Testo integrale con note e bibliografia
1. Individuazione della questione.
La sezione lavoro della Cassazione rinvia al Primo Presidente, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, la questione riguardante la necessità o meno da parte del soggetto che ha avuto comunicato dall’Inps la soppressione della prestazione assistenziale in essere, di proporre domanda amministrativa antecedentemente alla proposizione dell’azione giudiziaria .
Nel caso sottoposto allo scrutinio della Corte si tratta di indennità di accompagnamento revocata nel 2007 a seguito di visita di verifica medico-legale ed entrambi i giudici di merito hanno dichiarato improponibile la domanda, per mancata presentazione della domanda amministrativa, una volta comunicata la revoca della prestazione.
La Corte nell’ordinanza in commento riporta le motivazioni utilizzate in proprie precedenti decisioni, per accogliere l’una o l’altra opzione interpretativa.
Motivazioni che si rinvengono rispettivamente:
- nella sentenza del 30.11.2020, n. 27355, che conferma l’orientamento accolto dalla Corte sino al 2019, della necessità della presentazione di domanda amministrativa, prima della proposizione dell’azione giudiziaria, anche nel caso di revoca della prestazione previdenziale o assistenziale;
- nell’ordinanza interlocutoria del 23.7.2020, n. 15710 della sesta sezione, di rinvio alla sezione lavoro che, andando di contrario avviso a quanto sino a quel momento affermato dalla medesima Corte, propone un’opposta soluzione della questione, che conduce alla non necessità della proposizione di domanda amministrativa .
La Corte, nel corso dell’ultimo triennio e a quel che consta, ha dovuto affrontare la medesima questione sempre con riguardo a decisioni provenienti dalla Corte di appello di Napoli e con riferimento a prestazioni assistenziali, specificamente: indennità di accompagnamento (Cass. ord. 19.2.2019, n. 4788), assegno di invalidità civile (Cass. ord. 27.2.2019, n. 5775 e 23.9.2019, n. 23607 e 23.7.2020, n. 15710),
In tutte le fattispecie sottoposte al vaglio della Corte, fatta eccezione per quella esaminata nell’ordinanza in commento ove la revoca era dell’anno 2007, si trattava di revoca della prestazione avvenuta nell’anno 2010 e dopo che si era constatata, in sede di verifica medico-legale, la modificazione delle condizioni sanitarie.
Si osservi che prima del 2019, l’ultima decisione in materia di domanda giudiziale connessa al ripristino sempre di prestazione assistenziale, assegno di invalidità civile, revocata per carenza del requisito sanitario, era la n. 3688 del 24.2.2015.
La Suprema Corte, in questa decisione e nell’accogliere il ricorso dell’Inps e cassare la sentenza resa dalla corte di appello di Caltanissetta, fissava il seguente principio di diritto “Poiché la domanda di ripristino della prestazione, al pari di quelle concernenti il diritto ad ottenere per la prima volta prestazioni negate in sede amministrativa, non dà luogo ad un'impugnativa del provvedimento amministrativo di revoca, ma riguarda il diritto del cittadino ad ottenere la tutela che la legge gli accorda, il giudice deve accertare anche d'ufficio se sussista o meno il diritto alla prestazione, verificandone le condizioni di esistenza alla stregua dei requisiti richiesti dalla legge, avuto riguardo alla legislazione vigente al momento della nuova domanda, trattandosi del riconoscimento di un nuovo diritto del tutto diverso, ancorché identico nel contenuto, da quello estinto per revoca”.
Principio che fotografa lo stato dell’arte sulle questioni che saranno individuate infra e che confermava ancora una volta quanto si legge in una serie di decisioni della Corte, rese a sezioni unite, nel lasso temporale intercorrente fra il 1975 e il 1984.
Decisioni ove si chiarisce da un verso la natura dell’atto amministrativo di concessione, di diniego o di soppressione della prestazione pensionistica erogata da parte dell’Inps, la res controversa che è sottoposta allo scrutinio del giudice e infine quale siano le modalità di esercizio del potere giurisdizionale nel rapporto previdenziale .
In breve, gli approdi ai quali è giunta la Corte nel cennato lasso temporale e che a quel che consta sono stati il presupposto di tutte le decisioni successivamente emesse, possono così sintetizzarsi:
a) natura di provvedimento dichiarativo di certazione all’atto con il quale gli enti previdenziali accolgono o rigettano la domanda di riconoscimento della prestazione o sopprimono questa;
b) esclusione che l’atto di soppressione della prestazione possa essere inquadrabile nella categoria della revoca, è inserimento di tale atto nella categoria “atti di rimozione”;
c) giudice ordinario considerato non quale giudice dell’atto, bensì quale giudice del rapporto previdenziale e non del provvedimento amministrativo, con conseguenze che si individueranno, nel prosieguo dell’esposizione.
Delineato il quadro di riferimento giurisprudenziale all’interno del quale ha operato la stessa giurisprudenza sinora e della quale costituisce la più recente manifestazione l’ordinanza n. 12945 del 20921, è da chiedersi se le ragioni prospettate dalla sesta sezione, che si rinvengono nell’ordinanza interlocutoria n. 15710 del 2020, possano giustificare un mutamento di indirizzo, perché conducono a un approdo migliorativo rispetto al precedente, delle posizioni fatte al cittadino possibile beneficiario di prestazioni previdenziali o assistenziali.
Per compiere tale valutazione appare necessario affrontare e risolvere, in ordine gradato una serie di questioni delle quali fra l’altro ha consapevole esistenza la stessa Corte nelle sue decisioni ove riafferma il proprio orientamento (si v. per tutte Cass. n. 27355/2020, prg. 13).
Questioni che afferiscono in ordine logico e giuridico gradato:
a) alla natura dell’atto amministrativo emesso dall’Inps sia di riconoscimento del diritto alla prestazione, sia di disconoscimento;
b) alla qualificazione dell’atto amministrativo emesso dall’Inps con il quale, successivamente al riconoscimento del diritto alla prestazione e in conseguenza del verificarsi di circostanze predeterminate dal legislatore vengono meno i requisiti che originariamente ne avevano consentito il suddetto riconoscimento;
c) ai rapporti fra attività amministrativa e azione giudiziaria posti a tutela del diritto riconosciuto dal legislatore;
d) alla differenza, se esistente, agli odierni fini fra prestazione previdenziale e assistenziale;
e) alla disciplina positiva che a regime regola sia per le prestazioni previdenziali, sia per le prestazioni assistenziali l’emissione dell’atto individuato retro, sub b) e all’eventuale esistenza di una disciplina ad hoc con riferimento alle prestazioni assistenziali;
f) infine, l’individuazione degli effetti dell’eventuale accoglimento della soluzione prospettata nell’ordinanza interlocutoria n. 15710/2020, non solo con riguardo al versante della proponibilità della domanda, ma con riguardo ai necessitati e conseguenti effetti della stessa nella ricostruzione sinora operata dalla Corte medesima, con riferimento ai punti individuati da sub a) a e).
2. Natura atto amministrativo emesso dall’Inps nel rapporto previdenziale e contributivo e rapporti con l’azione giudiziaria.
La Corte di cassazione, come fatto cenno nel precedente paragrafo, ha costantemente e univocamente affermato, in specie in fattispecie di revoca recte soppressione, di prestazione d’invalidità, che il diritto alla prestazione previdenziale nasce direttamente dalla legge. Legge questa che interamente lo disciplina, con l’indicare tutti gli elementi necessari per il suo venir in essere, elementi che l’atto amministrativo di attribuzione della pensione si limita ad accertare, in una con il computo e la quantificazione pecuniaria di detta prestazione.
Tale diritto, di conseguenza, preesiste all’emanazione dell’atto (non di concessione <<ma>>) di riconoscimento di esso diritto.
Il provvedimento dell'INPS non è dunque un atto costitutivo del diritto dell'assicurato a percepire la pensione, ma è un atto di certazione, riconducibile a quell’attività ricognitiva, che non ha come scopo una manifestazione di volontà della pubblica amministrazione ma una semplice verifica di fatti o situazioni, che acquistano rilevanza giuridica all'esito dell'accertamento amministrativo.
La corte annovera l’atto di riconoscimento della pensione nella categoria degli atti di certazione, dato che è riconducibile a un’attività ricognitiva, che non ha come scopo l’esercizio di un potere o una manifestazione di volontà della pubblica amministrazione, ma una mera verifica di fatti o situazioni, che acquistano rilevanza giuridica all’esito dell’accertamento amministrativo .
Poiché il diritto preesiste all'atto di assegnazione e non nasce in forza di esso, l'azione proposta davanti al giudice per ottenere la pensione non coinvolge la verifica della legittimità o meno dell'atto amministrativo di diniego, ma ha per oggetto solo la fondatezza in tutti i suoi aspetti della pretesa, cioè il diretto accertamento della sussistenza degli elementi posti dalla legge alla base del diritto, che da essa è direttamente e immediatamente garantito .
Allo stesso approdo giunge la Corte anche nell’ipotesi in cui l’ente previdenziale, dopo avere accertato il diritto a pensione, ritira il relativo atto, perché anche in questo caso l’azione giudiziaria non può riguardare la legittimità del provvedimento ablatorio, ma deve avere per oggetto la sussistenza o la persistenza dell’invalidità. Non si tratta, prosegue la Corte, di ritiro di un atto amministrativo costitutivo di un diritto, bensì di un nuovo accertamento che constata l’inesistenza dei requisiti prescritti dalla legge per il godimento della pensione d’invalidità e ne dispone, ex nunc, la cessazione .
Da siffatta costruzione, ovverosia dall’affermazione che il giudizio sul riconoscimento e sulla soppressione della prestazione è un giudizio sul rapporto e non sull’atto, la Suprema Corte fa discendere le ulteriori conseguenze, oltremodo rilevanti per la tutela della posizione di diritto soggettivo del cittadino, connesse al potere riconosciuto al giudice, chiamato ad accertare lo stato di invalidità, vale a dire del diritto alla prestazione, da un verso di rivalutare gli elementi costitutivi della prestazione estranei alla causale che ne hanno determinato la revoca; e da altro verso di riconoscimento del diritto alla prestazione non solo con decorrenza dal giorno della revoca (ripristino), ma anche da epoca successiva, in applicazione dell’art. 149 disp. att. c.p.c. .
Orbene, a fronte di tale modello ricostruttivo, pare potersi affermare che predicare, come si legge nell’ordinanza interlocutoria n. 15710 del 2020, che il provvedimento di soppressione si annoveri fra i provvedimenti di revoca, comporti un arretramento della tutela sinora apprestata nei confronti dei possibili fruitori di prestazioni nel sistema di sicurezza sociale e non solo di quelli che si vedono sopprimere una prestazione sinora goduta.
Infatti, in modo implicito e non dimostrato, tale approdo trova la sua ragion d’essere sull’affermazione che il provvedimento amministrativo emesso dall’ente previdenziale, sia esso di riconoscimento o disconoscimento, sia un atto costitutivo del diritto e non già, come sinora affermato, dichiarativo di un diritto riconosciuto dall’ordinamento.
Questo arretramento sul piano del diritto sostanziale conduce poi a rimettere in discussione l’approdo sul versante processuale al quale è pervenuta la Corte. Approdo che ha consentito sino a oggi ai giudici, in caso di contestazione, di esaminare il rapporto previdenziale e non già il provvedimento.
Non pare quindi che il beneficio che il singolo trarrebbe dalla prospettata nuova lettura del sistema previdenziale, limitato all’esenzione dalla presentazione di domanda amministrativa prima di adire l’autorità giudiziaria per contrastare il provvedimento di soppressione della prestazione sino a quel momento goduta, sia superiore all’arretramento generalizzato della posizione fatta al singolo in seno al sistema previdenziale che vedrebbe quali destinatari tutti i soggetti possibili fruitori di prestazioni.
3. La natura della “revoca” della prestazione previdenziale/assistenziale in tema di invalidità. Legislazione in essere.
La Corte, nell’esaminare la natura dell’atto emesso dagli enti previdenziali con il quale si fa venir meno il diritto, precedentemente riconosciuto a una prestazione, sia essa previdenziale o assistenziale, esclude che si possa parlare tecnicamente di revoca, intesa quale esercizio del potere discrezionale di apprezzamento e ponderazione degli interessi amministrativi .
Tale conclusione appare corretta, una volta che si esclude l’esistenza di qualsivoglia atto costitutivo del diritto da parte degli enti previdenziali. Enti che, come chiarito sopra, si limitano a constatare l’esistenza in ogni singola concreta fattispecie dei requisiti legislativamente previsti ai fini dell’accesso alla fruizione del diritto alla prestazione e alla sua fruizione tempo per tempo, versandosi in fattispecie di rapporti di durata, per i quali il legislatore prevede la verifica periodica del perdurare dell’esistenza o del requisito sanitario e/o del requisito reddituale, affidata agli enti previdenziali.
La Corte ha altresì ritenuto che gli approdi alla quale era pervenuta con riguardo alle prestazioni previdenziali, sia in tema di natura di atto di certazione all’atto amministrativo emesso dagli enti previdenziali, sia in tema di non comprensione fra i provvedimenti di revoca dell’atto amministrativo di soppressione della prestazione precedentemente riconosciuta, possano trovare applicazione anche con riguardo alle prestazioni assistenziali la cui gestione era affidata al Ministero.
Nella sentenza dell’11 aprile 2004, n. 2003, si afferma espressamente che l’affermazione della natura di atti di accertamento dell’esistenza o inesistenza dei diritto a prestazioni previdenziali o assistenziali erogate dagli enti previdenziali ha carattere generale ed è applicabile anche alle prestazioni assistenziali a carico del Ministero dell’Interno e al caso in cui un successivo controllo porti all’accertamento dell’inesistenza attuale della condizioni sanitarie per il riconoscimento del beneficio, nel caso di specie si trattava di domanda di ripristino indennità di accompagnamento revocata.
Nella successiva sentenza del 16.2.2006, la n. 3404, la piana applicazione dell’affermazione fatta dalla Corte di cassazione sin dal 1988 conduce sempre la Corte ad affermare l’applicazione dell’art. 149 disp. att. c.p.c. anche nelle controversie in materia di assistenza obbligatoria. Nella specie si trattava di richiesta di ripristino dell’assegno di invalidità civile, revocato a seguito di accertamento sanitario di controllo .
L’applicazione di tale regola anche nel campo delle prestazioni assistenziali gestite dal Ministero è giustificata anche richiamando l’art. 38 della Costituzione.
Disposizione questa che, secondo la motivazione utilizzata dal giudice della nomofilachia, induce a preferire soluzioni volte a riconoscere le prestazioni assistenziali solo in presenza di effettivi bisogni, e contestualmente a rifuggire da soluzioni suscettibili di creare ingiustificate disparità di trattamento nell’area di quanti dette prestazioni rivendicano, quale quella che finirebbe per crearsi – con riferimento ai requisiti per usufruire delle stesse – tra coloro che chiedono per la prima volta dette prestazioni e quanti invece, avendo queste già godute, ne pretendono un perdurante godimento pur in presenza di mutate (e più favorevoli) condizioni .
All’interno di tale ricostruzione si pone l’ulteriore questione della necessità o meno della presentazione di una nuova domanda amministrativa, ogni qual volta il destinatario dell’atto di rimozione della prestazione intenda contestarlo giudizialmente.
Sempre la ricognizione delle decisioni della Corte di cassazione porta alla conclusione che sino al 2014 non era mai stata consapevolmente portata all’attenzione della medesima la questione.
Ma, dalla lettura delle decisioni si evince che la stessa Corte ha dato quale esito scontato, strutturalmente connesso alla ricostruzione fatta dalla medesima e supra delineata, che era necessario presentare da parte del destinatario di un atto di certazione, di soppressione della prestazione che sino a quel momento ne aveva goduto, una domanda amministrativa prima di promuovere azione giudiziaria. La prima decisione in tal senso non riguarda la materia previdenziale, bensì la materia assistenziale e precisamente la domanda di ripristino dell’assegno mensile di invalidità. In questa decisione si afferma espressamente che la revoca dell’assegno di invalidità civile, per il sopravvenuto venir meno di una delle condizioni di esistenza del diritto, comporta l’estinzione del diritto medesimo; di conseguenza per il ripristino dell’assegno, per il quale occorre una nuova domanda amministrativa e l’instaurazione di un nuovo procedimento amministrativo, le condizioni di esistenza del diritto vanno verificate al momento della nuova domanda, trattandosi del riconoscimento di un nuovo diritto, del tutto diverso (anche se identico nel contenuto) da quello estinto per revoca .
La stessa conclusione, questa volta in giudizi riguardanti il ripristino della pensione sociale gestita dall’Inps, la si rinviene in due successive decisioni ove la Suprema Corte afferma che, una volta venuto meno uno dei requisiti costitutivi il diritto al riconoscimento della prestazione previdenziale, è indubbio che tale diritto possa sorgere nuovamente in un momento successivo, ma in tal caso, secondo i principi generali, occorre aver riguardo all’esistenza di tutti i fatti costitutivi tra cui la presentazione della domanda amministrativa, non potendosi ipotizzare – per il solo fatto che una volta quel diritto esisteva – la perpetuazione di quelli precedenti, non più validi ratione temporis .
La questione è invece consapevolmente risolta dalla Corte in una decisione del 2014, resa in tema di ripristino pensione per i ciechi civili . La Cassazione, preso atto che il ricorrente non aveva presentato domanda amministrativa e si era limitato a impugnare in sede giudiziale il provvedimento prefettizio di revoca della prestazione assistenziale, ha affermato che l’interessato era tenuto a presentare una nuova domanda amministrativa, condizione di proponibilità della domanda giudiziale, dovendosi altresì escludere che il venir meno di un requisito costitutivo del diritto comporti la mera sospensione del beneficio in godimento, in quanto il temporaneo venir meno di uno dei requisiti costitutivi comporta, secondo la regola generale, l’estinzione del diritto in godimento.
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A fronte di tale consolidato e motivato quadro interpretativo, si contrappone un nuovo modello che con riguardo alla legislazione ordinaria trova il suo snodo argomentativo nell’affermazione che il provvedimento di soppressione sia un provvedimento di revoca e quindi, al pari che per tutti i provvedimenti di revoca, per l’impugnazione di esso non necessita di una previa domanda amministrativa, disattendendo fra l’altro e solo per questa fattispecie la regola generale del sistema di sicurezza sociale che prevede la presentazione della domanda per il riconoscimento di qualsivoglia prestazione.
Regola questa che invece, anche secondo questo modello, troverebbe piana applicazione per tutte le altre fattispecie di controversie in tema di riconoscimento o disconoscimento di prestazioni previdenziali o assistenziali.
Annoverare il provvedimento di soppressione della prestazione previdenziale nella categoria “revoca” comporta affermare che tale atto sia un provvedimento discrezionale di apprezzamento e ponderazione degli interessi la cui tutela è affidata all’ente previdenziale, con evidente arretramento della posizione di tutela sinora fatta dall’ordinamento, secondo la ricostruzione pretoria dello stesso, ai possibili beneficiari di prestazioni previdenziali.
Ma, si osservi ancora, tale approdo non potrebbe evidentemente limitarsi ai soli provvedimenti di soppressione delle prestazioni assistenziali, ma dovrebbe estendere la sua efficacia a tutti i tipi di provvedimenti di revoca delle prestazioni previdenziali e assistenziali erogate dagli enti previdenziali, non rinvenendosi motivo di sorta alcuna che potrebbe limitare tale esito interpretativo alle sole fattispecie di soppressione della prestazione assistenziale.
Con evidente disapplicazione generalizzata, infine, nei confronti di un’individuata categoria di atto amministravo, che diverrebbe costitutivo e discrezionale in evidente distonia con tutti gli altri tipi di atti amministrativi emessi dagli enti previdenziali che rimarrebbero atti di certazione, per i quali varrebbero le regole pretorie costantemente applicate dalla giurisprudenza, con riferimento al tipo di attività giurisdizionale esercitabile.
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Individuata nei limiti dell’odierna trattazione la posizione della giurisprudenza di legittimità, tempo per tempo intervenuta e fatto cenno agli esiti ai quali si giungerebbe, accedendo invece alla tesi interpretativa prospettata nella decisione del 2020, è opportuno in questa fase soffermarsi sulla legislazione che attualmente disciplina l’istituto della revoca della prestazione di invalidità antecedentemente riconosciuta.
Con riguardo alle prestazioni previdenziali la disciplina di riferimento è rappresentata dall’art. 9 della legge 12 giugno 1984, n. 222.
Tale articolo innanzitutto riconosce in capo all’Inps il potere/dovere di sottoporre ad accertamenti sanitari il beneficiario dell’assegno ordinario di invalidità o della pensione di inabilità.
Se si accerta che le condizioni sanitarie che hanno dato luogo al riconoscimento della prestazione in essere, sono mutate, il legislatore riconosce in capo all’ente previdenziale il potere di emettere provvedimento di revoca o di riduzione della prestazione.
Si noti che l’istituto della sospensione della prestazione è previsto solo nell’ipotesi in cui l'interessato rifiuti, senza giustificato motivo, di sottoporsi agli accertamenti sanitari e per tutto il periodo in cui non è possibile da parte dell’ente procedere agli accertamenti stessi .
Con riguardo alle prestazioni assistenziali la disciplina a regime , per quel che attiene all’odierna questione, la si rinviene nell’art. 20 del d.l. 1.7.2009, n. 78, conv.to con modif.ni dalla l. 3.8.2009, n. 102, che affida all’Inps il compito di accertare l’esistenza dei requisiti sanitari nei confronti dei titolari di invalidità civile, cecità civile, sordità civile, handicap e disabilità.
Qualora tale verifica comporti la “comprovata insussistenza” dei requisiti sanitari, il legislatore affida sempre all’Inps il compito di emettere i conseguenti provvedimenti, rinviando per la disciplina di questa attività ad altro testo legislativo e precisamente al quinto comma dell’art. 5 del d.P.R. 21.9.1994, n. 698.
A sua volta il quinto comma dell’art. ult. cit. prevede, in caso di accertata insussistenza dei requisiti prescritti per il godimento di una delle menzionate prestazioni assistenziali, due modelli:
- il primo, di immediata sospensione cautelativa del pagamento della prestazione,
- il secondo e cronologicamente successivo di revoca della prestazione che produce i suoi effetti dal momento dell’accertata insussistenza dei requisiti .
La corte di cassazione ritiene che contro il provvedimento di sospensione del pagamento della prestazione, emesso dall’ente in attesa dell’emissione del provvedimento di revoca, il destinatario possa esperire azione giudiziaria, senza necessità alcuna di proporre domanda amministrativa e su tale constatazione delinea un ulteriore profilo argomentativo che giustifica la permanenza della soluzione sinora accolta dalla giurisprudenza di legittimità e di merito .
4. Conclusioni.
Giunti a questo punto dell’esposizione e constatato che la questione della proposizione o meno della domanda amministrativa, prima dell’esperimento di un’azione giudiziaria finalizzata al ripristino di una prestazione di invalidità rimossa, si pone all’interno di un quadro ricostruttivo più ampio, è da chiedersi se la soluzione proposta dalla Corte di cassazione nella sua ordinanza interlocutoria n. 15710 del 2020 approdi nel complesso e non limitatamente alla singola questione a risultati ampliativi della tutela sinora riconosciuta ai diritti previdenziali e assistenziali e ai soggetti beneficiari degli stessi; senza altresì condurre ad alterazioni del quadro generale di riferimento ove si innesterebbe la nuova regola.
Orbene, affermare che in sede di proposizione della domanda giudiziaria di ripristino della prestazione assistenziale non è necessaria la previa proposizione della domanda amministrativa, dato che si è davanti a un provvedimento di revoca direttamente ricorribile, al pari di qualsiasi altro provvedimento che promani da una pubblica amministrazione, comporta innanzitutto disconoscere il costante orientamento del giudice della nomofilachia, che ha qualificato gli atti amministrativi emessi nel campo della previdenza e dell’assistenza come atti di certazione, e che con specifico riguardo agli atti di soppressione della prestazione antecedentemente riconosciuta ha escluso poterli annoverare nella categoria della revoca.
Disconoscere la natura di atti di certazione, quanto meno all’atto soppressivo di questo tipo di prestazione, e assimilarlo a un provvedimento di revoca, comporta con riguardo al versante giudiziario che il processo non potrà avere quale oggetto il diritto alla prestazione, bensì l’esclusivo esame del provvedimento amministrativo di revoca e della legittimità o meno delle ragioni allo stesso sottese; con una diminuzione della tutela sinora riconosciuta ai beneficiari delle prestazioni, sia previdenziali sia assistenziali, come dimostrato retro.
Ancora e ampliando il campo d’indagine, la soluzione prospettata non potrebbe essere limitata alle sole prestazioni assistenziali, dato che attiene a una questione a rilevanza generale nel sistema di previdenza sociale, ma dovrebbe essere applicata, per necessità logico-giuridica e salvo l’esistenza di una disciplina espressa diversa, quanto meno a tutti gli atti amministrativi di soppressione di una prestazione previdenziale, prescindendo dalle ragioni che li sorreggono.
Se si giunge a tale approdo ricostruttivo, si avrebbero pertanto atti amministrativi di concessione e diniego della prestazione che resterebbero atti di certazione; atti questi ai quali si contrapporrebbe, in seno al sistema di sicurezza sociale, altra e diversa categoria di atti, quelli di soppressione della prestazione, che avrebbero natura costitutiva e discrezionale.
Differenziazione questa che, come dimostrato nelle precedenti pagine, ripercuoterebbe necessariamente i suoi effetti sulle modalità di tutela giudiziaria sinora ritagliate dalla giurisprudenza sulla categoria atto dichiarativo.
Ancora, la dicotomia radicata sull’accoglimento dell’opzione ermeneutica porterebbe, sempre con riguardo al versante processuale a predicare l’inapplicabilità della regola della necessarietà della domanda amministrativa prima della promozione dell’azione giudiziaria, pena la non proponibilità della stessa, solo al provvedimento di revoca delle prestazioni. Mentre per tutti gli altri tipi di provvedimenti emessi nel sistema di sicurezza sociale la regola resterebbe in essere e anche per tale aspetto appare del tutto immotivata la differenziazione.
Ma nonostante le evidenziate ricadute sistemiche alle quali condurrebbe l’accoglimento della tesi della diretta impugnazione giudiziale dell’atto di revoca (come definito nella più volte citata ordinanza interlocutoria), non resta che da chiedersi se tali effetti di alterazione del modello generale possano essere giustificati perché si raggiunge un livello ulteriore di tutela del singolo destinatario della revoca della prestazione che, in altro modo, non sarebbe raggiungibile.
Infatti, si legge, nelle decisioni che prospettano tale tesi, che l’accoglimento della stessa garantirebbe, in caso di esito favorevole, il riconoscimento del diritto ai ratei di prestazione maturati nel tempo intercorso fra la revoca dell’assegno e la riammissione al godimento del diritto. Mentre con la soluzione sinora applicata dalla medesima Corte, il beneficiario della prestazione si troverà nell’impossibilità giuridica di promuovere azione giudiziaria, per richiedere il pagamento dei ratei di prestazione maturati fra il momento di emissione del provvedimento di soppressione del beneficio e il momento di presentazione della domanda amministrativa; con l’introduzione di un effetto derogatorio del principio di cui all’art. 24 Costituzione, in questi termini testualmente, del quale – anche considerata la natura dei diritti coinvolti – non si ravvisa un ragionevole fondamento.
Le ragioni esposte dalla Corte a sostegno di tale nuovo modello di collegamento fra atto amministrativo di revoca e proposizione dell’azione giudiziaria non connesso dalla presentazione della domanda amministrativa presuppongono evidentemente che l’ordinamento non conosca al suo interno altri modelli di tutela che garantiscano a coloro che godono di una prestazione assistenziale lo stesso effetto, ovverosia la permanenza del diritto a fruire del rateo di prestazione nel lasso temporale intercorrente fra la soppressione del beneficio e il suo eventuale riconoscimento giudiziale.
La lettura del reticolato legislativo porta invece a evidenziare che tale tutela vi sia e la si rivenga nel potere pacificamente riconosciuto al destinatario dell’atto di sospensione della prestazione, atto necessario e precedente all’invio del successivo atto di soppressione. Il destinatario dell’atto di sospensione della prestazione ha la consapevolezza che a esso seguirà quale conseguenza giuridicamente necessitata l’invio dell’atto di soppressione della prestazione e l’ordinamento di sicurezza sociale riconosce allo stesso il diritto di agire in giudizio immediatamente, per contrastare tale provvedimento di sospensione e quindi garantendo la permanenza della fruizione del beneficio, in breve la continuità nella fruizione della prestazione economica.
A ciò si aggiunga, come riconosciuto dalla stessa Corte di cassazione, che in capo al beneficiario della prestazione assistenziale, ancor prima che si attivi l’ente previdenziale per la verifica della permanenza dei requisiti legittimanti la continuazione della fruizione della prestazione assistenziale, è riconosciuto il potere di presentare domanda amministrativa di verifica della permanenza dei requisiti di legge e tale domanda avrà rilevanza ai fini della proponibilità dell’eventuale domanda giudiziaria, in caso di esito negativo del procedimento amministrativo-medico-legale di verifica.
Si aggiunga infine, con valutazione però di fatto connessa al concreto operare del singolo, che non necessariamente, come prefigurato dalla corte nella sua ordinanza interlocutoria, fra la comunicazione del provvedimento di soppressione e la presentazione della domanda amministrativa debba esservi una cesura temporale che comporti la perdita irrevocabile di uno o più ratei mensile di prestazione. E tale considerazione di fatto si connette alla constatazione che la gestione dei rapporti fra enti previdenziali e singoli vede quali interlocutori istituzionali i patronati; soggetti specializzati ai quali l’ordinamento di sicurezza sociale ha da tempo affidato il compito di interloquire con gli enti previdenziali, rappresentando gli interessi dei singoli.
Pare pertanto potersi concludere che anche sotto tale versante, l’accoglimento della tesi della non necessità della presentazione della domanda amministrativa non conduca al raggiungimento di un livello di tutela prima sconosciuto al sistema. Sistema che già al suo interno garantisce lo stesso esito di tutela in capo a coloro che si vedono disconosciuta una prestazione in godimento.
L’ordinamento riconosce l’accesso alla tutela giudiziaria anche a questi soggetti, senza la prefigurata alterazione del diritto costituzionale ad agire in giudizio per la tutela del proprio diritto alla permanente fruizione, senza cesure temporali, della prestazione assistenziale in essere, tant’è che:
a) consente allo stesso di agire in giudizio non appena comunicata la sospensione della prestazione,
b) consente allo stesso di anticipare l’attività amministrativa di verifica della permanenza dei requisiti di legge, con la presentazione di una domanda amministrativa di verifica,
c) consente in ogni caso la proposizione dell’azione giudiziaria e quindi la tutela dei propri diritti, ancorché dopo la presentazione di domanda amministrativa, restando affidata al singolo la decisione del momento in cui presentare tale domanda all’ente previdenziale.
Pare conclusivamente che la ricognizione del tessuto legislativo ordinario e delle ragioni sottese all’applicazione che dello stesso ne ha sinora fatto la giurisprudenza depongano a favore della bontà della soluzione della necessità della domanda amministrativa anche in ipotesi di soppressione della prestazione in essere.
Né pare che tale assetto di interessi si ponga in contrasto con l’art. 38 della Costituzione, in specie il primo comma, come paventato nell’ordinanza interlocutoria.
La Corte di cassazione, sempre nella citata ordinanza, afferma che l’impronta solidaristica della sicurezza sociale non legittima, da parte dell’interprete, scostamenti da un assetto sistematico costituzionalmente teso ad arginare l’eventuale (progressivo) svuotamento della funzione di sostegno delle categorie più fragili affidata allo Stato; e a tale affermazione ne aggiunge altra secondo la quale la valutazione della progressiva scarsità di mezzi finanziari, correttamente intesa alla luce della tutela costituzionale dei diritti sociali, non può, tuttavia, spingersi oltre la pragmatica considerazione del fenomeno.
Tali affermazioni, pur astrattamente condivisibili, non pare conducano a ribaltare l’esito interpretativo a cui si è approdati con riferimento alla questione odierna, dato che la soluzione sinora applicata dalla giurisprudenza, come si spera avere dimostrato e contrariamente a quanto assunto, non conduce a una certa erosione della prestazione assistenziale riconosciuta sino al momento della revoca, dato che in seno all’ordinamento esistono modelli di tutela che garantiscono la permanenza della fruizione della prestazione anche nel lasso temporale intercorrente fra l’atto di soppressione della prestazione e l’eventuale disconoscimento giudiziale dell’erroneità di tale soppressione.
Con riguardo all’invocato parametro della solidarietà pare potersi ritenere che la Corte si riferisca alla solidarietà sociale di tipo verticale che è assicurata per il tramite dei diritti sociali.
Diritti questi che promuovono livelli minimi di uguaglianza sostanziale tramite la rimozione o almeno la riduzione delle diseguaglianze sociali connesse alle condizioni economiche e materiali di vita . Livelli minimi di uguaglianza sostanziale che attengono a tutti i possibili beneficiari degli stessi e che in questo frangente spesso si confrontano con la riduzione delle risorse a disposizione dello Stato per garantire gli stessi.
Aspetti questi che, traslati nella questione esaminata, hanno condotto la stessa Corte di legittimità a ritenere di potere confermare il proprio orientamento in considerazione che lo stesso risulta maggiormente rispettoso della ratio sottesa alle prestazioni assistenziali che, alla stregua dell’art. 38 Costituzione, induce a preferire soluzioni volte a riconoscere le prestazioni assistenziali soli in presenza di effettivi bisogni e a rifuggire da soluzioni suscettibili di creare ingiustificate disparità di trattamento nell’area di quanti dette prestazioni rivendicano .
Se la solidarietà sociale del quale si è fatto cenno si utilizza ai fini dell’individuazione dell’ambito di applicazione della tutela assistenziale prefigurata dal primo comma dell’art. 38 Cost., pare potersi affermare che la tutela assistenziale passa attraverso la garanzia di prestazioni economiche e servizi che garantiscano condizioni di vita dignitose ai soggetti individuati nel menzionato comma , sempre tenendo conto che per apprestare beni e servizi di tal fatta è necessario confrontarsi con il tema delle risorse pubbliche disponibili.
Se questo è il quadro di riferimento, è approdo incontrovertibile che il livello minimo di tutela è costituito dalla garanzia da un verso di accesso a tali tipi di prestazioni nei confronti di tutti coloro che hanno i requisiti di legge e ancora e da altro verso di permanenza nella fruizione di tali prestazioni, se persistono i requisiti di legge. Garanzia di diritto sostanziale che, con riguardo al profilo giudiziario, si invera nella possibilità di tutelare tali posizioni soggettive pretensive nei confronti di atti amministrativi che ne negano l’esistenza ab origine o nel corso della loro esistenza. Orbene pare che l’ordinamento di sicurezza sociale garantisca sia con riguardo all’accesso alle prestazioni in discorso sia con riguardo alla permanenza della loro fruizione, previa verifica periodica di permanenza in capo al beneficiario dei requisiti legislativamente previsti, tali profili minimi di tutela.
Al di sopra di tale livello minimo di garanzia, pare si ponga invece la questione qui dibattuta, allorché come constatato la tutela del rapporto di durata che garantisce la prestazione di durata è in ogni caso apprestata dall’ordinamento. Tutela questa che, proprio al fine di garantire la permanenza della fruizione della prestazione in un frangente durante il quale e secondo gli accertamenti compiuti dall’ente previdenziale non se ne avrebbe diritto, prevede una tutela di tipo anticipatorio affidata allo stesso beneficiario, da attivare. Tutela che si concretizza ancor prima non solo dell’emissione dell’eventuale provvedimento di soppressione della prestazione ma, risalendo nella procedura, si concretizza anche nel potere del singolo di sollecitare la verifica della permanenza delle condizioni di legge, ancor prima che l’ente previdenziale dia l’avvio alle procedure amministrative medico-legali.
A fronte del delineato quadro di tutela amministrativa e giudiziaria, antecedente all’emissione del provvedimento di soppressione della prestazione e finalizzata proprio ad annullare l’effetto economico di questo provvedimento, non pare pertanto che si possa parlare di arretramento della solidarietà sociale, anzi proprio tali strumenti dimostrano che il legislatore e la Corte regolatrice hanno ben presenti tali esigenze di tutela; senza però che il loro apprestamento conduca all’alterazione del quadro generale di riferimento in tema di natura degli atti emessi dagli enti previdenziali e di strumenti di tutela giudiziaria e non apprestati in seno all’ordinamento previdenziale in favore dei singoli destinatari dei medesimi.