoria del lavoratore, come contraente debole, si verifica in una organizzazione che non ha cittadinanza normativa. La legge, infatti, pur non riuscendo ad inseguire la continua evoluzione delle realtà produttive, disciplina l’organizzazione di lavoro. Per contro, rispetto ai contenuti che quella sfera aveva nella disciplina del Codice Civile del 1942, c’è stato, se mai, un alleggerimento dovuto allo Statuto dei lavoratori che, per la prima volta, ha previsto una tutela della stessa persona del lavoratore superando i limiti della tutela tradizionale limitata alla retribuzione.
Vorrei capire meglio. Secondo Lei ha ancora senso il paradigma teorico adottato nel ‘66? Glielo chiedo perché assistiamo tutti alla riduzione di centralità del contratto di lavoro subordinato nella struttura dell’organizzazione capitalistica. L’impresa post fordista utilizza le nuove tecnologie anche per realizzare un’organizzazione liquida del capitale. Di conseguenza il legislatore, piuttosto che su di una puntuale rilevanza dei poteri, sembra ormai puntare decisamente proprio sull’organizzazione del lavoro, penso al lavoro mediante piattaforma, al lavoro agile ecc., come discriminante della diffusione delle tutele al lavoro. Oggi anche Lei come molti dei giovani studiosi scriverebbe: contratti di lavoro e organizzazione? O forse è perfino necessario abbandonare la prospettiva contrattuale, o se vuole la fattispecie, come dice anche la cassazione nella sentenza sui riders, e parlare direttamente di lavoro e organizzazione?
Non c’è dubbio che il paradigma teorico adottato nel 1966 non abbia più senso in quanto era stato costruito, e non poteva essere diversamente, tenendo conto della legislazione vigente cinquant’anni fa.
E ciò non solo a ragione della successiva evoluzione della disciplina legislativa, peraltro a volte ambigua e farraginosa, quanto per le profonde modifiche della realtà economica e sociale nella quale il consolidarsi di interessi nuovi, suscitati anche dall’innovazione tecnologica, ha determinato nuove forme di collaborazione all’impresa diverse sia da quella del lavoro subordinato che da quella del lavoro autonomo. Da qui la crisi del concetto tradizionale di subordinazione, acuita di recente dall’esperienza del lavoro da remoto.
Sono convinto, però, che la prospettiva contrattuale debba essere mantenuta se non altro perché, nonostante la sua fragilità e i condizionamenti sofferti da chi lavora per vivere, resta che il contratto, da un lato, evita il lavoro obbligatorio e, d’altro lato, costituisce, da un punto di vista giuridico, l’unica giustificazione possibile dell’assoggettamento del lavoratore ai poteri unilaterali del datore di lavoro, che, indipendentemente da quello che potrebbe essere in futuro il loro contenuto, sono, e restano, poteri non conosciuti dal diritto privato.
Per il resto, non mi porrei il problema di contrapporre il lavoro all’organizzazione perché, se mai il problema è quello di disciplinare quest’ultima nelle sue multiformi e variabili evoluzioni. Basti pensare, ancora una volta, al lavoro da remoto che recentemente è stato oggetto degli studi raccolti da Michel Martone e pubblicati nel Quaderno n. 18 di Argomenti di diritto del lavoro, e al problema, avvertito con sempre maggiore preoccupazione, di come regolare l’alternativa tra tempo di lavoro e risultato del lavoro.
Se me lo concede rimarrei ancora sulla seconda metà degli anni Sessanta. Sono anni immagino fondamentali anche per Lei, densi di vicende e incontri determinanti. Mi incuriosisce però un fatto. È vero che partecipò all’occupazione studentesca dell’Università di Sassari, dormendo accampato con gli studenti all’interno dell’Ateneo? E più in generale quanto c’è di vero che Lei, anche per l’amicizia con Giugni e Freni, e poi la frequentazione di Tarello e Rodotà, fosse in quegli anni vicino all’area socialista? Ci siamo persi qualcosa?
Riprendendo l’esperienza sassarese, ricordo che, proprio perché abitavo a Sassari, avevo instaurato con i miei studenti rapporti intensi, nel senso che stavo tutto il giorno all’Università e, oltretutto, con molti di loro assistevo alle prime messe conciliari allietate dalle loro chitarre e dai loro tamburi. Pertanto, quando, nel 1968, ci fu l’occupazione dell’Università, condivisi con loro anche l’occupazione e dormii anch’io all’interno dell’Ateneo occupato.
Al riguardo, ricordo che temevamo sia l’irruzione degli studenti fascisti, sia l’intervento della polizia. Gli studenti fascisti vennero ed entrarono nell’Aula Magna occupata, ma furono, direi miracolosamente, neutralizzati dall’eloquenza di Giorgio Macciotta, allora assistente del prof. Antonio Pigliaru che insegnava filosofia del diritto e che, poi, fu sottosegretario di Azeglio Ciampi quando era ministro delle finanze. Mi sottrassi, invece, all’intervento della polizia soltanto perché la notte in cui avvenne, dopo notti quasi insonni, ero tornato a dormire a casa.
Ricordo anche che, in quel periodo, più volte le prime pagine de L’Unità riferirono che l’Università di Sassari era ancora occupata anche dal prof. Mattia Persiani. Di ciò pagai un prezzo perché, quando Giuseppe Pera mi segnalò la possibilità di essere chiamato dall’Università di Pisa, andai all’INA dal prof. Francesco Santoro Passarelli per chiedergli un intervento sui civilisti di quella Università e mi sentii domandare “perché non ti rivolgi ai tuoi nuovi amici?”.
Non è vero, però, che l’amicizia con Gino Giugni, Nino Freni, Tarello e Stefano Rodotà mi portò vicino all’area socialista, perché un conto è la posizione culturale e un conto è quella della politica dei partiti e, da parte mia, mi sono sempre sottratto a quello che a Roma si chiama un “intruppamento”.
Che rapporto c’era tra Lei e Gino Giugni? Mi interessa capire che tipo di relazione c’era tra voi e tra le scuole del tempo.
I miei rapporti con Gino Giugni sono stati per lunghi anni molto frequenti, anzi direi quotidiani. Come del resto con Stefano Rodotà che all’epoca era assistente di Rosario Nicolò e con il quale ogni settimana ci ritrovavamo nella biblioteca dell’Istituto di diritto privato per dare collocazione ai nuovi libri e alle riviste. Con Gino Giugni la frequentazione da un punto di vista personale si intensificò nel periodo in cui lui è stato, più volte, Presidente dell’AIDLASS mentre io ne ero il Segretario generale.
Dei nostri rapporti ho già avuto occasione di riferire nel mio intervento al convengo organizzato l’anno scorso dall’AIDLASS per celebrare il decennale della scomparsa di Gino Giugni i cui atti sono stati pubblicati con il Quaderno n. 17 di Argomenti di diritto del lavoro.
Fu Lei a presentargli un giovanissimo Edoardo Ghera?
È vero che Gino Giugni, dovendo sostenere il peso della consulenza in materia di lavoro a tutte le aziende del Gruppo IRI, mi chiese di segnalargli un brillante allievo della Scuola di specializzazione in diritto del lavoro che potesse aiutarlo. Ciò perché in quella scuola tenevo, allora, tre insegnamenti. Uno sui rapporti speciali di lavoro, che era il mio, uno di previdenza sociale, in sostituzione di Lionello Levi-Sandri che, allora, era commissario della Comunità Europea e stava a Bruxelles, l’ultimo di diritto sindacale, in sostituzione del prof. Francesco Santoro Passarelli.
Fu così che, avendo notato tra gli allievi della Scuola l’allora giovane Edoardo Ghera, lo segnalai a Gino Giugni e da qui, come è noto, nacque tra loro un intenso rapporto di collaborazione che divenne, poi, anche accademica.
A quei tempi, direi che le scuole del diritto del lavoro che per prime si segnalavano per l’apporto culturale erano due. Una scuola era quella bolognese - Federico Mancini, Giorgio Ghezzi e Umberto Romagnoli ai quali, pur nella sua indipendenza, era affiancato fin dall’inizio Giuseppe Pera e ai quali si aggiunsero, poi, Luigi Montuschi, Franco Carinci e Marcello Pedrazzoli - che, pur continuando a praticare il metodo giuridico, era considerata di sinistra perché orientata a rendere più efficace la tutela dei lavoratori.
Altra scuola era quella barese fondata da Gino Giugni che si caratterizzava soprattutto per aver adottato un metodo interdisciplinare e che ebbe molti protagonisti tra i quali Mario Giovanni Garofalo e tutt’ora Edoardo Ghera.
Quelle scuole si aggiungevano alla scuola romana che faceva capo al prof. Francesco Santoro Passarelli, ma che comprendeva, oltre ai suoi allievi - Francesco Traversa, Giuseppe Suppiej, Nino Freni, ai quali si aggiunsero Salvatore Hernandez e Antonio Martone - e a Mario Grandi che tale si considerava, anche il prof. Ubaldo Prosperetti che, a sua volta, formò una scuola, con Pasquale Sandulli, Sergio Magrini, Roberto Pessi, Antonio Vallebona, ai quali poi si aggiunse Giulio Prosperetti.
Presto, però, sopravvennero altre scuole con numerosi e validi studiosi. Non posso ricordarli tutti, mi limito a quelli che per primi si fecero notare.
La scuola napoletana cresciuta, per quanto ne posso sapere, per lo stimolo culturale di Gustavo Minervini che, prima di Gino Giugni, aveva insegnato diritto del lavoro a Bari e che si era fatto notare dai giuslavoristi per una monografia sul lavoro nautico. La scuola napoletana si venne consolidando per gli apporti dati prima da Luciano Spagnuolo Vigorita e, subito dopo, da Raffaele De Luca Tamajo, da Mario Rusciano e da Giuseppe Ferraro, allievi di Renato Scognamiglio, illustre civilista prestato al diritto del lavoro. La scuola napoletana, che ricomprende anche il compianto Massimo D’Antona ed Arturo Maresca ambedue allievi di Renato Scognamiglio, ha dato e continua a dare notevoli contributi allo studio della nostra materia.
La scuola milanese che si è venuta formando intorno al prof. Luigi Mengoni, anche lui civilista di grande spessore prestato al diritto del lavoro. Scuola dapprima continuata da Tiziano Treu e da Paolo Tosi e, poi, dal compianto Mario Napoli e che, tuttora, è culturalmente molto attiva per gli apporti che Mariella Magnani e i più giovani, quasi tutti nella Cattolica di Milano, continuano a dare.
Tra le scuole bolognese, barese e romana i rapporti culturali e personali erano, almeno all’inizio, molto intensi, pur nella diversità di vedute, nel senso che ci scambiavano i commenti alla giurisprudenza, i rispettivi lavori, ci si criticava, ma ci si informava a vicende sulle ultime novità. Ciò era possibile a dispetto delle difficoltà di comunicazione di allora, perché eravamo in pochi.
Si può dire che i professori sopravvissuti al corporativismo - tra i quali i più attivi erano Renato Balzarini, Giuliano Mazzoni e Luisa Riva Sanseverino - erano guardati da noi giovani con rispetto, ma non senza una qualche area di superiorità, ritenendoli sorpassati.
Se ha voglia di parlarne dopo tanti anni, e aggiungo se ritiene abbia senso senza contraddittorio, perché si ruppe l’amicizia con Giugni?
Devo prima dire che, nonostante tutto, ho sempre conservato una profonda ammirazione per Gino Giugni e che, se poi è accaduto che i nostri rapporti hanno perso di intensità, è stato soprattutto a ragione della sua carriera politica, come parlamentare e soprattutto come ministro, che ha rarefatto inevitabilmente le nostre frequentazioni.
Una certa frizione, però, si verificò in occasione del concorso a cattedra del 1985 nel quale la maggioranza - costituita da Gino Giugni, da Giorgio Ghezzi e da Tiziano Treu - impose ben tredici dei suoi candidati occupando quasi tutti i posti messi a concorso e di fatto ipotecando il futuro accademico della materia. Mentre la minoranza riuscì ad avere solo le briciole. Giuseppe Suppiej ottenne soltanto l’idoneità per Carlo Cester e io, a fatica, la ottenni per Salvatore Hernandez e per Roberto Pessi.
Un’altra frizione si verificò nel 1999 quando ci trovammo su fronti opposti per la chiamata alla cattedra di diritto del lavoro della Facoltà di giurisprudenza de La Sapienza lasciata libera per l’uscita dai ruoli di Renato Scognamiglio. Gino Giugni portava Edoardo Ghera, mentre io e gli altri allievi di Francesco Santoro Passarelli - soprattutto Matteo Dell’Olio e Nino Cataudella - portavamo il di lui figlio Giuseppe. Questi fu chiamato, mentre Edoardo Ghera, nonostante la maggiore anzianità accademica e l’indiscusso valore della produzione scientifica, dovette segnare il passo e attendere, per essere chiamato nella Facoltà giuridica romana, che il Ministero assegnasse, come accadeva allora, un’altra cattedra destinandola al diritto del lavoro. Il che avvenne poco dopo.
Non vorrei, però, creare malintesi. Ho riferito questo episodio esclusivamente per accennare ad una delle ragioni del mio allontanamento da Gino Giugni e, al tempo stesso, per raccontare una delle vicende dei rapporti tra giuslavoristi romani. Non a caso Giuseppe Santoro Passarelli è stato chiamato di recente a far parte dell’Accademia dei Lincei.
Torniamo alla materia. Nel 1970 vede la luce lo Statuto dei lavoratori. In un recente convegno romano ha chiarito quale fu il suo ruolo quale emissario della DC. Ma poi concretamente quale fu il suo apporto nella redazione delle disposizioni della legge “mal fatta” per antonomasia, oggi incensata, mentre se ne festeggiano i 50 anni, anche come modello di tecnica legislativa?
è vero che, come ho ricordato anche nell’intervento al convegno con il quale l’AIDLASS ha commemorato Gino Giugni al quale già ho fatto cenno, io fui incaricato dalla Democrazia Cristiana - con la quale ebbi soltanto un rapporto professionale - di collaborare con Gino Giugni, che allora era il Capo dell’ufficio legislativo del Ministero del lavoro retto dal socialista Giacomo Brodolini, per la redazione del testo dello statuto dei lavoratori. Collaborazione che fu intensa e feconda e che sicuramente arricchì anche la mia esperienza.
Quanto alla “legge malfatta”, così venne apostrofata da Giuseppe Pera suscitando, com’è noto, la forte reazione polemica di Gino Giugni. Da parte mia, ho sempre apprezzato il significato politico dello Statuto dei lavoratori e, se mai, ho ritenuto che quella legge è stata, forse, l’ultima legge ad essere redatta direi all’antica. E, cioè, con l’enunciazione di principi in termini giuridici abbastanza precisi e non, come sarà per molte leggi successive, con disposizioni non solo ambigue, ma inutilmente particolareggiate, tanto da essere considerate leggi-circolari.
Basti pensare che l’importante e innovativa disciplina delle relazioni sindacali è contenuta, nello Statuto dei lavoratori, in appena tredici disposizioni.
Nel 1972 esce il suo Saggio sull’autonomia privata collettiva, forse del trittico imprescindibile il libro più criticato. Un libro che taglia il cordone con l’eredità privatistica anche in modo piuttosto netto, se pensiamo ad esempio agli scritti coevi di Cataudella. Ma che pure mi sembra molto lontano da certe sue prese di posizione più recenti, ad esempio, in tema di funzioni e interpretazione del contratto collettivo, che negli anni duemila recuperano saldamente l’anima privatistica. Cosa non abbiamo compreso del suo tentativo di fondare l’inderogabilità del contratto collettivo sul primo comma del 39 della Costituzione, immaginando che all’organizzazione sindacale l’ordinamento consegni poteri qualitativamente diversi e sovraordinati rispetto a quelli nella disponibilità dei lavoratori?
Il mio saggio sull’autonomia privata collettiva nasce dall’insoddisfazione per la costruzione che, in termini rigorosamente civilistici, venne data nell’immediato dopoguerra dal prof. Francesco Santoro Passarelli e che aveva avuto l’adesione di quasi tutti gli studiosi, eccezion fatta di chi, come il prof. Carlo Esposito e il prof. Costantino Mortati, privilegiavano una lettura dell’art. 39 della Costituzione in chiave pubblicistica.
Ed infatti, quella costruzione, da un lato, mi sembrava ingabbiata in una prospettiva individualistica, com’è inevitabilmente quella civilistica, dimenticando, di conseguenza, che quello sindacale è un fenomeno collettivo. D’altro lato, non riusciva, a mio avviso, a spiegare l’inderogabilità del contratto collettivo di diritto comune perché questa non può essere giustificata soltanto con ciò che il sindacato stipulerebbe il contratto collettivo nell’esercizio di un potere conferito dai singoli lavoratori suoi iscritti.
Questa costruzione, dunque, non era soddisfacente anche perché non teneva conto del fatto che il sindacato, quando stipula il contratto collettivo, esercita un potere che è di autonomia collettiva perché destinato a soddisfare un interesse collettivo e, quindi, è strutturalmente e funzionalmente diverso dai poteri di autonomia individuale propri dei singoli lavoratori. Ed è per questo, del resto, che il contratto stipulato nell’esercizio di quel potere è inderogabile.
Da ciò deriva che non ha senso ritenere che il singolo lavoratore conferisca al sindacato un potere come quello dell’autonomia collettiva perché, come insegnano gli antichi, “nemo plus iuris in alium transferre potest quam ipse habet”.
In quell’occasione tentai di dimostrare, quindi, che il potere di stipulare contratti collettivi nell’esercizio dell’autonomia collettiva è conferito al sindacato direttamente dall’ordinamento giuridico, deducendo ciò anche dal quarto comma dell’art. 39 Cost. E che i singoli lavoratori, istituendo e iscrivendosi al sindacato, si limitano a porre in essere il presupposto di quel conferimento.
Pertanto, la mia posizione in materia d’interpretazione del contratto collettivo non contrasta con questa costruzione perché, in conseguenza del riconoscimento della libertà sindacale di cui al primo comma dell’art. 39 Cost., anche l’interesse collettivo è un interesse privato e, quindi, il contratto collettivo che lo realizza non è fonte di diritto, ma atto di autonomia privata. Al quale, come tale, si applicano i canoni di interpretazione dettati dagli artt. 1362 e segg. Cod. Civ.
Negli anni Settanta la dottrina italiana in ogni settore dello scibile giuridico viene attraversata dalla breve, ma intensa, stagione del cd. ''uso alternativo del diritto'' - per usare il titolo del noto convegno catenese sempre del 1972. Le riflessioni della scuola di Francoforte rinsanguano l’approccio marxista al diritto e danno impulso ad una nuova stagione del cd. socialismo giuridico. Abbandonato il mito weberiano dell’avalutatività delle scienze sociali, una intera generazione di giuristi si coagula intorno alla convinzione che - sono parole di Lipari - definire «apolitica l’operazione interpretativa del giurista significava solo riconoscere che essa era semplicemente politica in modo conforme all’ordinamento in quel momento prevalente». L’attività interpretativa si disvela al fondo per quel che è sempre stata: «un esercizio di potere». Rodotà descriverà quell’esperienza personalmente vissuta dall’interno delle mura de La Sapienza romana come un risveglio collettivo da un “sonno dommatico”. Lei da che parte stava allora? E cosa l’ha spinta poi a rivendicare, via via sempre con maggiore convinzione e forza, per sé anzitutto, il ruolo di interprete, di esegeta, di tecnico. Penso ovviamente alla polemica su metodo e ruolo del giurista.
La mia costante fedeltà ai limiti derivanti da ciò che il giurista non ha altra funzione che quella di interprete, di esegeta e di tecnico è dettata soprattutto da ciò che sono, e resto, convinto che, in un ordinamento democratico, la competenza a dettar la regola ai rapporti giuridici intercorrenti tra privati – e, quindi, anche ai rapporti di lavoro - è esclusivamente affidata al legislatore posto che “la sovranità appartiene al popolo” che la esercita mediante rappresentanti che ha eletto. Ne deriva che quella sovranità non può, e non deve, essere esercitata né dai sapientes, né dai giudici che, avendo soltanto vinto un concorso, sono tenuti al rispetto della legge come prescrive l’art. 101 Cost.
In questa prospettiva, il giurista, così come il giudice, può essere impegnato a ricercare le soluzioni interpretative maggiormente coerenti con i principi costituzionali o a denunciare l’illegittimità costituzionale di disposizioni della legge che non rispettano quei principi. Non può, però, travalicare, né deformare, la disciplina che risulta dettata dalle disposizioni della legge.
Pertanto, quanti sostengono che giuristi e giudici sono chiamati a dare applicazione ai principi costituzionali prima ancora che alle disposizioni di legge mi hanno sempre dato l’impressione o di essere presuntuosi o di dimenticare che viviamo in una democrazia.
Vorrei stare ancora sul metodo e l’eterna contesa tra positivisti e fautori dell’interpretazione valoriale, ammesso che abbia senso ragionare di simili steccati. Lei sul punto sembra avere le idee molto chiare ed ancora di recente le ha ribadite, ad es. sulla RIDL. I valori da considerare sono quelli presenti in Costituzione e tra questi l’interprete, che ci ricorda puntualmente ogni volta è sottoposto alla legge, non può dimenticare che vi è l’impresa. Una posizione che, se mi permette, la rende impopolare giusto un filo meno di Ichino, ma solo perché il successo professionale si perdona più e prima di quello politico. Se poi andiamo alla radice delle critiche ci accorgiamo che il problema non è, o non è solo, il metodo. Mi riferisco a chi le rimprovera che nell’età neo-liberale contemperare “à la Persiani” significa affermare il primato della ragione aziendale. E così? È necessariamente così?
È vero che molti mi attribuiscono posizioni che assegnerebbero un primato alla ragione aziendale, ma dimenticano il senso delle mie posizioni. Esse, infatti, come con riguardo alla costruzione proposta in Contratto di lavoro e organizzazione, evitano le illusioni e, cioè, evitano posizioni che non trovano riscontro nella realtà. Ho sempre ritenuto, infatti, che è necessario evitare di raccontare favole e denunciare piuttosto le cose come stanno, anche se spiacevoli.
Ed è così che ho sempre ritenuto, e ancora ritengo, che il cosiddetto primato della ragione aziendale discende, se mai, da un peccato originale e, cioè, dal riconoscimento costituzionale della libertà di iniziativa privata economica che ha comportato la scelta di adottare il metodo di produzione capitalistico.
Questo metodo di produzione, nella misura in cui impone all’impresa di produrre profitto, determina anche un inevitabile contemperamento e perciò la non assolutizzazione della tutela degli interessi di chi lavora per vivere. E reca come conseguenza anche l’assoggettamento ai poteri che l’ordinamento attribuisce al datore di lavoro per consentirgli di generare profitto.
Se mai, un contropotere è stato costituzionalmente attribuito alle organizzazioni sindacali, come ho sempre ritenuto anche nei miei scritti sulla retribuzione e soprattutto nel saggio sull’autonomia privata collettiva, nel quale sostengo anche che questa autonomia, non a caso, non è attribuita alle organizzazioni dei datori di lavoro, perché l’interesse di questi è un interesse comune, che, secondo l’ordinamento, non ha la meritevolezza dell’interesse collettivo, che è solo quello dei lavoratori.
Lei è stato più o meno direttamente maestro di molti giuslavoristi. Ha rivisto, riletto corretto decine e decine di lavori, dalle monografie alle note a sentenza, con pazienza certosina e inflessibile rigore. Ancora oggi continua ininterrotto questo pellegrinaggio nel suo studio, che molto spesso procede al di là delle appartenenze accademiche. A cosa è servito investire tutto quel tempo? Glielo chiedo perché viviamo in un’epoca che sembra avere smarrito il senso delle Scuole di diritto. E così anche la consapevolezza che quella che Federico Spantigati definiva la «formazione del giurista strumentale alla costruzione del sistema» è al fondo una responsabilità collettiva.
Anzitutto ho l’orgoglio di dire che, come ho ricordato nel convegno AIDLASS del 2019 al quale già ho fatto cenno, ho fatto la prima esperienza di revisione critica di un lavoro monografico niente di meno che con Gino Giugni che, nel lontano 1963, nel dedicarmi una copia della edizione definitiva del suo libro Mansioni e qualifica nel rapporto di lavoro scrisse: “A Mattia Persiani al cui spirito critico debbo il più efficace contributo”.
Il fatto poi che in tanti anni ho seguito, come tu riferisci, decine di giovani studiosi è da ricondurre all’idea che, come sta scritto nell’Aula Magna dell’Università La Sapienza: “Eternus eris si sapies juvenes”.
Ed è questa la ragione per cui ho sempre avvertito come mio dovere trasmettere ai più giovani studiosi l’esperienza maturata per effetto degli insegnamenti che io stesso avevo ricevuto. Del resto, l’esperienza degli ultimi anni del mio insegnamento universitario mi ha confermato nell’idea che è molto importante, e forse anche più adeguato all’esperienza di chi ha raggiunto una qualche maturità, concorrere alla formazione dei giovani studiosi, oltre che impegnarsi per gli studenti che seguono corsi universitari.
Ha voluto così tramandare una sorta di eredità?
Non so se posso dire di lasciare una qualche eredità. È questo un termine insidioso, che nasconde il tranello del prendersi troppo sul serio. E poi anche un tantino iettatorio.
Posso solo dire che, in questi lunghi anni, ho collaborato alla formazione culturale di quanti si sono rivolti a me insistendo su tre cose.
La prima cosa è di scrivere avendo sempre un’idea da dire e, quindi, evitando di limitarsi, come oramai accade troppo spesso con monografie che sembrano fatte con il copia-incolla, a comporre cataloghi espositivi senza un’anima. Dire qualcosa non significa soltanto suggerire una soluzione, ma può anche significare dare un contributo critico che alimenti il dibattito.
La seconda cosa è che, per garantire la scientificità, è necessario tenere, e dare, conto di tutti i punti di vista senza limitarsi alla considerazione di quello preferito ideologicamente o, peggio, limitarsi nelle letture agli autori che appartengono alla stessa consorteria.
La terza cosa è che è sempre necessario dimostrare le soluzioni proposte con valide argomentazioni o invocando l’autorità dei precedenti della giurisprudenza decidente e di quella teorica.
Avendo avuto modo, nelle risposte già date, di accennare a questa mia posizione, può sembrare inutile, ma è invece opportuno, aggiungere che ho sempre insistito nel rappresentare il mio convincimento che, come insegnava il prof. Francesco Santoro Passarelli, oggetto della scienza giuridica è la legge che è, e non quella che si vorrebbe che fosse.
Ho sempre insistito, cioè, sulla necessità che le mosse siano prese dalle disposizioni della legge vigente anche quando è necessario tentarne l’applicazione a fenomeni non contemplati dal legislatore perché nuovi e, se mai, denunciandone l’illegittimità costituzionale. Al riguardo, ho sempre fatto presente che gli unici modi in cui un giurista che voglia rimanere fedele al suo compito può fare politica del diritto sono o concorrere alla verifica di legittimità costituzionale delle disposizioni di legge o dialogare con i giudici, non solo e non tanto perché parlano lo stesso linguaggio, quanto perché, essendo chiamati a dare concreta applicazione alla legge, sono loro che fanno il diritto del lavoro, con la conseguente necessità di un costante confronto critico.
Il tempo concordato sta finendo. Le vorrei chiedere ancora molte cose. Scelgo e mi limito a qualcosa ancora sulla sua creatura filiale, ADL, recentemente tornata su carta, cui so bene dedica tempo e cure quotidiane. Perché è per Lei così importante lavorare su di un prodotto editoriale che in fondo leggono relativamente in pochi, credo nessun politico, specie se lo confrontiamo con strumenti di altro tipo oggi in grado di raggiungere ben altre platee?
Il mio impegno per la rivista Argomenti di diritto del lavoro deriva soprattutto da ciò che, attraverso quella rivista, da un lato, riesco a mantenere ancora contatti con tanti studiosi dai quali apprendo sempre qualcosa e, d’altro lato, ho la presunzione di concorrere alla formazione di una cultura del diritto del lavoro caratterizzata dalla scientificità della ricerca.
L’affianca ormai da tempo in questa avventura soprattutto un amico, Franco Carinci, all’apparenza molto diverso da Lei…
L’amicizia con Franco Carinci è oramai quasi ventennale e, nonostante le profonde diversità di esperienze e di carattere, credo sia stata feconda.
Soprattutto, apprezzo in Franco Carinci, oltre ai contributi che ha saputo dare allo studio della nostra materia, la, a volte rude, sincerità. E la capacità di mantenere ferma la parola data.
Per il resto, tutti possiamo sbagliare e quindi non escludo che sia io che lui, singolarmente o insieme, abbiamo commesso qualche errore.
Agli inizi collaborarono con Lei nella costruzione di ADL, se non erro, anche Dell’Olio e D’Antona. Quale sono stati gli apporti di queste personalità al risultato che tutti conosciamo?
Ricordo con affetto e riconoscenza il contributo che Matteo Dell’Olio e Massimo D’Antona diedero alla fondazione, nell’oramai lontano 1995, della rivista Argomenti di diritto del lavoro. Matteo Dell’Olio inventò il titolo e Massimo D’Antona contribuì, con la pubblicazione sul n. 1 di un importante saggio, al successo della rivista.
Ha letto il Manifesto per un diritto del lavoro sostenibile? Condivide l’idea che l’attuale sia insostenibile, che occorra cambiare paradigma se non vogliamo essere condannati al declino? Cosa pensa di quel documento?
Ho letto il Manifesto per un diritto del lavoro sostenibile e ho ammirato la capacità e la pazienza degli autori.
… mi scusi, in che senso pazienza?
Ho detto pazienza perché mi sono ricordato che a Martin Lutero nel 1517 bastarono una novantina di tesi scritte su pochi fogli per rivoluzionare il mondo.
Di mio, continuo ad essere molto diffidente nei confronti di chi propone “ciò che dovrebbe essere” anche se non ha il potere per realizzarlo. Allo stesso tempo ho, però, convenuto di dare risalto sul prossimo numero di Argomenti di diritto del lavoro ad una analisi puntuale del manifesto in questione, affidata alla penna di Franco Carinci.
Si vanno moltiplicando le associazioni giuslavoristiche con il rischio di ulteriore frammentazione della comunità scientifica. Lei, da sempre protagonista della vita associativa dell’Aidlass, cosa ne pensa?
Insieme a Edoardo Ghera siamo gli unici sopravvissuti tra coloro che nell’aprile 1963 fondarono l’AIDLASS.
Da allora, ne ho sempre seguito con grande interesse l’attività. Anzi ne sono stato a lungo il segretario generale sotto la presidenza di Gino Giugni e poi ho avuto anche io l’onore di presiederla nel periodo che va dal 1994 al 1997.
Il prestigio culturale e accademico dell’AIDLASS, come per ogni altra associazione, deriva solo in parte dal passato, e dipende invece molto dal prestigio e dalle capacità di chi la gestisce. Prestigio attualmente mantenuto, anche per merito della scelta fatta dagli associati di eleggere la prima presidente donna nella persona di Marina Brollo.
In chiusura vorrei inserire un piccolo ricordo personale per parlare del difficile mestiere di insegnare. La conobbi oltre venti anni or sono, ancora specializzando, comandato ai suoi esami dal prof. Dell’Olio. Esami che iniziavano alle 6.30 del mattino, in un clima militaresco, la tensione palpabile tra studenti ed esaminatori. Ne ricavai l’idea che Lei fosse anzitutto uomo di certezze incrollabili, e questo non mi piacque affatto. A differenza di altri assistenti non subivo il fascino della sua incontestata e innegabile autorità. Poi, col tempo, frequentandola ho mutato completamente idea sul suo riguardo. Mentre l’esperienza dell’insegnamento praticato negli anni mi ha portato sempre più a ritenere che i nostri studenti hanno bisogno anzitutto di certezze. Hilary Putnam sosteneva che decostruire senza ricostruire è da irresponsabili. Eppure la didattica situata, contestuale, ecc., verso cui tendiamo è sempre meno volta a trasmettere un sapere e sempre più diretta a suscitare domande, interesse, curiosità, partecipazione. Anche qui, stiamo forse sbagliando qualcosa?
Già nel convegno in cui si celebrava il conferimento al prof. Francesco Santoro Passarelli della laurea ad honorem da parte dell’Università di Macerata, ricordai un episodio che mi è rimasto impresso nella memoria.
Il prof. Francesco Santoro Passarelli, molto spesso, verso la fine della lezione proponeva agli studenti un problema e chiedeva loro di risolverlo. Se gli studenti, come accadeva sovente, non erano in grado di dare una soluzione, la chiedeva ai “più provetti” e, cioè, agli assistenti presenti alla lezione.
Accadde una volta che Giuseppe Suppiej cominciò a risolvere un problema prendendo le mosse da una distinzione di concetti giuridici e fu interrotto dal prof. Francesco Santoro Passarelli che disse: “no, non si fa così. Non si possono confondere le idee agli studenti che hanno bisogno di certezze”.
Ritengo però che questa regola abbia un suo fondamento soprattutto per gli studenti che frequentano i corsi di laurea perché, dovendo studiare numerose materie, non ha senso e forse nemmeno sarebbe possibile che, per ciascuna di esse, siano indotti ad approfondimenti critici che richiedono anche l’uso di una tecnica avanzata.
Diversamente è da dire non solo per i giovani studiosi, ma anche per la didattica dei corsi post laurea, per i dottorati e i masters, posto che in questi casi gli allievi chiedono una specializzazione.
Non direi, quindi, che i docenti attuali stanno sbagliando qualcosa. Direi soltanto che la didattica universitaria dovrebbe avere contenuti diversi a seconda che si tratti dei corsi di laurea o di corsi post laurea.