Testo integrale con note e bibliografia
1. Il nomos della (de-)localizzazione.
Da quando lo Stato (o l’ordinamento giuridico), di fronte ai processi di globalizzazione, ha iniziato a perdere sovranità e capacità di controllo sul sistema sociale di produzione, la mobilità del capitale è assurta ad elemento cardine di un nuovo nomos della terra, basato sulla libertà di localizzazione dell’impresa in ragione di una valorizzazione economica ormai del tutto svincolata – nelle democrazie avanzate dell’occidente – dai compromessi keynesiani e fordisti che hanno caratterizzato il XX secolo. Ne è scaturito un processo di sfruttamento del lavoro su scala mondiale senza precedenti, in cui si imposta la giustizia di Trisimaco, secondo il quale il giusto è l’utile di chi è superiore (Platone, La Repubblica, I, 1095). Ora che, per ragioni ancora non del tutto chiare, gli Stati nazionali sembrano ritrovare un qualche vigore, ambiguamente mescolato con le ideologie politiche sovraniste e le tendenze economiche protezioniste, si moltiplicano in Europa le proposte di legge per arginare il fenomeno delle delocalizzazioni di attività produttive. Si cerca, insomma, con strumenti invero assai esili, di contrastare la giustizia di Trisimaco, promuovendo una disciplina volta a responsabilizzare le imprese: dalla Francia (loi nº 1473 “visant à l'obligation de réindustrialisation par les entreprises procédant à une délocalisation”) all’Italia (due proposta di legge, su cui v. infra), si prova a contrastare un fenomeno che colpisce i paesi ad economia avanzata ed i sistemi sociali ancora robusti, nonostante la forte pressione deregolativa indotta dalla concorrenza internazionale, in una logica di race to the bottom. La scelta dell’impresa di delocalizzare all’estero è infatti dettata principalmente da ragioni economiche legate alle differenze di costo del lavoro tra i paesi occidentali e le economie emergenti, dove il differenziale salariale raggiunge valori molto alti; assieme al costo del lavoro incidono, poi, naturalmente, valutazioni relative alla flessibilità della manodopera, favorita dalla debolezza della legislazione sociale nei paesi scelti per realizzare i processi di delocalizzazione. In questo scenario gli ostacoli tradizionali, consistenti nella distanza fisica e nei costi di trasporto, sono stati ormai ridotti da un processo di globalizzazione che ha reso questi fattori sempre meno rilevanti nelle scelte di de-localizzazione produttiva.
2. Le proposte di legge.
Per quanto riguarda il nostro paese, il legislatore è intervenuto per contrastare il fenomeno delle delocalizzazioni produttive sia nell’ambito della legge 27 dicembre 2013, n. 147 (legge di stabilità 2014), sia con il decreto-legge 12 luglio 2018, n. 161, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 agosto 2018, n. 96, cosiddetto decreto Dignità.
La legge di stabilità 2014 prevedeva alcune norme sulla decadenza dai benefici ricevuti per le imprese che delocalizzano la propria produzione (commi 60 e 61 dell'articolo 1). Ai sensi di queste disposizioni qualora le imprese italiane ed estere, operanti nel territorio nazionale e beneficiarie di contributi pubblici in conto capitale, delocalizzino la produzione dal sito incentivato in un Paese non appartenente all'Unione europea, con conseguente riduzione del personale di almeno il 50 per cento, decadono dal beneficio con l'obbligo di restituire i contributi in conto capitale ricevuti.
E’ noto che tali disposizioni non hanno avuto alcun impatto positivo nel contrastare il fenomeno della delocalizzazione: per questo motivo gli estensori del DDL S. 2021 recante Misure per il contrasto alle delocalizzazioni e la salvaguardia dei livelli occupazionali propongono di inserire in quel corpus normativo tre nuovi articoli: anzitutto l’art. 4-bis, per meglio definire la nozioni di “contributo in conto capitale” (inserendo in tale dizione credito d'imposta, bonus fiscale, concessione di garanzia, contributo in conto capitale, contributo in conto interessi e finanziamento agevolato) e di “delocalizzazione” (id est l’avvio, entro cinque anni dalla concessione di un contributo in conto capitale, presso un’unità produttiva ubicata in uno Stato estero anche appartenente all’Unione europea, della produzione di uno o più prodotti già realizzati, con il sostegno pubblico, presso un’unità produttiva ubicata in Italia, da parte della medesima impresa beneficiaria del contributo stesso o di altra impresa con la quale vi sia un rapporto di controllo o collegamento ai sensi dell’art. 2359 c.c., in concomitanza con la riduzione dei livelli produttivi presso la predetta unità in Italia e la conseguente riduzione dell’occupazione, anche laddove la delocalizzazione avvenga tramite cessione di ramo d'azienda o di attività produttive appaltate a terzi, con riduzione o messa in mobilità del personale dell'impresa). In secondo luogo l’art. 4-ter, che dispone che le pubbliche amministrazioni provvedono ad acquisire dai soggetti beneficiari del contributo, in occasione di ciascuna erogazione dell’agevolazione, una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, nella quale sia attestata l’assenza di delocalizzazione e venga assunto l'impegno a comunicare tempestivamente alle predette amministrazioni l’eventuale delocalizzazione, nonché a restituire il contributo. L’articolo 4-quater istituisce il Nucleo operativo per il contrasto alle delocalizzazioni degli impianti produttivi presso il Ministero dello sviluppo economico, deputato ad effettuare il monitoraggio delle delocalizzazioni di impianti produttivi da parte delle imprese italiane ed estere, operanti nel territorio nazionale, che hanno beneficiato di contributi pubblici in conto capitale e dei risultati delle procedure per la restituzione dei benefici fruiti, informando periodicamente le pubbliche amministrazioni interessate e le Camere sui risultati di tale monitoraggio. Infine l’art. 6-bis istituisce, presso il Ministero dello sviluppo economico, un Fondo per il sostegno alla formazione di cooperative di lavoratori con una dotazione di 500 milioni di euro, destinato a supportare le nuove cooperative costituite da lavoratori dipendenti che intendano riscattare l'azienda subentrandone nella gestione per il mantenimento della continuità produttiva, qualora si tratti di piccole e medie imprese che versano in gravi difficoltà di produzione e di commercializzazione dei prodotti, con immanente pericolo di chiusura, che abbiano avviato procedure di delocalizzazione delle attività produttive.
Pur consapevoli che le norme contenute nel Decreto Dignità non hanno sortito effetti dissuasivi nei confronti delle delocalizzazioni - le quali non solo non sono cessate, ma hanno assunto proporzioni ancor più drammatiche -, gli estensori del DDL in esame ritengono di rimanere sul solco della legge vigente, cercando di rendere più incisive le norme del capo II del decreto Dignità volte a sanzionare le società che delocalizzano avendo usufruito di agevolazioni da parte dello Stato italiano. V’è da chiedersi se queste norme possano avere un impatto decisivo sulla strategia normativa sin qui intrapresa. Il dubbio è lecito, considerando che, in una logica di globalizzazione, le imprese che delocalizzano sono spinte da ragioni economiche e finanziarie che vanno bel oltre la strategia di un free rider che intende sommare i vantaggi di una precedente localizzazione nel nostro paese (con annesso contributo in conto capitale) e quelli di una nuova de-localizzazione verso lidi più consoni alla riduzione dei costi sociali. Come dire che la sacrosanta lotta alla strategia immorale del take an go presenta limiti evidenti di efficacia nella prospettiva, invero ancora del tutto assente nel nostro ordinamento, di un disegno unitario e strutturato di strumenti volti a prevenire le delocalizzazioni: anzitutto perché le norme vigenti (e quelle che si propone di adottare) non intaccano in alcun modo la “radice originaria del processi di delocalizzazione” , ovvero i differenziali salariali e le condizioni di impiego, che rimangono la vera molla che spinge il capitale socialmente irresponsabile a farsi mobile sullo scacchiere globale; in secondo luogo perché limitano il loro raggio di azione alle imprese che abbiano beneficiato di fondi pubblici, laddove nessun vincolo normativo viene previsto se l’impresa opportunisticamente delocalizza la produzione senza aver goduto nei cinque anni precedenti della concessione di un contributo in conto capitale.
3. Segue.
Il secondo disegno di legge (2206/2021) recante Disposizioni per sostenere i livelli occupazionali e produttivi e per contrastare la pratica della delocalizzazione delle attività produttive è ispirato ad una diversa tecnica di controllo, che possiamo definire di procedimentalizzazione del potere di delocalizzare. In questa prospettiva, assai più vincolistica, l’impresa che intende muoversi verso territori più attrattivi è tenuta a darne comunicazione preventiva al Ministero del lavoro e delle politiche sociali, al Ministero dello sviluppo economico, all’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro (ANPAL), alla regione in cui è situato il sito produttivo e alle rappresentanze sindacali aziendali costituite ai sensi dell’articolo 19 della legge 20 maggio 1970, n. 300, o alle rappresentanze sindacali unitarie, nonché alle rispettive associazioni di categoria, indicando le ragioni economiche, finanziarie, tecniche o organizzative del progetto di chiusura, il numero e i profili professionali del personale a qualunque titolo utilizzato o impiegato nell’attività di impresa e il termine entro cui è prevista la chiusura. Tale comunicazione preventiva deve essere effettuata prima dell’eventuale avvio della procedura di licenziamento collettivo ai sensi della legge 23 luglio 1991, n. 223; ma ciò che più rileva è che l’avvio della procedura di riduzione del personale è preclusa fino al termine della procedura in oggetto. L’impresa deve redigere un complesso piano aziendale, comprensivo delle prospettive di cessione dell’impresa o dei compendi aziendali con finalità di continuazione dell’attività e garanzia di mantenimento dei livelli occupazionali e dei trattamenti economici e normativi; b) le prospettive di ricollocazione del personale in altri siti produttivi della medesima impresa, collocati a non più di 40 chilometri di distanza dal sito di cui si prevede la chiusura, anche prevedendone ampliamenti ecologicamente sostenibili; c) le azioni programmate per la salvaguardia dei livelli occupazionali e gli interventi per la gestione non traumatica dei possibili esuberi, quali la ricollocazione presso un’altra impresa e le misure di politica attiva del lavoro, quali servizi di orientamento, assistenza alla ricollocazione, formazione e riqualificazione professionale, finalizzati alla rioccupazione; d) gli eventuali progetti di riconversione del sito produttivo, anche per finalità socio-culturali a favore del territorio interessato, che devono prevedere la possibilità di riconversione ecologica dell’impresa, con la prosecuzione dell’attività e con il mantenimento della dimensione occupazionale; e) i tempi, le fasi e le modalità di attuazione delle azioni previste. Una “struttura per le crisi d’impresa” convoca l’impresa per l’esame, discussione e ed eventuale modifica del piano, con la partecipazione dell’ANPAL, della regione in cui è situato il sito produttivo interessato dal progetto di chiusura e delle organizzazioni sindacali, concludendo l’esame del piano entro sessanta giorni dalla data della sua presentazione. La struttura approva il piano qualora dall’esame complessivo delle azioni in esso contenute siano garantiti gli obiettivi di salvaguardia dei livelli occupazionali o di prosecuzione dell’attività produttiva mediante la rapida cessione dei compendi aziendali, mentre, in assenza di una comprovata situazione di crisi ovvero di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario ai sensi del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14) la struttura per le crisi d’impresa non approva il piano che prevede esuberi e richiede di riconfigurarlo escludendo, in ogni caso, la possibilità di esuberi. Nei casi in cui il piano preveda la cessione dell’impresa o dei compendi aziendali, la struttura per le crisi d’impresa, con l’ausilio del Ministero dello sviluppo economico e del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, approva il piano dopo aver verificato la solidità economico-finanziaria dell’impresa cessionaria e previa presentazione da parte di quest’ultima di un piano industriale di lungo periodo che offra garanzie di conservazione dei posti di lavoro e di applicazione dei medesimi trattamenti economici e normativi. Il piano non può, comunque, essere approvato senza il consenso della maggioranza delle rappresentanze sindacali presenti nell’impresa o, in caso di loro assenza, senza il voto favorevole della maggioranza dei lavoratori dipendenti dell’impresa. I licenziamenti eventualmente disposti prima dell’approvazione del piano e nel caso in cui il piano non preveda esuberi di personale, sono nulli e costituiscono condotta antisindacale ai sensi dell’articolo 28 della legge 20 maggio 1970, n. 300.
Questa complessa procedura interviene con un livello molto elevato di condizionamento normativo, che va ben oltre – per fare un esempio comparato – quanto previsto in Francia con il plan de sauvegarde de l’emploi, sino a prefigurare una sorta di veto istituzionale e sindacale al licenziamento collettivo (fatta salva la comprovata situazione di crisi ovvero di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario ai sensi del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza), pur all’interno di un sistema di diritto del lavoro caratterizzato per la debolezza (anzi, per la totale assenza) di meccanismi di co-determinazione. La proposta di legge sembra quindi dare per scontata una logica di forte partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa, prefigurando un sistema che, tuttavia, in Italia (ancora) non esiste (nonostante la presenza dell’art. 46 Cost., che prevede il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende: la più inattuata delle norme costituzionali in materia lavoristica); ciò che rende la proposta in esame difficilmente realizzabile nel contesto politico-istituzionale dato.
4. Una nuova politeia umana.
Il vero è che le delocalizzazioni sono difficilmente governabili da uno Stato nazionale il quale, in assenza di efficaci sistemi di partecipazione istituzionale dei lavoratori al governo dell’impresa, decida di riprendere il controllo dell’attore economico come se la globalizzazione potesse venire ricondotta a razionalità grazie ad un neo-sovranismo nazionale, capace di contenere, con le nuove catene della politica, la prepotenza del capitale e dei suoi meccanismi espansivi globali, tanto irresponsabili quanto inarrestabili .
Se Davide vuole davvero fronteggiare Golia, sarebbe assai più opportuno salire di livello e andare alla radice dei processi di delocalizzazione, per coltivare, nell’arena internazionale, la giustizia intesa come bisogno reciproco degli uni verso gli altri (Platone, La Repubblica, II, 705), vale a dire quell’idea di giustizia sociale, già tratteggiata dalla Costituzione dell’OIL, secondo la quale il regime di lavoro realmente umano è raggiungibile solo se le nazioni desiderose di progredire socialmente trovano una sponda favorevole nei comportamenti degli altri stati nazionali. Gli Stati nazionali devono quindi adempiere le obbligazioni derivanti dal loro status di membri dell’OIL, compresi quelli statuiti dalla Dichiarazione su Social Justice for a Fair Globalization, con la quale per la prima volta nella storia è stato affermato in una sede istituzionale il principio secondo cui il mantenimento dei vantaggi competitivi degli Stati non costituisce una valida ragione per derogare o indebolire i diritti sociali fondamentali dei lavoratori (art. 23.2.1.). Questa Dichiarazione dell’OIL mette in discussione il “dogma” dei vantaggi comparativi delle nazioni gelosamente custodito dai sacerdoti del commercio internazionale, tale per cui anche la regolazione sociale partecipa legittimamente al gioco della concorrenza internazionale. In una diversa prospettiva rispetto al principio liberistico della concorrenza senza limiti, si deve guardare agli esempi più avanzati sul fronte delle clausole sociali, come quello offerto dal nuovo Trattato USA-MEXICO-CANADA (USMCA), ove campeggia l’impegno assunto dagli Stati di adottare una vera e propria clausola di non regresso ai sensi della quale l’applicazione dei Labor Rights nazionali non può essere indebolita o ridotta al fine di incoraggiare il commercio o gli investimenti . Di conseguenza, lo Stato non potrà “waive or derogate from, or offer to waive or derogate from, its statutes or regulations” se tali deroghe riguardano i diritti e le condizioni di lavoro previsti dal Trattato (siano essi di fonte internazionale o nazionale). L’obbligo di non regresso non risparmia neppure le speciali aree commerciali e doganali denominate zone franche di esportazione (export processing zones e foreign trade zones) collocate nel territorio degli Stati firmatari del Trattato. Un significativo numero di studi e di evidenze empiriche dimostra che tali zone vacue di diritto hanno contribuito a ridurre l’attitudine delle multinazionali ad aderire ai principi dell’OIL, invitandole a sfruttare le debolezze e le ambiguità dei sistemi locali di diritto del lavoro e a sviluppare strategie aggressive contro i sindacati. Nelle export processing zones (EPZs) dove avvengono le più colossali e drammatiche localizzazioni produttive, gli Stati garantiscono alle imprese straniere restrizioni e deroghe ai diritti di associazione sindacale, con limiti sia di diritto sia di fatto, quale quid pro quo per gli investimenti produttivi. Il Trattato USMCA batte in breccia questa prassi invalsa in molte regioni del mondo, e segnatamente nelle famigerate Maquilladoras messicane, zone industriali di esportazione o zone franche con incentivi speciali creati appositamente per attirare imprese ed investitori stranieri, all’interno delle quali i materiali importati subiscono un certo grado di trasformazione prima di essere riesportati. Il recente Rapporto Solidar (Brussels 2020) evidenzia il ruolo fondamentale delle Maquilladoras nella Global Supply Chain e nello sfruttamento del lavoro nei Paesi in via di sviluppo, secondo una logica di race to the bottom aggravata dai nuovi modelli di produzione e dalle tendenze del mercato.
In quest’ottica sistemica e necessariamente internazionale, il vantaggio delle delocalizzazioni perde consistenza: nella logica del Trattato, il Messico deve adottare una nuova legislazione sindacale e del lavoro informata a principi di democrazia rappresentativa, pluralismo sindacale, trasparenza nelle procedure di voto per l’elezione dei rappresentanti sindacali (con voto personale, libero e segreto), divieto di interferenza datoriale nelle attività sindacali, divieto di discriminazione o coercizione contro i lavoratori per la loro attività sindacale, oltre alla istituzione di Tribunali del lavoro indipendenti per la risoluzione delle controversie in materia di lavoro, in sostituzione dei collegi di conciliazione e di arbitrato. Si tratta, indubbiamente, di un’azione particolarmente incisiva sul piano del raccordo tra sviluppo economico e diritto del lavoro, nel convincimento che il primo deve essere accompagnato dallo sviluppo sociale onde la legislazione del lavoro di una Parte viene di fatto negoziata nell’ambito di una più ampia cooperazione internazionale volta alla riforma del sistema giuslavoristico messicano, la cui mancata adozione comportare l’applicazione, nel rispetto del diritto internazionale, di misure appropriate commisurate alla violazione, nonché la sospensione dell’intero Trattato USMCA.
Questa sembra essere l’unica vera strada da percorrere se si vuole combattere davvero lo “scandalo” delle delocalizzazioni : andare alla radice del problema, costruire attraverso le norme internazionali una sola politeia umana, rendere impraticabile, in base ad un nuovo diritto globale del lavoro, la ricerca del profitto a breve termine a danno dei diritti fondamentali dei lavoratori, sacrificati per soddisfare l’avidità senza limiti di azionisti socialmente irresponsabili.