Testo integrale con note e bibliografia
1. Premessa
Quello della determinazione del compenso dei professionisti, parti di un contratto d’opera intellettuale (c.d. professioni liberali) , è tema sul quale, negli ultimi anni, è più volte tornato ad esercitarsi il legislatore e che, ancor oggi, è al centro di un ampio dibattito, sia de iure condito, che de iure condendo .
Fulcro della disciplina è, in primo luogo, l’art. 2233 c.c. (anch’esso, come noto, inciso, nel suo co. 3 dalla riforma del 2006).
L’art. 2233 c.c. detta quella che da più parti è stata definita una “gerarchia di carattere preferenziale” per la determinazione del compenso del professionista: l’accordo delle parti; le tariffe o gli usi; infine, la determinazione da parte del giudice, sentito il parere dell’associazione professionale di appartenenza. Il co. 2 dell’art. 2233 c.c. sancisce, poi, la necessità che il compenso del professionista sia in ogni caso adeguato all’importanza dell’opera e al decoro della professione (co. 2). Una regola di proporzionalità, dunque, atta ad impedire la corresponsione di “somme praticamente simboliche” .
Dalla sopra richiamata “gerarchia” discende, secondo la giurisprudenza, che «il ricorso ai criteri sussidiari (tariffe professionali, usi, decisione giudiziale) è precluso al giudice quando esista uno specifico accordo tra le parti, le cui pattuizioni risultano preminenti su ogni altro criterio di liquidazione» .
Come noto, tale gerarchia era, però, sostanzialmente sovvertita dalla previsione, ad opera di svariate leggi professionali, delle c.d. “tariffe”, inderogabili nei massimi e/o nei minimi , (fatta salva la validità degli accordi “transattivi” intervenuti successivamente all’espletamento del mandato) . Ferma la possibilità, per il professionista, di rinunciare al compenso per ragioni di amicizia, parentela, o finanche convenienza , a meno che ciò non avvenisse in modo strumentale, al fine di violare la norma imperativa sui minimi di tariffa .
Sennonché, varie erano le tecniche normative sottese all’emanazione delle “tariffe”, per le diverse categorie professionali: talora le leggi professionali prevedevano espressamente la sanzione di nullità per i patti in deroga ai minimi tariffari ; altre volte si limitavano a qualificare “inderogabili” le tariffe, senza espressamente sanzionare la loro violazione con la “nullità”; o “inderogabili solo nei rapporti tra privati” ; altre volte ancora era solo una fonte sottordinata rispetto all’art. 2233 c.c. a prevedere la “inderogabilità” della tariffa, in assenza di delega nella legge professionale e dunque, in tali casi, la norma si rivelava inidonea a scardinare la “gerarchia” di cui all’art. 2233 c.c. .
Ancora, le diverse leggi professionali prevedevano un iter di volta in volta diverso per la determinazione della tariffa; così come diversi erano gli interessi sottesi alla sua previsione: in particolare, talvolta la sua fissazione era rimessa alla esclusiva discrezionalità degli organi di categoria (come nel caso degli spedizionieri doganali), altre volte invece (come nel caso degli avvocati) il potere pubblico (nella specie, il Ministero della giustizia) aveva un effettivo potere di intervento nell’iter per la sua fissazione).
Sicché, nei casi in cui la tariffa era qualificata inderogabile dalla legge, ma senza esplicita sanzione di nullità, occorreva ulteriormente verificare quale fosse la natura degli interessi tutelati; poiché – secondo diffuso orientamento - solo se si trattava di interessi pubblicistici il patto in deroga doveva considerarsi nullo (nullità virtuale).
Alla luce di tali distinzioni (e della varietà delle leggi professionali in gioco) non stupisce quindi che la giurisprudenza si sia, in svariate fattispecie, pronunciata nel senso della validità dei patti (sul compenso) in deroga (alla tariffa) ; per lo più argomentando in ragione dell’interesse (di categoria professionale, e non invece generale, dell’intera collettività) sotteso alla previsione delle tariffe, tale da non consentire l’applicazione del meccanismo di “nullità virtuale” ; e che abbia al contrario ritenuto invalido il patto, ove la legge professionale esplicitamente comminava detta nullità, come nel caso degli avvocati .
Il sopra richiamato sistema tariffario è stato però, come noto, scardinato, sull’onda delle sollecitazioni (vere o presunte) dell’ordinamento comunitario, dapprima, nel 2006, con il c.d. decreto Bersani ; successivamente, in modo ancor più deciso, dall’art. 9 del d.l. 24 gennaio 2012, n. 1 (c.d. decreto “Cresci Italia”).
A tali interventi ne sono poi, però, seguiti altri, di segno parzialmente contrario, che hanno portato alla introduzione, in sostituzione delle tariffe, dei c.d. “nuovi parametri” (d.m. 140/2012 e, per la professione forense, d.m. 55/2014 poi modificato dal d.m. 37/2018).
Di pari passo, si è affermato il dibattito (non direttamente oggetto del presente intervento) sul c.d. “equo compenso”, che si è da ultimo tradotto nell’emanazione del d.l. 16 ottobre 2017, n. 148, conv. in l. 172/17 e, oggi, nella presentazione di ulteriori disegni di legge per la riforma della materia .
2. Dalle “vecchie tariffe” ai “nuovi parametri”
Più nel dettaglio, primo passo dello smantellamento del sistema tariffario è stata l’abrogazione dell’inderogabilità dei “minimi” (tariffari) da parte del c.d. decreto Bersani (art. 2, d.l. n. 223/2006, conv. in l. 4 agosto 2006, n. 248), pur entro la cornice di necessaria “adeguatezza” (ex art. 2233, co. 2) del compenso e fatte espressamente salve le «tariffe massime prefissate in via generale a tutela degli utenti» (art. 2, co. 2). Veniva altresì disposto, entro il 1° gennaio 2007, l’adeguamento dei codici deontologici, con sanzione di nullità (dopo tale momento) di eventuali disposizioni contrastanti con la nuova cornice normativa (art. 2, co. 3) .
All’esito di svariati interventi normativi , le tariffe stesse venivano, infine, definitivamente soppresse (art. 9, co. 1 d.l. 1/2012 ), con contestuale abrogazione di tutte le norme che ad esse facessero rinvio per la determinazione del compenso (co. 5) .
Il professionista è, dunque, oggi chiamato a pattuire il compenso “nelle forme previste dall’ordinamento” al momento di conferimento dell’incarico (co. 4) ed a redigere un preventivo di massima, nel quale determinare “in forma scritta o digitale” il compenso, adeguato all’importanza dell’opera. L’art. 2233 c.c., co. 3 espressamente prevede la forma scritta del patto relativo al compenso, a pena di nullità, ma solo per avvocati e praticanti abilitati.
L’art. 9, co. 2 d.l. 1/2012 dispone, poi, che, in caso di liquidazione da parte di un organo giurisdizionale, il compenso del professionista sia determinato “con riferimento” a parametri da stabilire con decreto del Ministero vigilante .
Di pari passo con l’emanazione delle specifiche leggi professionali che hanno riformato la materia , sono infine stati individuati i predetti parametri per le professioni ordinistiche vigilate dal Ministero della Giustizia (d.m. n. 140/2012); cui si sono in seguito aggiunti ulteriori regolamenti, per le specifiche professioni: come in particolare il già citato d.m. 55/2014, a sua volta modificato dal d.m. 8 marzo 2018, n. 37 per gli avvocati ; il d.m. 19 luglio 2016, n. 165 per medici veterinari, farmacisti, psicologi, e altre professioni sanitarie; il d.m. 21 febbraio 2013, n. 46 per i consulenti del lavoro; il d.m. 17 giugno 2016, per architetti ed ingegneri, cui fanno esplicito rinvio l’art. 9, co. 2, quarto periodo d.l. 1/2012 e l’art. 24, co. 8 d.lgs. n. 50/2016. Le disposizioni da ultimo citate dispongono, in effetti, che i parametri per architetti e ingegneri vengano impiegati altresì quale criterio o base di riferimento ai fini dell’individuazione dell’importo a porre a base di gara dell'affidamento di servizi di architettura o di ingegneria, con ciò limitando la discrezionalità della p.a. nella determinazione degli stessi .
Svariate sono, naturalmente, le questioni che si sono (via via) poste, alla luce della disciplina così brevemente tratteggiata. Per meglio indagarle, conviene, tuttavia, in limine, richiamare la cornice eurounitaria di riferimento ed i limiti che essa pone al legislatore nazionale in materia di ordinamento delle libere professioni.
3. La cornice eurounitaria
Come si è accennato, motore della riforma delle tariffe professionali è stata, a suo tempo, la posizione secondo cui il loro mantenimento sarebbe stato incompatibile con la libertà di concorrenza e con la libera prestazione di servizi e di stabilimento, di matrice eurounitaria.
La questione, variamente discussa e declinata, è recentemente tornata in auge, da un lato, in ragione della pretesa “restaurazione” dei minimi tariffari inderogabili che taluno ha intravveduto, in particolare, dietro le modifiche apportate dal d.m. 37/2018 al d.m. 55/2014; dall’altro, in ragione della disciplina del c.d. equo compenso e della recente presentazione di disegni di legge diretti ad ampliare la portata di tale istituto; in ogni caso la questione è di attualità, alla luce della recente direttiva 2018/578 UE.
Ora, la giurisprudenza comunitaria si era, in un primo momento pronunciata nel senso dell’incompatibilità con l’ordinamento comunitario, ed in particolare con il principio di libera concorrenza, di tariffe elaborate esclusivamente dagli organi di categoria (e non già dall’autorità pubblica) quali, in specie, quelle degli spedizionieri doganali italiani, leggendo nella fissazione di tariffe inderogabili minime o fisse del tipo di quelle in oggetto l’ «adozione di una decisione d'associazione di imprese in contrasto con l'art. 85 del Trattato CE» , in quanto idonea a determinare una restrizione nell’esercizio dell’attività economica in questione.
Ciò, nel presupposto che l’attività professionale fosse, appunto, qualificabile come attività d’impresa ai sensi del diritto comunitario (artt. 81, 82 TCE, attuali artt. 101 ss. TFUE) ; che gli organi di categoria fossero “associazioni di imprese” ; e che non ricorressero quegli “obiettivi di interesse generale” che – nel rispetto dei limiti di necessità e proporzionalità – possono rendere comunque dette decisioni conformi all’art. 101 TFUE.
Occorre, poi, distinguere – come meglio precisato in successive pronunce – tra attività poste in essere (dagli organi di categoria) a tutela di interessi pubblici ed attività poste in essere a esclusiva tutela degli interessi dei membri, poiché solo in tale ultimo caso, ove cioè gli organi di categoria non esercitino «né una funzione sociale fondata sul principio di solidarietà né prerogative tipiche dei pubblici poteri» , si pone un problema di compatibilità della loro azione con le regole di concorrenza di matrice comunitaria.
Sulla base di tali distinzioni la Corte di giustizia aveva, dunque, escluso che fosse contraria al Trattato (artt. 10, 81 in materia di libera concorrenza) una misura legislativa o regolamentare diretta ad approvare – sulla base di quanto stabilito dall’ordine professionale di appartenenza - una tariffa inderogabile nei minimi e nei massimi (nel caso di specie, r.d. 27 novembre 1933, n. 1578) (poiché non vi era, in tale caso, una “delega” completa agli organi di categoria del compito di determinare le tariffe); e ad analoghe conclusioni era giunta nel caso spagnolo ; lasciando, in altri casi (come quello bulgaro) al giudice nazionale l’ultima parola sulla questione se le restrizioni imposte alla concorrenza (art. 101 TFUE) da una regolamentazione tariffaria inderogabile nei minimi rimessa agli organi di categoria al di fuori del diretto controllo statale fosse o no, in concreto, rispondente a obiettivi legittimi e se le restrizioni fossero limitate o no a quanto necessario al loro raggiungimento e, perciò, compatibili con il principio di libera concorrenza.
Proprio sulla base di tali distinzioni, poi, la Corte di giustizia aveva precisato che gli stessi codici deontologici possono costituire “decisione di un’associazione d’imprese” ai sensi dell’art. 101 TFUE; con ciò aprendo alle (possibili) censure della posizione di quegli organi di categoria che, pur dopo le riforme, ritenevano (nella prassi) deontologicamente appropriata soltanto la pattuizione di un compenso conforme alle (abrogate) tariffe e consideravano disciplinarmente rilevante la pattuizione da parte del professionista di un compenso inferiore a detti (abrogati) minimi; lasciando, però, l’ultima parola, in merito, al giudice nazionale .
Nel caso bulgaro, peraltro, la Corte aveva dichiarato irricevibile l’ ulteriore questione pregiudiziale relativa al preteso contrasto della disciplina nazionale bulgara con il principio di libera prestazione di servizi. Si trattava, infatti, di fattispecie i cui elementi erano tutti collocati all’interno dello stato membro; né, dalla domanda di pronuncia pregiudiziale, emergeva quale fosse l’elemento di collegamento con le disposizioni del diritto dell’Unione relative alle libertà fondamentali, capace di rendere l’interpretazione in via pregiudiziale richiesta necessaria alla soluzione della controversia .
E’ noto, però, che in altre pronunce la Corte di giustizia ha rinvenuto detto “collegamento” della situazione interna con il diritto comunitario nella circostanza che il diritto nazionale imponesse di riconoscere «ad un cittadino … gli stessi diritti di cui godrebbe nella medesima situazione, in base al diritto comunitario, un cittadino di uno stato diverso»; ciò, al fine di evitare potenziali “discriminazioni a rovescio” che potrebbero derivare ai danni dei prestatori nazionali (ad es. avvocati italiani) se la liberalizzazione di un servizio (in ipotesi con disapplicazione della disciplina tariffaria per contrasto con l’art. 56 TFUE) avvenisse solo a vantaggio dei prestatori di servizi stranieri (comunitari).
Quello della “discriminazione a rovescio” è, però, argomento non del tutto convincente se applicato, in particolare, alla libera prestazione di servizi: come noto, la giurisprudenza ha da sempre riconosciuto che sarebbe proprio un’applicazione non selettiva di tutte le misure indistintamente applicabili per l’esercizio di un’attività “d’impresa” all’interno di uno stato membro a risultare indirettamente discriminatoria, se imposta ad operatori in ipotesi già soggetti ad analoghe restrizioni nello stato di provenienza, ai fini dell’esercizio solo temporaneo di quell’attività nello stato di destinazione (e cioè se imposta ad esempio all’avvocato di un diverso paese comunitario che solo temporaneamente esercita in Italia) . Di talché l’ulteriore “parificazione” (nell’abolizione di quelle restrizioni) a favore degli operatori nazionali, ai fini di garantire l’uguaglianza con i prestatori di servizi stranieri appare, invero, una forzatura.
Ad ogni modo, proprio facendo leva sulla giurisprudenza relativa alla “discriminazione a rovescio”, la Corte di giustizia, in una situazione del tutto “interna”, ha ritenuto di poter vagliare il sistema tariffario forense italiano precedente le liberalizzazioni del 2006 anche alla luce del principio di libera prestazione di servizi.
Qui, la Corte ha ritenuto detto sistema non contrastante con l’art. 49 TCE (attuale art. 56 TFUE) e con le prescrizioni di cui alla direttiva 2006/123/Ce (art. 15) se ed in quanto rispondente a motivi imperativi di interesse generale , idoneo al conseguimento di tali obiettivi, senza andare oltre quanto necessario per il loro raggiungimento; circostanze che spettava al giudice nazionale di accertare ; e che in effetti la giurisprudenza nazionale ha ritenuto sussistenti, in un mercato, come quello italiano, connotato da un elevato numero di esercenti la professione ed un’elevata asimmetria informativa tra clienti e professionisti, nel quale la fissazione di tariffe minime era diretta a garantire la tutela dei fruitori dei servizi giudiziali e la buona amministrazione della giustizia .
Neppure il sistema tariffario “uscito” dal decreto Bersani (che aveva preservato i soli “massimi”) è stato ritenuto in contrasto con i principi di libertà di stabilimento e libera prestazione di servizi: detto sistema conservava, infatti, secondo la Corte, margini di flessibilità, che ne consentivano l’adattamento alle circostanze del caso e dunque non pregiudicava l’accesso degli avvocati, in condizioni di concorrenza normali, al mercato dei servizi .
Diverso è stato, invece l’esito, in situazioni parzialmente difformi: così, ad esempio, la Corte di giustizia (anche alla luce dell’art. 15 dir. 123/2006/Ce) ha recentemente sancito la contrarietà al diritto eurounitario (ed in specie alla libertà di stabilimento) delle tariffe obbligatorie per i servizi di progettazione di architetti ed ingegneri in Germania: per quanto, infatti, (in un mercato quale quello tedesco connotato da un numero estremamente elevato di prestatori e da una forte asimmetria informativa) la previsione delle tariffe rispondesse a “motivi imperativi di interesse generale”, tuttavia, la circostanza che le attività di progettazione in oggetto fossero accessibili in Germania anche a soggetti non appartenenti alle professioni regolamentate e dunque non soggetti alle predette tariffe, rendeva i minimi incongrui; del pari illegittima è stata giudicata la previsione di massimi, in ragione del fatto che una misura meno invasiva – come ad esempio il mettere a disposizione dei clienti un orientamento in materia di prezzi per le diverse prestazioni - poteva essere idonea a garantire il medesimo obiettivo di un elevato livello di qualità delle prestazioni e di tutela dei consumatori .
Tali sollecitazioni della giurisprudenza europea (talora occasionate proprio da provvedimenti dell’autorità garante della concorrenza e del mercato, AGCM ) sono state (variamente) raccolte dai giudici nazionali .
Così, in particolare, come accennato, il Consiglio di Stato, nel 2016, sulla scorta della giurisprudenza della Corte di giustizia sopra richiamata, ha ritenuto sanzionabile alla stregua di intesa restrittiva della concorrenza l’adozione, da parte del CNF, di taluni “atti idonei a incidere sul comportamento economico degli avvocati”, consistiti in sostanza nell’emanazione (o meglio, nella ri-pubblicazione, nel 2007, “post” decreto Bersani) di una circolare che qualificava alla stregua di illecito deontologico la pattuizione di un compenso inferiore ai minimi tariffari (abrogati, appunto dal decreto Bersani) .
E la stessa Cassazione ha poi sottolineato l’opportunità che gli Ordini (anziché tautologicamente considerare il mancato rispetto dei parametri come lesivo del decoro della professione) orientino piuttosto la loro azione disciplinare a scoraggiare quelle pratiche che, di regola, si accompagnano a (e rendono possibile, perché economicamente conveniente) la fissazione di compensi inadeguati: e cioè a sanzionare disciplinarmente pratiche predatorie di accaparramento di clientela, mancato rispetto dei criteri di personalità, qualità della prestazione .
In definitiva, non pare davvero che le sollecitazioni provenienti dalla Corte di giustizia imponessero lo smantellamento delle vecchie tariffe; ferma la necessità che la fissazione delle stesse fosse rispondente - come in effetti era, anche alla luce dei margini di flessibilità che ne consentivano l’adattamento alle circostanze del caso - ai requisiti sopra brevemente richiamati, (iter pubblicistico per la loro approvazione; rispondenza a ragioni imperative di interesse generale; test di necessità e proporzionalità).
4. Determinazione consensuale del compenso del professionista, parametri e decoro della professione
Molte, come si è detto, sono le questioni che l’attuale assetto normativo, inscritto nella cornice eurounitaria, pone all’interprete, anche a voler tralasciare quelle ormai “superate”, precedenti le liberalizzazioni.
Dopo l’abrogazione delle tariffe le parti sono libere, si è detto, di determinare un compenso anche inferiore ai parametri “minimi” (un compenso, cioè, inferiore alle percentuali di riduzione codificate).
Né gli organi di categoria possono, come accennato, fare leva (strumentalmente) sugli obblighi deontologici del professionista (in ipotesi: l’obbligo di comportarsi secondo dignità e decoro ) per censurare disciplinarmente pattuizioni di compensi esigui, se la censura si fonda sulla mera circostanza che i compensi concordati non rispettino i parametri minimi , poiché l’argomento comunitario non lo consente.
Quid iuris, tuttavia, nel caso in cui il compenso pattuito (al di là della mancata rispondenza ai parametri) si appalesi, in concreto, inadeguato proprio all’importanza dell’opera e al decoro della professione al cui rispetto l’art. 2233 c.c. (ancor prima del codice deontologico) impegna il professionista?
Prima dello smantellamento delle tariffe, la questione di adeguatezza o no del patto in deroga, per lesione del parametro dell’adeguatezza al decoro della professione ex art. 2233 c.c., si era posta, in giurisprudenza, con riferimento a quelle ipotesi (sopra richiamate) in cui la violazione della tariffa non si traduceva, di per sé sola, in nullità del patto stesso . E la giurisprudenza sembrava orientata ad escludere che il professionista, avendo pattuito espressamente un dato compenso con la controparte, potesse poi lamentarne l’inadeguatezza ex art. 2233 c.c. . Ciò, pur nel dissenso di taluno, che riteneva plausibile, invece, il meccanismo della “nullità virtuale” .
Ed anche oggi, nel mutato quadro normativo, la giurisprudenza, a fronte di pattuizioni non in linea con il decoro della professione distingue, da un lato, tra «interesse del decoro e della dignità delle singole categorie professionali», e, dall’altro, interesse «generale dell’intera collettività», il solo, quest’ultimo, «idoneo ad attribuire carattere di imperatività al precetto con la conseguente sanzione della nullità delle convenzioni comunque ad esso contrarie» .
Non può, dunque, dirsi nullo il patto che introduca un compenso contrario al decoro della professione, in violazione dell’art. 2233 c.c.
In giurisprudenza, si è, poi, posta la questione se, per essere valido (e preclusivo di una diversa liquidazione giudiziale del compenso), il patto con il quale il professionista determini il compenso (anche in misura inferiore o superiore ai parametri) debba o no rivestire forma scritta.
Ora, come si è ricordato, l’art. 9, co. 4 d.l. n. 1/2012 prescrive che il compenso sia pattuito «nelle forme previste dall’ordinamento, al momento del conferimento dell’incarico professionale».
Occorre, dunque, fare riferimento alle diverse leggi professionali, al fine di verificare se il requisito della forma scritta sia o no, imposto .
La questione è stata, in particolare, dibattuta in giurisprudenza con riferimento alla professione forense.
Da un lato, infatti, l’art. 2233 c.c., co. 3, come ricordato, espressamente prevede la forma scritta a pena di nullità, per gli avvocati; dall’altro, però, l’art. 13, co. 2 l.p.f. prescrive che il compenso sia pattuito «di regola per iscritto all’atto del conferimento dell’incarico professionale». La più recente giurisprudenza risolve la questione riferendo l’inciso “di regola” al “momento” di pattuizione del compenso (e non già al requisito di forma) e riafferma l’inderogabilità della forma scritta per gli avvocati . Soluzione che può, forse, essere corroborata dal co. 6 del medesimo art. 9, ove si prevede che i parametri trovino applicazione quando il compenso non sia stato determinato in forma scritta.
In definitiva: in linea generale (al netto di discipline settoriali che impongano la forma scritta del patto, per le specifiche professioni ordinistiche) i parametri di cui al d.m. 140/2012 (e similari) trovano applicazione, per la liquidazione del compenso al professionista, solo in caso non si riesca a provare, in qualsiasi forma, che il compenso è stato consensualmente determinato. Per gli avvocati, invece, i nuovi parametri troveranno (più ampia) applicazione, in tutti i casi in cui il patto sul compenso non sia stato stipulato per iscritto .
Quanto ai patti che stabiliscano un compenso superiore ai parametri , essi sono, secondo la Cassazione, pienamente validi . Ma anch’essi, nel caso degli avvocati, dovranno avere forma scritta ad substantiam (art. 2233 c.c., co. 3).
Per la verità, non sono mancate isolate pronunce di segno contrario, nelle quali il giudice si è arrogato il potere di ridurre la somma liberamente pattuita dalle parti «in quanto manifestamente eccessiva», in pretesa applicazione del principio di buona fede oggettiva nell’ “adempimento” del contratto . Ma si tratta di posizioni non condivisibili, che pretendono in sostanza di sottoporre ad interventi correttivi del giudice, extra ordinem, pretesi squilibri genetici nella proporzionalità della prestazione .
L’Ordine (sembra di poter dire) potrebbe però sanzionare disciplinarmente il professionista esoso che abbia pattuito un compenso del tutto sproporzionato all’importanza dell’opera (art. 2233 c.c.; art, 29, co. 4 cod. deontol.), ma a condizione di dimostrare oggettivamente tale requisito, senza tautologicamente dedurlo dal superamento dei “parametri” massimi (pena il rischio di conflitto con la cornice eurounitaria, per quanto sopra argomentato).
5. Il rilievo dei nuovi “parametri” nella determinazione dell’equo compenso del professionista
Tornando, ora, alla questione dei “minimi”, occorre dire che un limite alla pattuizione di compensi del tutto inadeguati rispetto all’attività posta in essere dal professionista è stato introdotto – ma solo in limitate ipotesi – dall’art. 19 quaterdecies d.l. n. 148/17, riferito nel suo co. 1 (di modifica dell’art. 13 bis l.p.f.) alla professione forense ed esteso, nel co. 2, a tutti i professionisti (di cui all’art. 1 l. 81/2017) con il limite della compatibilità .
L’art. 19 quaterdecies in sostanza prevede che il compenso del professionista, se previsto nell’ambito di convenzioni (che si presumono) unilateralmente predisposte dalle imprese assicurative, bancarie, e comunque “forti” , debba essere proporzionato alla quantità e alla quantità del lavoro, al contenuto e alle caratteristiche della prestazione ed in ogni caso “conforme” ai parametri . Ove non sia così, spetta al giudice determinare il compenso, “tenuto conto” dei detti parametri.
I parametri aggiungono, dunque, alle altre funzioni, quella di rappresentare un punto di riferimento – insieme al criterio di proporzionalità alla qualità e quantità del lavoro svolto – per la determinazione del compenso, al di sotto del quale non si può scendere, nelle convenzioni unilateralmente imposte da c.d. contraenti forti .
Il “principio” dell’“equo compenso” vale anche per la pubblica amministrazione. Qui, però, un’interpretazione riduttiva ritiene che, da un lato, la determinazione del compenso “equo” non sia richiesta là dove vi sia stata trattativa tra le parti, o sia stata seguita una procedura ad evidenza pubblica, in cui la p.a. non abbia imposto al professionista la misura del compenso ; dall’altro che la determinazione del compenso, in tal caso, non vada fatta in base ai “parametri”, ma seguendo canoni di maggiore flessibilità, che tengano conto tanto di esigenze di contenimento della spesa pubblica, quanto della natura e delle attività richieste, in concreto, al professionista .
6. L’impiego del sistema parametrico tanto ai fini della liquidazione giudiziale del compenso del professionista (in mancanza di patto, o in applicazione del c.d. “equo compenso”) quanto ai fini della liquidazione delle spese a carico della parte soccombente.
I parametri, rispettivamente di cui al d.m. 140 del 2012; d.m. 55/2014, come modificato dal d.m. 37/2018 (per le professioni legali) e gli ulteriori d.m. sopra richiamati, per le rispettive professioni, sono dunque, oggi, punto di riferimento per il giudice nella liquidazione giudiziale dei compensi dei professionisti, in ogni caso di mancata determinazione consensuale (art. 9, co. 2 d.l. n. 1/2012) (o mancata determinazione consensuale per iscritto, per gli avvocati). Oltre che nella determinazione del c.d. “equo compenso”.
Per quanto riguarda la professione forense, essi sono altresì, punto di riferimento per il giudice nella liquidazione delle spese a carico della parte soccombente . Essi trovano inoltre applicazione, con le riduzioni di legge, per la determinazione dei compensi degli avvocati e dei procuratori abilitati in relazione alle difese d’ufficio, o nei casi di gratuito patrocinio .
Si riscontrano, peraltro delle differenze nell’impiego dei parametri: a determinati fini il loro uso è “necessitato” (equo compenso, liquidazione delle spese a carico del soccombente, liquidazione del compenso del difensore in caso di gratuito patrocinio, o patrocinio a spese dello Stato), ad altri fini è solo “suppletivo” (nella determinazione del compenso i parametri operano solo in mancanza di patto con il cliente). Inoltre, talora l’impiego dei parametri avviene sulla base del valore della domanda, c.d. “disputatum” (per la liquidazione del compenso in mancanza di patto), altre volte sulla base del contenuto effettivo della decisione, c.d. decisum, e cioè in base al valore del diritto accertato (per la liquidazione delle spese). Con l’ulteriore precisazione che, nel caso di attore vittorioso con patrocinio a spese dello Stato e mancata coincidenza, nella sentenza, tra le spese poste a carico della parte soccombente e compenso liquidato al difensore (entrambi definiti in base ai parametri), l’avvocato non potrebbe comunque pretendere un incremento del compenso .
Ora, volgendo lo sguardo ai d.m. che hanno regolato la materia dei parametri, rispettivamente, per le professioni ordinistiche vigilate dal Ministero di giustizia; avvocati, consulenti del lavoro; nonché architetti ed ingeneri (anche in relazione ai corrispettivi da porre a base di gara nelle procedure di affidamento dei relativi servizi); ed ancora, medici veterinari farmacisti, psicologi e altre professioni sanitarie, si riscontrano talune significative differenze, accentuate, per quanto riguarda gli avvocati, dalla relativa legge professionale.
Se il d.m. 140/2012 espressamente chiariva (art. 1, co. 7) (e tuttora chiarisce per le altre professioni vigilate dal Ministero) che detti parametri non erano “in nessun caso” vincolanti per la liquidazione del compenso del professionista , al contrario il d.m. 55/2014, per gli avvocati si rivelava assai più “reticente” sul punto (frutto, si direbbe, di una tensione verso la “rilegificazione” dei minimi). Esso infatti si limitava a prevedere che, nella la liquidazione del compenso, il giudice tenesse conto dei valori medi delle tabelle, «aumentati, di regola, fino all'80 per cento, o diminuiti fino al 50 per cento» .
E tale “rilegificazione” dei minimi (in assenza di accordo scritto, sul compenso) si fa più “spinta”, allorché il d.m. n. 37/2018 - a modifica del d.m. 55/2014 - sancisce che il giudice possa diminuire i parametri, ma «in ogni caso non oltre il 50 per cento» , mostrando così, chiaramente, di ritenere dette soglie percentuali di riduzione inderogabili.
Di tali differenze di disciplina si trova chiaro riflesso nella giurisprudenza, la quale ha altresì chiarito, in linea generale, che, sotto il profilo temporale, per individuare la disciplina applicabile, occorre fare riferimento al d.m. in vigore al momento in cui l’attività del professionista si è esaurita, ancorché la stessa abbia avuto inizio nel vigore di una precedente regolamentazione della materia . Così, con riferimento alle liquidazioni giudiziali di compensi (o spese) per attività (anche forensi) “esaurite” nel vigore del d.m. 140/12, la giurisprudenza aveva chiarito che il giudice ben può distaccarsi dai parametri , con obbligo di motivare solo il distacco (non già dai valori medi dei parametri, bensì) dai limiti minimo e massimo . Né, si precisa, una liquidazione giudiziale dei compensi che resti entro gli argini dei parametri (sia pure applicando gli indici di riduzione sopra richiamati) può dirsi contraria al decoro della professione .
Più dubbia era l’interpretazione dell’ (originario) d.m. 55/2014, relativo alla sola professione forense: talune pronunce ritenevano che, in difetto di accordo tra le parti, il giudice, nel liquidare giudizialmente il compenso (o le spese) fosse vincolato al rispetto dei parametri minimi ; altre, al contrario, continuavano a preservare la discrezionalità del giudice, tenuto unicamente a “motivare” lo scostamento oltre i minimi e massimi, fermo il limite del divieto di una liquidazione meramente “simbolica”, in contrasto con l’art. 2233 c.c. .
Ma, come si diceva, il d.m. 37/2018 ha ulteriormente scompaginato la disciplina, reintroducendo (in difetto di accordo delle parti sul compenso) il limite (di cui il giudice deve tenere conto in fase di liquidazione delle spese o dei compensi) dei valori “minimi” dei parametri (cioè dei parametri medi, ridotti al massimo del 50% o del 70%) ; e di ciò le prime pronunce sembrano dare atto, sia pure incidentalmente .
E analoghe regole trovano applicazione, come si è detto, in relazione all’impiego dei parametri per la determinazione dell’equo compenso; o, ancora, in relazione alla liquidazione dei compensi dovuti agli avvocati e praticanti abilitati per le difese d’ufficio, od in caso di ammissione del cliente al gratuito patrocinio. Da ciò, come si dirà, i dubbi cdi compatibilità che sono stati avanzati, in relazione all’ordinamento comunitario.
7. L’impiego dei “parametri” nella valutazione di congruità della parcella del professionista.
Si è poi posta in giurisprudenza la questione se, anche dopo l’abolizione del sistema tariffario, il professionista (ed in specie l’avvocato) possa, o no, ancora procedere in via monitoria al recupero del proprio credito, ponendo a base del ricorso per ingiunzione (in assenza di patto con il cliente, in merito al compenso) la parcella professionale, corredata dalla valutazione di congruità da parte del Consiglio dell’Ordine (fermo che, poi, in fase di opposizione sarà il professionista a dover dare la prova del proprio credito), o se invece l’art. 636 c.p.c. sia norma strettamente legata al sistema tariffario, inutilizzabile dopo l’abrogazione di questo .
In merito, le Sezioni unite, facendo leva, tra l’altro, sull’art. 9, co. 9 l.p.f., riconoscono come l’abrogazione delle tariffe non abbia comportato la eliminazione di tutte le norme che si richiamavano a quel sistema, ma abbia comportato la sostituzione del criterio tariffario di determinazione dei compensi con quello basato sui parametri, da impiegare, però, (e non è differenza da poco) solo in mancanza di patto scritto con il cliente.
La Corte, pur mettendone in luce le differenze (maggiore semplicità, minore remuneratività, di regola, del sistema parametrico rispetto alle tariffe), riscontra, in sostanza, una forte “omogeneità” tra le due discipline, ma non per questo una contrarietà dei parametri alla cornice eurounitaria (par. 10.3) che la Corte sembra, incidentalmente, escludere.
8. Prestazione eseguita dal professionista in forza di un incarico invalido e (mancato impiego dei) parametri, nella liquidazione del dovuto
Si è posta, poi, la questione se, in caso di invalidità dell’incarico attribuito al professionista, la prestazione già eseguita debba o no essere remunerata con un corrispettivo da liquidarsi in base ai parametri.
Ma la giurisprudenza più avveduta nega il rilievo, in tale fattispecie, dei parametri (così come del canone di cui all’art. 2233 c.c.). Trova, infatti, in tale caso, applicazione l’art. 2041 c.c.. Con la conseguenza che, nell’operare la liquidazione di quanto dovuto al professionista “depauperato”, il giudice dovrà tenere conto del danno emergente (costi), nonché del lucro cessante (energie mentali e fisiche del professionista, spese), potendosi in definitiva addivenire alla corresponsione di un indennizzo, valutato in via equitativa ex art. 1226 c.c.
9. La direttiva 2018/958 UE, relativa ad un test di proporzionalità ed il d.lgs. 142/2020
Di rilievo per il tema in oggetto è, poi, la recente emanazione della direttiva 2018/958 UE, «relativa a un test della proporzionalità prima dell’adozione di una nuova regolamentazione delle professioni».
La direttiva - che codifica, esemplificativamente, gli orientamenti della Corte di giustizia in ordine ai “motivi imperativi di interesse generale” (art. 6) e circa il modo in cui intendere il principio di proporzionalità (art. 7) - obbliga, in sostanza, gli Stati membri che intendano regolamentare la materia (modificando norme esistenti, o introducendone di nuove) ad effettuare una attenta valutazione (di proporzionalità) delle restrizioni (“introdotte” e “introducende”) all’accesso e all’esercizio delle professioni regolamentate, tenendo conto, tra l’altro, (tra le misure già esistenti) della esistenza di «requisiti tariffari minimi e/o massimi prestabiliti» .
In sostanza, sembra di poter dire, un ulteriore riconoscimento che non necessariamente il mantenimento di detti minimi e massimi tariffari si pone in conflitto con la cornice eurounitaria, purché siano rispettati tutti i requisiti sopra richiamati (come risultanti dalla giurisprudenza della Corte di giustizia). Verifica che, de futuro, i legislatori nazionali sono chiamati a svolgere “preventivamente” e formalmente, prima di procedere ad una rivisitazione della materia.
Tale direttiva è stata, recentemente, attuata in Italia con d.lgs. 16 ottobre 2020, n. 142 . Tutti i “soggetti regolatori” (art. 2) che intendano de futuro “mettere mano” alla materia (compresi, nei limiti delle loro competenze, gli Ordini professionali) devono preventivamente vagliare il rispetto delle nuove disposizioni con i principi comunitari sopra richiamati (concorrenza, libera prestazione di servizi, libertà di stabilimento) verificando (con il coinvolgimento di enti indipendenti) se sia soddisfatto il test di necessità e proporzionalità. Essi sono chiamati, in particolare, (attraverso la compilazione di un apposito questionario allegato al decreto legislativo) a “dichiarare” quali siano gli obiettivi di interesse generale perseguiti; quali i rischi che si intendono prevenire; perché non sia possibile il ricorso a misure meno invasive; quale sia il possibile impatto delle nuove disposizioni, in combinazione con le restrizioni già esistenti ecc.
In sostanza, una sorta di “roadmap” per i futuri regolatori (tra cui lo stesso legislatore nazionale) della cui stessa rispondenza alla regola di “proporzionalità” (che deve guidare anche l’UE, allorché legifera in materie di competenza concorrente) sembrerebbe (curiosamente) di poter dubitare .
10. Compatibilità o no dei parametri con la cornice eurounitaria.
Resta dunque da chiedersi se l’attuale disciplina dei parametri professionali sia rispondente alla cornice eurounitaria, o invece in conflitto con essa, secondo quello che sembra l’orientamento dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato (in particolare con riferimento all’equo compenso) .
Ora, alla luce delle pronunce della Corte di giustizia sopra richiamate, la disciplina di cui al d.l. 1/2012 e di cui al d.m. n. 140/2012 (e similari, per le altre professioni) sembra senz’altro in linea con il principio di libera concorrenza, con la libertà di stabilimento e con la libera prestazione di servizi.
Tali discipline non introducono infatti tariffe minime né massime e, se pure introducono i “parametri” ai fini sopra più volte richiamati (determinazione del compenso in mancanza di accordo, equo compenso) ammettono senz’altro che il giudice si discosti dai relativi valori (non solo medi, ma anche minimi e massimi), ulteriormente diminuendo od aumentando i relativi importi (cfr. art. 11, co. 2 d.m. 140/2012) secondo la propria discrezionalità: in nessun caso infatti, si puntualizza, «le soglie numeriche indicate, anche a mezzo di percentuale, sia nei minimi che nei massimi, per la liquidazione del compenso, nel presente decreto e nelle tabelle allegate, sono vincolanti per la liquidazione» ad opera del giudice (art. 1, co. 7).
Quanto alla professione forense, non può certo dirsi che il d.m. 38/2018 abbia surrettiziamente rintrodotto, tout court, i minimi tariffari inderogabili, poiché è pacifico che, come visto, il compenso può essere liberamente concordato dalle parti, per iscritto, anche in misura inferiore ai minimi. Vero è, però, che il predetto d.m. 37/2018 – a differenza di quanto accade per le altre professioni regolamentate – sembrerebbe aver reintrodotto (per la verità in assenza di esplicita delega nella l. n. 247/12) proprio dei “minimi inderogabili” di cui il giudice tenere conto in caso di mancata pattuizione per iscritto del compenso del professionista ed inoltre nella liquidazione delle spese a carico della controparte (e nella determinazione del c.d. “equo compenso”).
Il Consiglio di Stato, coinvolto in sede consultiva nella determinazione dei parametri ha avallato tale modifica, diretta a limitare la discrezionalità del giudice nella liquidazione e ad «assicurare il rispetto del principio di adeguatezza del compenso in relazione all’importanza dell’opera prestata e al decoro della professione» e ciò, in primo luogo, in ragione della procedura di determinazione dei parametri (soggetti al vaglio del Ministero e non rimessi agli organi di autogoverno degli iscritti). In ragione di tale procedura, infatti, gli stessi non possono essere considerati «decisioni di un’associazione di imprese ai sensi dell’art. 101 TFUE» .
In ogni caso, a sancire la compatibilità con le regole di concorrenza, parrebbe determinante (quantomeno con riferimento al compenso) il fatto che i parametri (pur inderogabili nei minimi) siano impiegati in modo solo suppletivo: il loro impiego non sembra dunque idoneo “restringere il gioco della concorrenza nel mercato interno” e ad impedire ad altri operatori giuridici di fissare tariffe inferiori; di conseguenza non può dirsi che il loro impiego (nella determinazione del compenso dovuto, in caso di mancato accordo) equivalga alla “determinazione orizzontale di tariffe minime imposte” .
Per le medesime ragioni non pare, poi, che l’’impiego di parametri inderogabili nei minimi (ma applicabili solo in mancanza di diversa pattuizione tra le parti per la determinazione del compenso) possa falsare la libera prestazione di servizi: il professionista ben può offrire il servizio ad una tariffa inferiore o superiore, concordandola, senza che risulti compromessa la sua capacità di entrare, o operare nel mercato.
Diverso parrebbe il discorso sulle spese di lite. Se è vero che la liquidazione delle spese a carico del soccombente non ha rilievo sulla libera determinazione del compenso del professionista (e viceversa), è vero però che essa potrebbe rappresentare un freno per l’accesso al servizio, da parte del fruitore (poi soccombente) . Dal pari, in linea di principio, l’aver ancorato l’equo compenso a parametri in ipotesi inderogabili potrebbe (in astratto) rappresentare un ostacolo alle predette libertà economiche fondamentali.
Occorre dunque, in entrambi i casi, verificare se le disposizioni in questione superino, o no, il test di proporzionalità e necessità (art. 15 dir. 2006/123/UE), (oggi più estesamente codificato, sulla scorta della direttiva 2018/958/UE, dal d.lgs. n. 142/2020).
Occorrerà, in specie, verificare quali siano gli obiettivi di interesse generale perseguiti; quali i rischi che si desiderano prevenire; le esatte ragioni dell’insufficienza di parametri non inderogabili; la idoneità o no della modifica introdotta a conseguire lo scopo perseguito; l’impatto dei minimi inderogabili sulle libertà economiche sopra richiamate; l’impossibilità di ricorrere a mezzi meno restrittivi per raggiungere l’obiettivo di interesse generale; l’effetto dei nuovi minimi inderogabili combinati con altre limitazioni nell’eccesso alla professione nella l. n. 247/12; il collegamento tra le attività esercitate nell’ambito della professione e la qualifica professionale richiesta; se il possesso di una certa qualifica professionale sia funzionale allo svolgimento delle mansioni.
Ora, con riferimento alle spese, non sembrerebbe del tutto agevole, nell’attuale contesto normativo di liberalizzazioni, intravedere quale possa essere l’interesse generale sotteso alla loro necessaria determinazione in base a parametri inderogabili (interesse che sia diverso da quello al decoro della professione, che la Cassazione, come visto, giudica non già “generale” ma “di categoria”), tale da supportare tale restrizione, alla luce del test di necessità e proporzionalità .
In sostanza, è ben vero che, come ricordato, in linea di principio “la tutela dei destinatari dei servizi” e “la salvaguardia della sana amministrazione della giustizia” ben possono essere considerate ragioni imperative di interesse generale capaci di giustificare le restrizioni ; tuttavia se lo Stato lascia oggi (“iperconformandosi” all’ordinamento comunitario che, a ben vedere non lo richiedeva) al libero gioco dell’autonomia privata la determinazione del compenso del professionista (ammettendo la validità di pattuizione di compensi anche inferiori ai parametri), non sembra possa poi “riesumare” tali interessi per giustificare una determinazione “inderogabile” delle spese, a carico della parte soccombente, pena l’irragionevolezza della disciplina.
Analoghe considerazioni possono essere svolte con riferimento all’equo compenso: smantellati i minimi tariffari di portata generale – già posti, per il passato, a tutela dei fruitori dei servizi giudiziali e della buona amministrazione della giustizia in un mercato connotato da un’elevata asimmetria informativa tra clienti e professionisti - l’obiettivo principe sotteso al mantenimento dei “minimi” solo nei rapporti disciplinati da convenzioni unilateralmente predisposte dai contraenti “forti” parrebbe quello – diverso e più limitato - di garantire l’adeguatezza della remunerazione della prestazione professionale , nei rapporti “sbilanciati”: un interesse diverso, dunque, da quello “pubblicistico” che - solo – (previo test di necessità e proporzionalità) può giustificare le predette restrizioni.
Tali considerazioni porterebbero, dunque, a ritenere che la Corte di giustizia – una volta superato (con l’argomentazione della “discriminazione a contrario”) lo scoglio della rilevanza meramente interna delle situazioni in oggetto - potrebbe considerare fondata in parte qua la questione di compatibilità con la cornice eurounitaria della surrettizia reintroduzione di parametri inderogabili per la professione forense ad opera del d.m. 37/2018, limitatamente al loro impiego per la determinazione delle spese a carico della controparte e nella disciplina dell’equo compenso.
Sennonché, sembra che vi sia, invece, spazio, per argomentare una “interpretazione conforme” al diritto comunitario; poiché in effetti quelli in oggetto (benché “calmierati” nel minimo) sono pur sempre “parametri” di cui il giudice deve (solo) “tenere conto” e non già le vecchie tariffe cui inderogabilmente adeguarsi.