Testo integrale con note e bibliografia
1. L’accordo non aggiunge gran che a quanto è già desumibile dal quadro normativo
Non è fuori luogo chiedersi quale significato debba essere attribuito al protocollo sottoscritto il 7 dicembre scorso tra le associazioni sindacali e imprenditoriali e il ministro del Lavoro, per delineare il nuovo quadro normativo nel quale dovrà svolgersi il cosiddetto lavoro agile dal momento – si spera ormai prossimo – in cui cesserà il regime di emergenza inaugurato nel marzo 2020 per fronteggiare l’epidemia da Covid. L’interrogativo nasce dal fatto che l’accordo non contiene disposizioni che abbiano un apprezzabile contenuto pratico aggiuntivo rispetto a quanto previsto dalla legge (n. 81/2017), che da quattro anni disciplina compiutamente la materia, o comunque dal diritto del lavoro vigente. Esaminiamone il contenuto articolo per articolo.
L’articolo 1 ribadisce il principio della volontarietà di questa forma di organizzazione del lavoro, già sancito dall’articolo 19 della legge: principio che si concreta nella necessità di una pattuizione individuale in proposito tra prestatore e datrice di lavoro. La disposizione ricalca il dettato legislativo anche per quel che riguarda l’indicazione dei contenuti necessari della pattuizione. Il secondo comma, anche qui ricalcando il dettato legislativo, menziona “il diritto di recesso ivi [cioè nella pattuizione individuale] previsto”: formulazione che potrebbe essere intesa nel senso della necessità della sua previsione esplicita nell’accordo che attiva il lavoro agile, se non fosse che l’articolo 19 della legge regola la materia in un modo che sembra escludere che la mancata menzione del recesso nell’accordo faccia venire meno la relativa facoltà. Va detto semmai che il protocollo interconfederale avrebbe potuto costituire la sede per un chiarimento circa la validità della clausola, contenuta nella pattuizione individuale, che limiti la facoltà di recesso del datore o di entrambe le parti; ma l’occasione non è stata colta.
Il quarto comma dell’art. 1 precisa che il “lavoro agile differisce dal telelavoro cui continua ad applicarsi la vigente disciplina normativa e contrattuale, ove prevista”; giova ricordare in proposito come per telelavoro si intenda una forma di organizzazione della prestazione lavorativa che presuppone l’istallazione presso il domicilio della persona interessata di una postazione fissa di lavoro fornita dall’impresa, collegata stabilmente con l’organizzazione aziendale: si ricordano alcuni contratti collettivi che l’hanno prevista e disciplinata, ma non una disciplina legislativa specifica.
2. Segue. Le disposizioni in tema di disconnessione, reperibilità, diritto al riposo e lavoro straordinario
Neppure sul tema caldo della disconnessione e della reperibilità, nel quadro del diritto al riposo giornaliero e settimanale, l’accordo contiene novità di rilievo rispetto all’accenno contenuto in proposito nell’articolo 19 della legge. Gli articoli 2 e 3 si limitano a menzionare l’esistenza del diritto alla disconnessione, rinviando all’eventuale contrattazione aziendale e in ogni caso alla negoziazione individuale tra prestatore e datore di lavoro la precisazione delle sue modalità di esercizio. Ma né in tema di disconnessione, né in tema di reperibilità, dettano alcuna disciplina di default: non dicono, cioè, che cosa accade in mancanza di un accordo in proposito (difficilmente, del resto, avrebbero potuto farlo sul piano generale, stante l’estrema varietà delle situazioni nelle quali questo diritto deve essere esercitato). Il secondo comma dell’art. 3 prevede che, in regime di “lavoro agile”, la prestazione possa essere articolata in fasce orarie; è il caso del lavoro a distanza con vincolo di orario di disponibilità per il collegamento telefonico o video o comunque di reperibilità; in questo caso, come era già agevolmente desumibile dall’art. 19 della legge n. 81/2017, deve essere precisata la fascia oraria di disconnessione, pena la non contestabilità al dipendente dell’eventuale mancata risposta alla chiamata.
Una disposizione di impatto rilevante sembrerebbe essere quella contenuta nel quarto comma dello stesso art. 3, che apparentemente vieta il lavoro straordinario nell’ambito del lavoro agile. Senonché questo divieto, se inteso come tale, a ben vedere non ha alcun senso. Ipotizziamo che un’azienda chieda a una dipendente in smart working di accollarsi un carico di lavoro eccedente il normale e che le parti si accordino per un corrispondente compenso aggiuntivo in forma di retribuzione di lavoro straordinario; una norma che lo vietasse sarebbe evidentemente irragionevole e dunque incostituzionale. Il significato di questa disposizione, e dunque il contenuto pratico che possiamo attribuirle, si trae dall’esigenza che ha indotto le parti a inserirla nel protocollo: le imprese, trovandosi con una certa frequenza di fronte alla rivendicazione di retribuzioni per lavoro straordinario da parte di dipendenti che asseriscono di averlo dovuto eseguire, per arginare tali richieste sono solite stabilire dei “divieti di lavoro straordinario non autorizzato”, coniugati con una regolazione rigorosa delle autorizzazioni che possono essere date ai dipendenti dai preposti. La regola inserita nel protocollo è stata modellata esattamente su queste disposizioni aziendali. Essa dunque può e deve essere interpretata nel senso che il lavoratore in smart working non potrà, di regola, rivendicare retribuzione aggiuntiva in relazione a ore di lavoro straordinario, anche perché nessun controllo viene esercitato sull’estensione temporale della prestazione di lavoro agile; ma la disposizione non può certo essere intesa nel senso della nullità di accordi tra lo stesso dipendente e l’organo aziendale competente per una retribuzione aggiuntiva in relazione a un carico di lavoro riconosciuto come superiore al normale.
Un’altra disposizione cui a prima vista potrebbe attribuirsi un contenuto pratico rilevante è quella contenuta nel sesto comma dell’art. 3, che apparentemente istituisce in capo ai dipendenti una sorta di “diritto al lavoro agile”. La portata pratica della clausola, però, è fortemente ridotta dalla delimitazione del suo campo di applicazione, che è costituito dai soli reparti in cui il lavoro agile viene attivato, ma è azzerata dalla necessità comunque dell’accordo individuale, ribadita nella stessa disposizione: questa non fa dunque che confermare la possibilità di rifiuto da parte della datrice di lavoro.
3. Segue. Le disposizioni in tema di scelta del luogo e fornitura degli strumenti di lavoro
Nell’ articolo 4 viene menzionato il limite alla libertà di scelta del luogo di lavoro, costituito dalla necessità di protezione del diritto dell’imprenditore alla non circolazione delle notizie riservate e del suo diritto al segreto aziendale e professionale. Questa limitazione della libertà dello smart worker deve comunque considerarsi, anche in assenza di questa disposizione contrattale, come un corollario dell’art. 2105 c.c. e degli artt. 622 e 623 c.p.: il lavoratore è sempre tenuto a garantire il riserbo e il segreto, non solo sulle notizie che possano essere oggetto di sfruttamento indebito da parte delle imprese concorrenti, ma anche su quelle coperte dall’obbligo di segreto professionale e scientifico-industriale.
L’articolo 5 prevede che la strumentazione necessaria per il lavoro a distanza – soprattutto personal computer e connessione alla rete – sia di norma fornita dall’imprenditore. Si conferma però esplicitamente (comma 2) la validità della pattuizione inversa, che ben potrebbe essere richiesta dalla datrice di lavoro come condizione per l’accordo sul lavoro agile, quando a proporlo sia la persona interessata; e deve considerarsi valida anche la pattuizione in questo senso che si concreti nel comportamento concludente delle parti (si pensi al caso in cui, pur in assenza di alcun cenno al riguardo nell’accordo scritto originario, la prestazione a distanza si svolga per un tempo apprezzabile mediante strumenti e connessione web di cui il lavoratore disponeva anche in precedenza). Per il primo caso il comma 5 stabilisce che “tutta la strumentazione tecnologica e informatica fornita dal datore di lavoro deve essere conforme alle disposizioni del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81; così implicitamente liberando il datore stesso da responsabilità per il caso in cui, essendo invece il dipendente a provvedersi autonomamente dell’attrezzatura necessaria, questa risulti non conforme agli standard ergonomici e di sicurezza stabiliti dalla legge.
4. Le norme sbagliate contenute nella legge che non vengono corrette dal protocollo
Si arriva così, con l’articolo 6, al capitolo tormentato della sicurezza del dipendente, dove a me sembra che il protocollo perda la grande occasione per correggere due errori contenuti nella legge n. 81 del 2017. Il primo è l’imposizione al datore, contenuta nell’articolo 22 del testo legislativo, dell’obbligo di informazione scritta annuale sui rischi generici e specifici di questa forma di organizzazione del lavoro. Quand’anche potesse prescindersi – ma non vedo come si possa – dall’assurdità di questo obbligo di reiterare annualmente il catalogo dei rischi generici (sui quali, in quanto tali, dovrebbe allora essere obbligatoriamente attirata l’attenzione anche di tutti gli altri dipendenti, sempre con cadenza annuale e in forma scritta), nonché dalla estrema difficoltà per non dire impossibilità di individuare i rischi specifici del lavoro agile (della quale ho già scritto altrove: lavoce.info, 20 marzo 2020), dovrebbe comunque considerarsi che il lavoro agile può per diversi aspetti essere visto come un anello di congiunzione tra il tipo legale del lavoro subordinato e quello del lavoro autonomo: è un modo di lavorare che la legge qualifica come compatibile con la struttura del rapporto di lavoro subordinato, ma che di fatto ha tutte le caratteristiche proprie del lavoro autonomo, a cominciare dall’esenzione del prestatore dal vincolo del coordinamento spazio-temporale e dalla sua recuperata libertà di autoorganizzazione. Così come, dunque, apparirebbe assurdo imporre al committente, in un rapporto di collaborazione autonoma continuativa, un obbligo di informazione del prestatore sui rischi generici e specifici della sua attività, allo stesso modo è assurdo imporlo al datore nei confronti del prestatore di lavoro agile. Par di vedere nell’imposizione di questo adempimento burocratico, un colpo di coda del diritto del lavoro novecentesco contro la tendenza inequivocabile del sistema delle relazioni industriali del nuovo secolo verso una separazione meno netta tra autonomia e subordinazione, verso una maggiore possibilità di osmosi tra di esse e verso una maggiore assimilazione della posizione del lavoratore dipendente a quella del collaboratore autonomo.
Stesso discorso in riferimento al terzo comma dell’articolo 6, contenente la regola secondo cui “la prestazione effettuata in modalità di lavoro agile deve essere svolta esclusivamente in ambienti idonei, ai sensi della normativa vigente in tema di salute e sicurezza ecc.”. Come se il datore di lavoro fosse legittimato a verificare che il prestatore non si azzardi a svolgere il proprio lavoro in treno o in aereo (perché il sedile e il tavolinetto forniti dal vettore non soddisfano gli standard ergonomici prescritti), oppure nella cucina di casa perché il piano del tavolo è troppo alto e la luce non arriva dalla parte giusta, o seduto su un ciocco di legno in mezzo a un bosco, e così via. Disposizioni come questa possono essere espressione soltanto di un sistema di relazioni industriali mal funzionante, che si lascia scrivere gli accordi da uffici ministeriali molto lontani dal lavoro reale.
Più giustificata è la disposizione che impone al prestatore di scegliere, per lo svolgimento della prestazione, luoghi compatibili con la protezione dei dati riservati aziendali: regola questa che comunque sarebbe agevolmente desumibile dall’art. 2105 c.c. e dagli artt. 622 e 623 c.p.
Ma il colpo di coda dell’ordinamento novecentesco più carico di significato, contro la tendenza evidente del diritto del lavoro contemporaneo a sfumare progressivamente la linea di confine tra subordinazione e autonomia, è quello contenuto nell’articolo 23 della legge n. 81/2017 in materia di assicurazione antinfortunistica, che l’articolo 7 del protocollo immancabilmente e acriticamente conferma, perdendo così un’occasione d’oro per correggere l’errore. A quale rischio maggiore, rispetto ai normali rischi della vita domestica quotidiana, sia esposta una persona che svolge la propria prestazione mediante computer collegato via web con l’organizzazione aziendale, è cosa che a distanza di quattro anni dall’entrata in vigore della legge neppure l’Inail è stato in grado di spiegare. Ma è ancora più difficile spiegare la ragione dell’estensione dell’assicurazione Inail al tragitto fra l’abitazione e il luogo diverso eventualmente scelto dalla persona stessa per svolgervi la prestazione: si tratta di un tipico “rischio elettivo”, cioè liberamente scelto, sul quale la datrice di lavoro non può esercitare alcun controllo, al quale dunque non ha alcun senso estendere l’assicurazione obbligatoria.
Vi sarebbero, viceversa, degli ottimi motivi per correggere l’errore commesso con la legge del 2017: è assai probabile che col diffondersi del lavoro agile questa estensione dell’assicurazione obbligatoria finisca col diventare un moltiplicatore degli abusi, con conseguente aggravio indebito del premio assicurativo sulle imprese interessate. E poiché la statistica dice che prevedibilmente gli abusi saranno più frequenti al sud, questo penalizzerà la diffusione del lavoro agile nel Mezzogiorno del Paese: lì le imprese cercheranno di limitarla il più possibile.
Anche altre disposizioni contenute nel protocollo costituiscono sostanzialmente una specificazione di principi e regole già desumibili dall’ordinamento previgente: in particolare quella (articolo 8) relativa all’esercizio dei diritti sindacali anche nell’ambito del rapporto di lavoro che preveda un parte della prestazione svolga in modalità a distanza e quelle (articolo 12) che ribadiscono la protezione dei dati personali e il diritto dell’imprenditore al riserbo sui dati aziendali che possano essere oggetto di sfruttamento indebito da parte di imprese concorrenti (art. 2105 c.c.) o il suo diritto al segreto su notizie riservate conosciute dal dipendente per ragione del suo ufficio (artt. 622 e 623 c.p.). A proposito di quest’ultimo articolo una domanda: ma è proprio obbligatoria la grandinata di termini inglesi – privacy by design e by default, security by design, data breach, piani di backup, protezione malware – che infarciscono la disposizione?
Un diritto del dipendente alla formazione è enunciato nell’articolo 13; ma non ne viene in alcun modo definito né l’aspetto quantitativo né quello qualitativo.
Nell’articolo 15 è contenuto il curioso auspicio che venga istituito dalla legge un incentivo a carico dell’Erario per promuovere la contrattazione aziendale sulla materia: una confessione un po’ sconcertante di non autosufficienza dell’ordinamento intersindacale. Che è al tempo stesso manifestazione di un singolare difetto di informazione degli uffici che hanno curato la stesura del protocollo, i quali mostrano di ignorare la previsione contenuta nel comma 182 dell’articolo unico della legge n. 208/2015 (finanziaria 2016), tuttora in vigore, che dispone l’applicazione dell’imposta sostitutiva dell'Irpef pari al 10 per cento ai “premi di risultato di ammontare variabile la cui corresponsione sia legata ad incrementi di […] qualità, efficienza ed innovazione”: un incentivo già previsto dalla legge vigente, dunque, che chiede soltanto di essere utilizzato più diffusamente proprio per premiare gli incrementi di produttività ottenuti mediante contratti aziendali che promuovano l’attivazione del lavoro agile.
Un’osservazione critica merita anche l’articolo 9 del protocollo, in materia di parità di trattamento e pari opportunità, in particolare per quel che riguarda l’apparente divieto di differenziare il trattamento retributivo. Il principio generale della parità di trattamento, come è noto, impone di trattare in modo uguale situazioni uguali, ma non vieta affatto di trattare in modo diverso situazioni diverse, quando l’elemento di diversità sia oggettivamente rilevante nell’economia del programma contrattuale e non rientri fra quelli che devono essere ignorati in virtù di un divieto di discriminazione. Ora, l’aspetto per cui la situazione di chi lavora a distanza si differenzia in modo sostanziale da quella del prestatore vincolato al coordinamento spazio-temporale consiste per lo più nell’impossibilità di misurare la quantità del lavoro sulla base della sua estensione temporale; non si vede, dunque, come possa escludersi che per accordo tra le parti il criterio di determinazione della retribuzione della prestazione da remoto si differenzi parzialmente, proprio in considerazione di questo dato strutturale, dal criterio che si applica in riferimento alla prestazione organizzata secondo il criterio tradizionale. Così, per esempio, logica vorrebbe che fosse consentito introdurre nel corrispettivo relativo alla prestazione agile un elemento retributivo commisurato a uno o più determinati risultati produttivi. La stipulazione di questo protocollo interconfederale avrebbe ben potuto costituire l’occasione per chiarire il se e il come di questa possibile differenziazione.
5. Dove sta l’aspetto più significativo dell’accordo
In conclusione, non si può dire che il protocollo del 7 dicembre si caratterizzi per un contenuto innovativo rispetto alla disciplina legislativa vigente: le disposizioni il cui contenuto pratico risulti effettivamente rilevante, in quanto aggiunge qualche cosa rispetto a quanto già desumibile dal contesto normativo, sono pochissime e di modesto rilievo. Il protocollo, ciononostante, è significativo perché indica una volontà comune delle parti nel senso di non ostacolare, ma al contrario promuovere lo sviluppo post-pandemico del lavoro agile. Le associazioni imprenditoriali – Confindustria in testa –, non ritenevano questo accordo necessario e ne avrebbero fatto volentieri a meno; tuttavia non hanno opposto resistenza al ministro del Lavoro, che voleva dare un segnale favorevole al consolidarsi di questa forma di organizzazione del lavoro, anche in considerazione del suo forte impatto positivo sulla presenza delle donne nel tessuto produttivo. Per altro verso, è merito del ministro stesso aver disatteso la richiesta proveniente dai sindacati di un nuovo intervento legislativo, rendendosi conto che c’era poca materia per una nuova legge in aggiunta a quella che già da quattro anni regola compiutamente questa forma di organizzazione del lavoro.
Va infine sottolineato un aspetto di questo protocollo che – nonostante l’assenza di disposizioni particolarmente innovative – fa di esso una tappa importante nell’evoluzione del nostro sistema delle relazioni industriali: è la prima volta, a quanto mi consta, che in un accordo interconfederale viene dedicato un articolo apposito a sancire la piena sovranità dell’autonomia negoziale individuale su un aspetto del rapporto di lavoro, sovranità che viene poi più volte ribadita in altre parti del documento, salvo enunciare doverosamente anche la necessità di proteggere la libertà effettiva delle persone nell’esercizio di questa prerogativa.
L’autonomia negoziale individuale, cioè la possibilità per la singola persona di contrattare validamente con l’azienda un aspetto del rapporto di lavoro, in qualche misura è sempre esistita. Sono sempre state oggetto di una pattuizione individuale, per esempio, il patto di prova, quello di non concorrenza, quello di reperibilità fuori orario di lavoro, tutta la parte della retribuzione eccedente il minimo tabellare. E l’autonomia negoziale individuale del prestatore su un capitolo rilevantissimo del contratto di lavoro ha avuto una sanzione esplicita nel 1984 con il riconoscimento legislativo del lavoro a tempo parziale; ma proprio in quell’occasione si era registrata una forte opposizione da sinistra nella fase di gestazione della norma, poi un tentativo di “contenimento” della sua portata mediante regolamentazioni rigide in sede collettiva delle forme possibili del part-time e/o di un suo rigido contingentamento, anche in considerazione del possibile suo impatto differenziato a danno del lavoro femminile. Ora, invece, in riferimento al lavoro agile queste diffidenze sono cadute: un protocollo interconfederale riconosce e protegge la piena libertà della persona che vive del proprio lavoro di negoziarne con l’azienda un aspetto organizzativo di grande importanza. Al di là del rituale omaggio alla contrattazione collettiva contenuto nella premessa del protocollo, nella sua parte concretamente dispositiva l’autonomia negoziale individuale assume un ruolo centrale e le parti si impegnano a difendere la libertà effettiva necessaria alla persona per esercitarla. La capite deminutio del lavoratore, cioè la sua radicale giuridica incapacità di gestire validamente i propri interessi, sembra essere ormai cosa del secolo passato.