Professore, questa intervista vorrebbe far emergere i tratti principali di una intera vita dedicata alla nostra materia, anche se non è facile concentrarli in un testo ‘breve’. Partendo dagli inizi, la scelta della tesi in diritto del lavoro fu molto meditata o capitò per circostanze occasionali?
La mia scelta di chiedere la tesi di laurea in diritto del lavoro al prof. Luigi Mengoni e quindi di dedicarmi alla ricerca universitaria in questa materia è stata in parte preparata dalla mia educazione giovanile e soprattutto stimolata dall’esperienza e dagli insegnamenti ricevuti alla Università cattolica di Milano.
L’ambiente dell’Università e del collegio Augustinianum, in cui ho passato quattro anni, era molto attento a coltivare sia l’impegno sociale sia la attenzione alle vicende pubbliche e istituzionali. Ero quindi predisposto a orientarmi verso materie ivi insegnate come il diritto del lavoro e la storia del movimento sindacale oppure verso insegnamenti pubblicistici.
Nell’ultima parte dell’università ho seguìto i corsi di due professori di grande valore, Luigi Mengoni, che insegnava diritto del lavoro oltre a diritto civile, e Feliciano Benvenuti, che dava lezioni di diritto amministrativo. Entrambi mi destavano interesse e mi ponevano di fronte a una scelta difficile.
Per decidere chiesi consiglio anzitutto al prof. Umberto Pototschnig, direttore del collegio Augustinianum e allievo del prof. Benvenuti. Mi confermò che entrambe le materie in discussione offrivano buone possibilità di studio e anche di ricerca futura. Fu molto imparziale, senza lasciarsi influenzare dalla vicinanza alla materia del suo maestro, e mi incoraggiò a scegliere lo studio che sentivo a me più congeniale.
Così mi consultai con gli amici più vicini del collegio, come si faceva spesso fra noi (c’era già Romano Prodi, poi arrivò Giovanni Maria Flick) e la opinione prevalente fu che, per il mio carattere e per i miei interessi generali, mi vedevano più adatto a studiare i temi sociali e del lavoro che non quelli delle amministrazioni pubbliche.
Fu così che mi decisi a chiedere la tesi a Luigi Mengoni, che era un grande maestro, anche se il suo modo di fare mi intimidiva non poco. Sarebbe stato così ancora per qualche tempo, fin quando mi accorsi che la sua apparente freddezza e distanza erano dovute a una sostanziale timidezza.
Devo dire che già dal lavoro di tesi percepii che la scelta era giusta, anche se non corrispondeva del tutto alle mie idee su quelli che dovevano essere i temi sociali e del lavoro. Infatti, sia l’argomento assegnatomi per la tesi, le prestazioni di lavoro di fatto (art. 2126 cod. civ.), sia il tema consigliatomi per il primo saggio da scrivere dopo la laurea, il recesso modificativo (Änderungs kündigung) presentavano entrambi aspetti alquanto tecnici e rigorosamente giuridici, senza apparenti risvolti sociali.
Per di più il secondo tema riguardava un istituto sostanzialmente creato dalla dottrina tedesca e ignoto da noi; e anche il primo era poco approfondito da autori italiani e invece trattato ampiamente dai giuslavoristi tedeschi. Ragion per cui mi dovetti leggere e consultare molti testi in lingua tedesca, studiando da autodidatta con un vocabolario a lato delle norme.
Quali furono le ‘letture iniziali’ alle quali La indirizzò Luigi Mengoni? Che influsso ebbero sui Suoi scritti ‘giovanili’?
Lo studio del tedesco giuridico non doveva finire lì, perché una delle prime letture generali suggeritemi da Mengoni, per darmi le basi sistematiche e storiche necessarie anche a uno studioso di diritto del lavoro, furono le pandette di Ferdinand Regelsberger, un classico fondamentale, scritto naturalmente in tedesco e per di più in caratteri gotici.
Con mio evidente stupore, ma con altrettanta curiosità e ammirazione, Mengoni mi suggerì anche un testo del tutto diverso, scritto da Joseph Kaiser, Representation organisierten interessen. Era un ‘opera pionieristica che analizzava le dinamiche e il rilievo istituzionale delle grandi organizzazioni rappresentative di interessi, i nostri corpi intermedi, compresi sindacati e associazioni datoriali.
Inutile dire che questo si rivelò un tema più vicino ai miei interessi di quanto non fossero le pandette.
Comunque, i primi anni trascorsi all’istituto giuridico della Cattolica furono dedicati allo studio di testi generali di diritto civile, oltre che di diritto del lavoro italiano e tedesco, sotto la guida di Mengoni che voleva accertarsi che io acquisissi basi giuridiche solide e rigorose. Il mio maestro riteneva che queste dovessero comprendere il diritto civile e che questo diritto fosse utile anche per affrontare meglio la materia nuova e ancora informe della nostra disciplina.
Voglio però sottolineare che Mengoni, a differenza di altri civilisti, non considerava il diritto del lavoro come una ‘sub-materia’, ma lo riteneva un campo di indagine di grande interesse anche per i privatisti. Infatti vi si dedicava con passione e curiosità, fornendo contributi che sono stati preziosi per molti di noi.
I miei primi lavori risentono evidentemente di questo approccio. La monografia Onerosità e corrispettività nel rapporto di lavoro è densa di riferimenti civilistici, ancora sia italiani sia tedeschi, anche se cercava di individuare già le peculiarità che questi concetti generali assumevano nella disciplina del rapporto di lavoro rispetto a quella dei contratti di diritto privato. Tale particolarità era riscontrabile specie nel fatto che lo stretto legame di sinallagmaticità fra lavoro e retribuzione veniva superato in casi di sospensione della esecuzione della prestazione di lavoro per motivi attinenti alla persona del lavoratore (malattia, gravidanza, infortuni).
Il collegio Augustinianum non era solo un luogo di studio dove veniva richiesto, specie per chi come me aveva una borsa, una media di voti alti nelle principali materie; era anche un ambiente che stimolava negli studenti la partecipazione ad attività culturali, sociali e in senso lato politiche.
I testi che giravano erano alquanto vari, anzitutto i classici francesi del cattolicesimo sociale democratico, Maritain e Mounier, ma non solo. Alcuni di noi eravamo già attratti da autori anglosassoni e nordamericani, a cominciare dai primi testi di John Kenneth Galbraith, che allora pubblicava La società opulenta, e dagli scritti del riformismo fabiano inglese.
Fu negli Stati Uniti che anche le Sue letture presero una certa ‘forma sociale’?
La mia formazione giuridica, ma non solo, ha ricevuto una influenza importante, per certi aspetti decisiva, dal soggiorno di studio negli Stati Uniti dal 1962 al 1964.
L’occasione di questo soggiorno fu casuale, cioè la accettazione di una mia domanda, a dire il vero poco preparata, a partecipare a un seminario internazionale organizzato dal Marshall Fund degli Stati Uniti a Salisburgo, che radunava studenti di vari paesi europei per discutere del sistema e della cultura giuridica statunitensi.
Fu una esperienza molto bella, perché mi diede modo di ascoltare dalla viva voce di professori di varie discipline (diritto del lavoro, commerciale, costituzionale) i tratti dei principali istituti di quel paese.
Il professore che insegnava diritto del lavoro, insieme al diritto commerciale come era spesso il caso nelle Università Usa, mi mostrò un modo molto diverso dal nostro sia di insegnare sia di concepire la materia che avevo scelto. Era diverso l’oggetto poca legislazione e molta contrattazione colletti; diverso il metodo: quasi solo presentazione di casi trattati in sede sia giudiziaria sia arbitrale collettiva, e poche lezioni teoriche.
Dalle quattro intense settimane del corso uscii non solo entusiasta, ma convinto più che mai di aver fatto la scelta giusta. Per di più mi arrivò la proposta dal Marshall fund di una borsa di studio di due anni da spendere in Università degli Stati Uniti di mia scelta.
Scelsi di passare quegli anni di borsa in due Università fra loro molto diverse, il primo anno accademico alla School of Industrial Relations della Cornell University, il secondo alla Law School della University of Chicago.
La scuola di Cornell era il centro Usa per lo studio delle relazioni industriali, patrocinato all’origine da Eleanor Roosevelt, di cui si sentiva ancora l’influenza. I corsi affrontavano materie di cui avevo solo sentito parlare in Italia, ma che mi pareva trattassero argomenti a me familiari e che volevo approfondire, come la contrattazione collettiva, la storia dei movimenti sindacali, il diritto sindacale.
La scuola aveva una impostazione non solo teorica, ma molto attenta alla storia e alla pratica delle relazioni industriali: ad esempio il corso di storia dei movimenti sindacali era tenuto da un sindacalista a fine carriera, con nessuna preparazione accademica ma con grande conoscenza delle prassi sindacali e contrattuali, accompagnata da una visione lucida e non conformistica delle dinamiche collettive, comprese quelle meno trasparenti che allora si stavano manifestando in alcuni sindacati degli Stati Uniti (Teamsters in primis).
La Law School di Chicago invece era una facoltà giuridica di élite dove insegnavano professori illustri, esponenti della scuola del realismo giuridico: molti ebrei tedeschi immigrati negli anni Trenta, con ricordi rielaborati della dottrina del periodo di Weimar. Il mio professore di diritto del lavoro, Bernard Meltzer, era stato da giovanissimo public prosecutor al processo di Norimberga.
Una volta tornato in Italia, come proseguirono i Suoi studi?
Al ritorno in Italia ripresi i miei studi all’istituto giuridico della Università Cattolica, sempre sotto la guida del prof. Mengoni, che mi fece conoscere Gino Giugni e Federico Mancini.
I due illustri professori, come scoprii allora, avevano trascorso negli Usa un analogo periodo di studi dieci anni prima di me. Questa comune esperienza favorì subito una condivisione di temi e una frequentazione che doveva approfondirsi nel tempo.
La condivisone e poi il lavoro di ricerca furono particolarmente intensi con Gino Giugni, da cui ho imparato moltissimo e che considero il mio secondo maestro, anzi il primo per molte aree di interesse che avrei sviluppato in seguito.
Dopo il ritorno dagli Usa ero diventato assistente volontario in Università Cattolica: volontario significava senza retribuzione né status preciso. Ma quasi subito fui nominato direttore del collegio Augustinianum della Università dove ero stato studente. Questa nomina, oltre a farmi ritrovare un ambiente conosciuto e stimolante, mi permise di mantenermi agli studi per vari anni.
L’incarico durò fino al 1968, anno in cui la contestazione studentesca arrivò anche in Cattolica e nel collegio, creando gravi tensioni con le autorità accademiche. Io terminai allora quel mio incarico, dato che avevo ottenuto in quell’anno la libera docenza, ma anche perché ero ritenuto troppo condiscendente con il movimento studentesco, allora capitanato proprio in collegio da Mario Capanna.
Le mie ricerche giuridiche dopo di allora dovevano avere una significativa evoluzione, per la influenza dell’esperienza fatta nelle università nordamericane, ma anche per il mio interesse crescente alle materie del diritto e delle prassi sindacali, un interesse che era stimolato dall’insegnamento di Giugni e su un altro piano dalla frequentazione del Centro studi della Cisl e delle attività di questo sindacato.
La evoluzione si vede bene nella differenza fra la monografia del 1968 su ‘onerosità e corrispettività’ di cui ho detto, e quella del 1974 su attività antisindacale e atti discriminatori. Questa risente in modo diretto, oltre che della approvazione dello Statuto dei lavoratori, della elaborazione della dottrina e della giurisprudenza nordamericana sulle unfair labor practices e in generale sul diritto antidiscriminatorio.
Mi piace anche ricordare come significativo della evoluzione dei miei interessi di ricerca. il saggio sulla storia dei sindacati italiani dal 1945 al 1976 scritto con Umberto Romagnoli, con il quale ho percorso un lungo periodo di ricerche comuni.
Con questo scritto ci siamo proposti di coprire almeno in parte una carenza di analisi sulle vicende sindacali del secondo dopoguerra. Queste venivano spesso considerate dagli storici parte di una storia minore, mentre noi volevamo mostrare come le relazioni sindacali, con i loro prodotti contrattuali, e anche con la loro interlocuzione con le istituzioni pubbliche e con la spinta alle riforme, fossero una componente, non priva di contraddizioni ma importante, per la comprensione di quegli anni, dalla ricostruzione al miracolo economico.
Il sindacato ‘Associazione’ è un capitolo importante della Sua attività di cultore e insieme partecipe delle logiche di autotutela. Ne ha scritto molto, o avrebbe voluto scriverne di più?
Il sindacato Associazione è stato oggetto di un mio libro del 1971, che era concepito come primo volume di un più ampio studio sulla questione sindacale. In realtà la idea originaria è rimasta senza seguito, perché mi sono convinto che questo aspetto della tematica sindacale non era centrale nel nostro sistema, a differenza di quanto avevo visto negli Usa e in Gran Bretagna.
In quei paesi il legislatore era intervenuto direttamente a più riprese a regolare non solo l’attività sindacale nelle imprese ma gli stessi rapporti interni al sindacato, invero con effetti alquanto discutibili e controversi. Niente di più lontano dall’approccio italiano, a lungo caratterizzato dalla sostanziale contrarietà a far intervenire il legislatore nelle relazioni industriali, e ancor più nelle dinamiche interne del sindacato.
È emblematica in proposito la scelta dello Statuto dei lavoratori di promuovere l’attività sindacale in azienda, ma senza dare alcuna regola sulla configurazione delle forme rappresentative ivi assunte dal sindacato, comprese quelle cui veniva attribuita una serie di diritti di attività all’interno delle imprese.
Da allora e fino ad oggi il nostro ordinamento non ha ritenuto anomalo il fatto che il sindacato mantenga la qualità di Associazione privatistica, nonostante sia titolare di diritti riconosciuti dalla legge, influenti sulle vicende aziendali, e sempre di più di funzioni pubbliche in molte materie sociali ed economiche.
A correggere in parte questa anomalia ha provveduto la costruzione della figura della maggiore rappresentatività, una qualità attribuita ad alcuni sindacati prescelti per la loro consistenza e qualità come destinatari unici di una serie di diritti e prerogative legislative.
Proprio sulle intricate vicende e sui caratteri di questa rappresentatività si sono concentrati per molti anni gli interventi della nostra dottrina e della giurisprudenza nell’intento di chiarire contenuti e ratio della figura. Con risultati tuttora incerti, come si vedrà.
Il passaggio graduale all’esperienza politica ha cambiato il Suo modo di guardare ai problemi del lavoro? Quanto pesa la distanza fra ricerca teorica e applicata, se ha senso fare questa distinzione?
Il mio passaggio dall’insegnamento universitario all’ attività politica è avvenuto in maniera imprevista e in realtà casuale. Fin dagli anni giovanili la politica mi ha sempre interessato, anche se al di fuori di schieramenti e di affiliazioni partitiche. La partecipazione alle attività sindacali rispondeva in parte al mio interesse per le questioni pubbliche e politiche in senso lato.
Negli anni ‘70 e ‘80 i sindacati con cui ero in più stretto rapporto, la Fim-Cisl di Pierre Carniti e la Cisl di Milano, erano fortemente impegnati non solo nella contrattazione collettiva, ma anche nella promozione degli interessi generali dei lavoratori attraverso l’azione per le riforme. Questo, del resto, era allora un approccio comune a larga parte del sindacato italiano, che riteneva di dover contribuire, con i propri strumenti, alla politica nazionale.
In realtà il mio primo passaggio non è stato alla politica, bensì all’attività e alle responsabilità amministrative. Questo avvenne nel 1992 quando la giunta del comune di Milano fu decimata dalle inchieste della magistratura milanese, che all’insegna delle ‘mani pulite’ incriminarono la maggioranza di quegli amministratori.
Per rimediare alla carenza di governo amministrativo della città si ritenne di chiamare in giunta un gruppo di esperti e professori, rappresentanti della società civile si direbbe ora. Nella nuova giunta con sindaco Piero Borghini io fui incaricato di occuparmi di vari settori, gli affari istituzionali, comprese le privatizzazioni delle società municipalizzate (alcune furono in effetti attuate), la educazione e le scuole comunali, allora molto numerose a Milano, e infine le questioni del lavoro, dove le competenze del comune erano invero alquanto scarse.
Questa esperienza, per me molto istruttiva e appassionante, doveva durare solo un anno, perché le elezioni del 1993 videro la affermazione della Lega (allora Lega Nord) e quindi la ricostituzione di una giunta politica di cui ovviamente non fui parte.
Anche il secondo incarico pubblico fu di carattere amministrativo, perché, a seguito della legislazione sulla contrattualizzazione del pubblico impiego cui avevo contributo come consulente di Maurizio Sacconi allora sottosegretario con delega sul tema, fui chiamato a presiedere la nuova agenzia competente per avviare la contrattazione collettiva in questo settore, l’Aran.
A questo incarico ha fatto seguito la nomina a ministro del lavoro nel governo Dini (che avevo conosciuto nella mia qualità di presidente dell’Aran) e poi nel governo Prodi, dopo la mia elezione al parlamento.
Per venire alla domanda rivoltami, la assunzione di responsabilità istituzionali dirette ha segnato un cambiamento nella mia visione della politica in genere, e specificamente del rapporto fra analisi del diritto, progettazione di riforme e loro attuazione.
I passaggi con cui mi sono dovuto misurare in realtà sono almeno due, Anzitutto era possibile trarre stimolo dalle informazioni privilegiate che ricevevo in virtù del mio ruolo sulle regole e sulle prassi del diritto e delle politiche sociali, nonché dalla collaborazione di tecnici esperti del ministero nell’istruire i miei progetti di riforma.
In secondo luogo era necessario sottoporre questi progetti al confronto con la complessa realtà in cui essi dovevano essere applicati, in particolare con le forze sociali e politiche in campo. Qui diventano rilevanti, anzi decisive, attività e competenze diverse, quelle della mediazione e della ricerca del migliore compromesso possibile nelle condizioni del contesto. Il che comporta la necessità di apprezzare fino a che punto questo compromesso può forzare le condizioni date per perseguire, come si dice in gergo politico, equilibri più avanzati.
Ho riflettuto a lungo, sia nel corso dell’attività ministeriale sia retrospettivamente, sulle alternative da me considerate ai fini della ricerca del compromesso e sui risultati conseguiti (almeno quelli apprezzabili più direttamente).
Un parziale bilancio della mia esperienza di ministro del lavoro è contenuto nel volume Politiche del lavoro. Insegnamenti di un decennio, dove segnalo come i progetti elaborati da studioso della materia avevano avuto seguito nelle decisioni politiche, quali erano state attuati in tutto o in parte, quali invece erano state forzatamente abbandonati.
Ripensando a tali esperienze ho verificato, con maggiore consapevolezza di quanta mai avessi avuto, la criticità di un ulteriore passaggio, quello dalla approvazione delle normative alla loro implementazione. In questo passaggio molte delle nostre riforme, comprese quelle largamente condivise, hanno perso anche in seguito parte dei loro contenuti e del loro impatto sulla realtà.
La debolezza delle capacità implementative si radica in limiti storici del nostro sistema, che coinvolgono non solo le inefficienze delle pubbliche amministrazioni ma in generale la debole cultura gestionale di molti attori, sia pubblici sia privati.
Lo Statuto ha aperto una stagione di studi che ha riguardato la sua ‘applicazione’, un’anteprima del law impact assessment, nelle ricerche degli anni ‘70 pretura per pretura. Cosa ricorda di quegli anni?
In effetti lo Statuto dei lavoratori è stato non solo una pietra miliare per la evoluzione del nostro diritto del lavoro, ma anche uno stimolo per vedere le analisi e gli studi della nostra materia in modo nuovo.
In realtà già prima dello Statuto Gino Giugni aveva teorizzato la necessità di guardare alle prassi e alle regole delle relazioni industriali e della contrattazione collettiva, per capire le realtà dei rapporti di lavoro e le logiche dei loro attori sia pubblici sia privati.
Nella Sua opera fondamentale sulla autonomia collettiva aveva sostenuto che i materiali prodotti dalla contrattazione nelle varie forme costituivano elementi di un vero e proprio ordinamento giuridico, sia pure inserito e dipendente dall’ordinamento statale: materiali da studiare con gli strumenti adatti a questa loro natura e non con gli occhiali di chi esamina rapporti contrattuali privatistici.
Giugni aveva sollecitato i suoi allievi ad analizzare con questo metodo alcuni contenuti della contrattazione, fra cui i due accordi interconfederali sui licenziamenti (individuali e collettivi) del 1965, che erano di particolare importanza in quanto introducevano una regolazione contrattuale limitativa del potere di licenziamento, in un momento in cui il diritto statale lo riconosceva come un potere ad nutum.
Inoltre, aveva ritenuto di estendere questo tipo di analisi alle prassi giudiziarie applicative dell’art. 36 Cost. sulla retribuzione sufficiente e proporzionata, in quanto tale giurisprudenza era un esempio significativo di diritto vivente, anch’esso da considerare per una piena comprensione della law in action.
La approvazione dello Statuto fornì la opportunità di riprendere in un contesto particolarmente favorevole queste ricerche sulla formazione extra legislativa del diritto del lavoro, perché lo sviluppo impetuoso della contrattazione collettiva, soprattutto a livello aziendale, offriva materiali di analisi ben più ricchi e innovativi che in passato.
Nel periodo di approvazione dello statuto, 1969-70, mi sono impegnato, in linea con le indicazioni di ricerca di Giugni, in una indagine sul campo relativa alla nascita e alla formazione dei delegati e dei consigli di fabbrica in alcune grandi fabbriche del nord Italia. I risultati dell’indagine, pubblicati dal Mulino nel 1971, mostravano la grande capacità delle prassi e delle regole collettive di dare vita a istituti nuovi, quali appunto delegati e consigli di fabbrica.
Ma tale creatività non si esprimeva nelle modalità previste dalla teorizzazione di Giugni, in quanto questi istituti furono all’inizio affidati alla spontaneità delle dinamiche sociali e privi o quasi di regolazione definita. In seguito, dovevano essere regolati in via unilaterale dagli stessi sindacati, nel tentativo di consolidarne le strutture e di favorire il proprio controllo.
Solo qualche tempo più tardi la regolazione doveva diventare bilaterale, cioè stabilita con accordi di vario livello, dall’ambito aziendale al livello nazionale, fino agli accordi interconfederali, che negli anni recenti sono diventati la fonte principale di regolazione e di istituzionalizzazione di consigli e delegati.
Neppure questa fonte di regolazione ha però mai raggiunto un tasso di effettività completo, perché gli accordi interconfederali mantengono la efficacia solo inter partes propria dei nostri contratti collettivi di diritto privato. Inoltre consigli e delegati non hanno sostituto completamente le rappresentanze sindacali aziendali, che sono rimaste in vita in alcune realtà e settori, specie nei servizi e nel pubblico impiego
La domanda propostami richiede una distinzione ulteriore riguardante il tipo di analisi prospettata nelle ricerche. Una prima attività doveva essere indirizzata alla conoscenza il più sistematica possibile delle prassi contrattuali e aziendali per valutarne la rilevanza nella formazione delle regole fissate fra le parti, anche di quelle legali.
Il law impact assessment è un tipo di analisi ulteriore, molto più complessa, perché richiede una valutazione degli effetti delle regole nei vari contesti in cui intervengono e incidono. Un’analisi del genere, relativa all’impatto delle norme, richiede strumenti diversi, non solo giuridici ma economici e sociologici.
Nel nostro paese essa è stata poco o nulla praticata, anche perché non promossa e poco apprezzata dalla nostra ‘accademia’.
Da parte mia ho provato a cimentarmi con risultati parziali e non sempre del tutto soddisfacenti. La ricerca più vicina a questa ispirazione fu quella condotta con un gruppo di colleghi giuristi e sociologi, coordinata dal prof. Franco Rositi sulle pratiche applicative giudiziarie e sindacali dello Statuto dei lavoratori.
L’obiettivo era di verificare come le pratiche dei diversi magistrati e dei vari sindacati, questi specie come attori ex art. 28 dello Statuto, utilizzassero la legge. E in effetti fu possibile riscontrare che questi attori esprimevano interpretazioni e usi anche molto diversi dello Statuto. Nel caso del sindacato il ricorso in giudizio risultava spesso uno strumento complementare se non alternativo all’ azione diretta, funzionale a strategie proprie dell’organizzazione.
Nei primi anni ’70 la spinta conflittuale originata dell’autunno caldo doveva influenzare non solo le dinamiche della contrattazione, ma anche gli orientamenti dottrinali e culturali in generale. L’influsso fu particolarmente evidente nella nostra materia, data la sua collocazione di frontiera. Molti di noi, me compreso, ne abbiamo risentito, anche nelle valutazioni relative allo Statuto e alla sua applicazione.
Non a caso le prime riunioni della Aidlass (l’Associazione dei giuslavoristi italiani) successive allo Statuto videro contrapposizioni di tesi senza precedenti, una vera e propria spaccatura fra le varie scuole, non priva di motivazioni politiche, ma che coinvolgeva direttamente il metodo giuridico.
Quelli di noi che, seguendo le indicazioni di Giugni, avevano dedicato attenzione alla prassi sindacali e della contrattazione e che ne tenevano conto nella interpretazione degli eventi successivi allo Statuto e della stessa legge, si sentivano interpellati con accuse del tipo “questo non è diritto, voi fate sociologia”.
L’attenzione ai materiali della contrattazione collettiva e alla loro interpretazione era vista con sufficienza o con sospetto da chi riteneva che l’attenzione del giurista del lavoro dovesse limitarsi alla esegesi (spesso solo formale) dei testi legislativi.
La ricerca sopra citata riflette bene i contrasti ideali e interpretativi rivelatisi attorno allo Statuto. Essa testimonia la presenza di forme di utilizzo sindacale e di decisioni giudiziali riguardanti la legge connotate da caratteri radicali, potenzialmente in grado di alterare il delicato equilibrio realizzato dal legislatore fra riconoscimento dei diritti individuali dei lavoratori e diritti del sindacato istituzione. Ma la stessa indagine mostra una evoluzione delle prassi che doveva marginalizzare queste interpretazioni della legge, da qualche giurista teorizzate come uso alternativo del diritto, per far prevalere gradualmente pratiche sindacali e giudiziarie più favorevoli al consolidamento della presenza sindacale nelle fabbriche.
Non credo che questa interpretazione e questa pratica dello Statuto, orientate alla istituzionalizzazione delle relazioni industriali in azienda, possano essere disconosciute, tanto meno contraddette, come si è fatto da chi considerava la legge un fattore destabilizzante delle imprese e della stessa competitività del sistema.
Certo tale istituzionalizzazione era limitata e precaria e non doveva ridurre il carattere fortemente conflittuale caratteristico ancor per molti anni della nostra attività sindacale.
Piuttosto va sottolineato che nelle vicende successive, gli attori delle nostre relazioni industriali, in particolare i sindacati, non seppero concordare un insieme di regole relative ai loro rapporti reciproci, ai criteri della loro rappresentatività, agli assetti contrattuali e ai limiti dell’azione conflittuale: quelle regole che sarebbero state in grado di stabilizzare il sistema, come era ipotizzato e auspicato dagli autori dello Statuto, in primis da Gino Giugni.
La carenza di regole sugli aspetti centrali delle nostre relazioni industriali, è rimasta un carattere del nostro sistema, del tutto anomalo nel quadro europeo. Ha creato una vera anomia nel sistema, i cui effetti negativi sono diventati sempre più evidenti nel tempo, riducendo la autorevolezza delle relazioni industriali e la loro capacità di governare le crisi, e, come si è visto di recente, aprendo la strada al proliferare di forme rappresentative spurie e di contratti collettivi pirata.
Il ‘pacchetto Treu’ rappresentò una grande novità nel riformismo italiano. Il lavoro ‘interinale’ era già diffuso in molti paesi europei e questo può aver aiutato a considerare meglio e in anticipo i limiti di un istituto innovativo rispetto alla nostra storia legislativa e anche di relazioni industriali. Cosa può dire di quell’ ‘episodio’ che La vide in prima persona ‘legislatore’?
La legittimazione nel nostro paese del cd. lavoro interinale, sancita dal cd. pacchetto Treu con il superamento del divieto storico di intermediazione nelle prestazioni di lavoro, è avvenuta in Italia in grande ritardo rispetto agli altri paesi europei.
Questo ritardo mi veniva regolarmente rimproverato dai colleghi stranieri nel corso delle periodiche riunioni su temi di politica del lavoro cui partecipavo negli uffici della Commissione europea.
Quindi la mia proposta del 1997 non era certo una novità. Ciò nonostante, incontrò non poche resistenze, specie in sede sindacale, dalla Cgil, motivate dal timore che così si aprisse un varco a forme di intermediazione pericolose per i diritti dei lavoratori e più in generale a una flessibilità incontrollata del lavoro.
Per superare tali resistenze il ricorso al lavoro interinale fu ammesso con non poche cautele e limitazioni, escludendo certi tipi di lavori e di settori, e regolando rigorosamente la attività e il numero delle agenzie. Soprattutto fu importante sancire il principio della parità di trattamento fra i lavoratori interinali e i dipendenti delle imprese dove questi venivano mandati in missione temporanea.
Questa regola, che rispondeva a un fondamentale principio di equità e di pari dignità per i lavoratori interinali, si rivelò lungimirante, tanto è vero che venne via via adottata da altri paesi e che, di recente è stata introdotta da una direttiva comunitaria.
Fatto sta che la riforma funzionò, anche al di là delle aspettative. Infatti il lavoro interinale si sviluppò in nuovi ambiti e forme e fu progressivamente accettato anche da chi l’aveva criticato.
La pratica ormai oltre ventennale mi pare abbia confermato che la presa in carico di questi lavoratori dalle agenzie anche nella forma del cd. staff leasing, originariamente molto osteggiata, può essere più garantista per i prestatori di lavoro rispetto alla assunzione diretta da un singolo datore con contratto a tempo determinato. Tanto più che le agenzie del lavoro e le loro associazioni hanno concluso con i sindacati accordi collettivi, riguardanti non solo il trattamento economico ma vari istituti di welfare integrativo.
Voglio però ricordare che il cd. pacchetto introdusse nel nostro ordinamento non solo il lavoro interinale, ma altri istituti innovativi destinati a evolversi nel tempo, come i tirocini e una prima regolazione del part time.
Un risultato importante di quel periodo, in prospettiva forse il più rilevante, fu la riforma delle pensioni del 1995 (la legge 335). Il passaggio allora sancito dal metodo cd. retributivo (a prestazioni definite) a quello contributivo (a contribuzioni definite) fu fondamentale per assicurare la sostenibilità e l’equilibrio finanziario del sistema. Anche se la regolazione del 1995 doveva essere soggetta negli anni successivi a molteplici modifiche che, oltre a cambiare periodicamente, con rischio di effetti destabilizzanti, le aspettative delle persone e delle imprese, hanno alterato un principio fondamentale di quella riforma, cioè la possibile flessibilità della età pensionabile in dipendenza delle scelte degli interessati, con l’adattamento conseguente delle prestazioni pensionistiche.
Non posso approfondire qui l’argomento, ma rilevo che tale principio andrebbe oggi ripreso in considerazione, in quanto risponde meglio che non la reiterazione di soglie fisse di età pensionabile, alle esigenze delle persone e delle imprese, perché le attuali trasformazioni sociali ed economiche accentuano le diversità nelle condizioni e nei tempi dell’invecchiamento e quindi pongono ai singoli, e alle stesse imprese, la necessità di adattare (anche) le scelte di pensionamento.
Quanto al bilancio delle riforme del periodo, rilevo che la normativa sul part time, come quella sui tirocini e sull’ apprendistato, diedero un prima regolazione innovativa a questi istituti, ma dovevano rivelarsi inadeguate nel tempo a fronte delle nuove esigenze che si sarebbero manifestate riguardo sia alla configurazione e valutazione dei tempi di lavoro, sia per altro verso alle forme di transizione fra scuola e lavoro, divenute sempre più rilevanti (ma finora trascurate) per l’accesso dei giovani al mercato del lavoro.
Pensando agli interventi di riforma in cui sono stato coinvolto in periodi successivi, segnala anche qui andamenti ed esiti diversi.
Le politiche attive del lavoro, ivi compresa la formazione professionale come parte essenziale di queste, sono state oggetto di reiterati disegni riformatori. Entrambi questi temi tuttavia hanno avuto una implementazione inadeguata, tanto è vero che ancora oggi la loro inadeguatezza costituisce una delle carenze più gravi delle nostre politiche del lavoro.
Diverso è il caso del tentativo di riforma su un tema particolarmente caro a Gino Giugni e su cui anche io mi sono cimentato, cioè la riforma del processo del lavoro e in particolare la introduzione delle cd. ADR, cioè di forme alternative di risoluzione delle controversie del lavoro come mediazione e arbitrato. Noi eravamo convinti, anche sulla base dell’esperienza di altri paesi, specie anglosassoni, e io lo sono ancora, che tali strumenti potessero dare riposte celeri e utili alle esigenze di giustizia del lavoro, ad integrazione delle forme processuali ordinarie.
Ma le proposte di regolazione di questi istituti fallirono difronte alla avversione storica del nostro sindacato (e dei suoi avvocati!) in particolare verso ogni forma di arbitrato dotato di una resistenza alle impugnazioni tale da renderlo significativo.
Tale preclusione verso l’arbitrato, compreso quello regolato dai contratti collettivi e relativo alle controversie riguardanti la loro applicazione, mi sembra poco coerente con la valorizzazione della autonomia collettiva da parte del sindacato e del nostro ordinamento giuridico. Gli ordinamenti e i sindacati di altri paesi hanno ritenuto che la fiducia nella capacità dell’autonomia collettiva di regolare i rapporti di lavoro possa estendersi utilmente all’attività di amministrazione dei contratti collettivi, con forme di mediazione e di arbitrato controllate dalle stesse parti.
Voglio fare un ultimo cenno alla regolazione della sicurezza sul lavoro che fu approvata dal parlamento, dopo lunga elaborazione, con il TU 81 del 2008 (quando io ero presidente della Commissione lavoro del Senato). Il testo, largamente condiviso, ha introdotto non pochi elementi di semplificazione e di razionalizzazione della normativa di derivazione europea in materia. A distanza di oltre dieci anni esso richiede una profonda attività di rivisitazione e di aggiornamento per metterlo in grado di fronteggiare le nuove sfide rappresentate anche per la sicurezza del lavoro dalle innovazioni tecnologiche già in atto e ora accelerate dalla pandemia.
Per oltre un anno le lezioni ‘frontali’ si sono svolte online nelle università, di fatto davanti ai computer. Per i docenti, occorre a volte immaginare i volti degli studenti e uno dei principali problemi è sollecitare l’attenzione e l’interazione. Questo mentre si indicano metodi di insegnamento al passo coi tempi e sempre più ‘interattivi’. Tanti anni fa alle Sue lezioni noi studenti erano già coinvolti attivamente, dovendo leggere il manuale prima di assistere non solo alla ‘lezione’ ma anche alla discussione di casi concreti. Come Le venne in mente di fare così?
Oggi più che mai, dopo la esperienza del Covid, che ha precluso a lungo le lezioni in presenza fino al livello universitario, sentiamo la importanza non solo di avere davanti a noi gli studenti, ma anche di interagire con essi.
La necessità di una forte interlocuzione fra docenti e studenti mi è stata chiara negli anni trascorsi nelle università statunitensi. In questo paese gli studenti, che sono abituati fin dalle scuole inferiori a intervenire e a fare domande durante le lezioni (spesso anche troppo), partecipavano attivamente e criticamente a tutti i corsi che ho avuto modo di seguire; anche perché di solito venivano giudicati non solo sugli esami periodici, in prevalenza scritti e quasi mai solo orali, ma pure sulla qualità della loro partecipazione in classe. Per me era una esperienza nuova, perché in Italia, dalle scuole medie alla Università, la lezione ex cathedra era normalmente un soliloquio.
Quando mi sono trovato io a salire in cattedra, in Cattolica e alla Università di Pavia, ho cercato di far tesoro di quella esperienza, oltre che del metodo casistico che inspirava l’insegnamento universitario statunitense. Naturalmente ho ritenuto di dover adattare il mio insegnamento al diverso contesto italiano.
Ho chiesto agli studenti di utilizzare in modo nuovo i manuali di diritto del lavoro, che cominciavano a essere disponibili, non per studiarli più o meno attentamente prima degli esami finali, ma per arrivare preparati alle lezioni al fine di capirne meglio i contenuti e per poter interloquire di volta in volta sui singoli argomenti. Era quello che avevo visto fare negli Usa come studente e che poi avevo replicato io stesso durante due miei soggiorni in una Università statunitense come visiting professor.
I risultati di questo mio metodo non sono stati sempre soddisfacenti, come era del resto prevedibile. La partecipazione degli studenti al dibattito in aula, nonostante i miei solleciti, risultava di solito minoritaria e in ogni caso non abbastanza significativa, salvo casi eccezionali, per potervi fondare un giudizio di merito sulla preparazione dello studente.
Più utile, anche se diseguale, si è rivelato l’esperimento di far presentare in aula a gruppi di studenti una serie di casi concreti, di solito decisioni giudiziarie di questioni controverse, ma anche questioni interpretative di clausole particolarmente importanti della contrattazione collettiva.
Io richiedevo che tali discussioni non si limitassero alla analisi del caso, ma cercassero di inquadrarlo nel quadro normativo su cui dovevano essersi preparati leggendo il manuale. L’inquadramento dei casi nel sistema giuridico era spesso poco curato nell’ insegnamento dei corsi frequentati in Usa, e questa mi pareva una lacuna da colmare.
Il limite maggiore di questo mio metodo è che era praticabile solo in classi di dimensione ridotte e che anche in questi contesti difficilmente riusciva a coinvolgere più di un gruppo ristretto di studenti, quelli maggiormente attivi. Peraltro, io cercavo di verificare le ricadute di queste discussioni su tutti partecipanti alle lezioni, inserendo alcune delle questioni ivi trattate nei test scritti che sottoponevo agli studenti.
Ho sempre pensato che i test scritti, ben preparati anche con quesiti pratici, siano utili per valutare la preparazione degli studenti, ad integrazione se non in sostituzione della prova orale, perché questa può essere influenzata da fattori non oggettivi, come il contenuto della domanda, il momento contingente per il docente e lo studente, il tipo di interlocuzione che si instaura fra le due persone.
Le carriere universitarie seguono i continui mutamenti della disciplina dei concorsi, ma è anche vero che l’aumento della prevedibilità e pubblicità dei criteri è un dato di sistema relativamente nuovo e comunque positivo. Cosa ne pensa?
Ho seguìto questi aspetti delle vicende universitarie sempre con qualche difficoltà e con poco interesse, anche quando ho dovuto occuparmene per sostenere il percorso accademico dei miei allievi.
Mi pare positivo che i criteri per la gestione dei concorsi a cattedra siano diventati più chiari e articolati, nonostante sulla efficacia di queste innovazioni in ordine alla qualità della selezione dei candidati non sono in grado di pronunciarmi.
In realtà sono però convinto da tempo che restino aperti non pochi problemi di fondo per migliorare il nostro sistema di istruzione universitaria e di reclutamento dei docenti. Ritengo necessario rafforzate i dottorati, che andrebbero meglio finalizzati e controllati nei risultati, nonché rinnovati in alcuni contenuti, a cominciare da una maggiore apertura alle dimensioni internazionale e comparata del diritto del lavoro che oggi sono diventate essenziali per la comprensione del nostro stesso ordinamento.
Inoltre, anche se l’attuale sistema di valutazione nazionale delle idoneità dei futuri docenti ha rappresentato un progresso rispetto al precedente metodo dei concorsi, con scelta di terne di vincitori, mi sembra che permangano ancora elementi non certo meritocratici e spesso poco trasparenti di reclutamento, specie per quanto riguarda le chiamate da parte delle singole Università. Queste sono ancora condizionate da logiche corporative, di scuola e di conservazione dell’esistente, piuttosto che da valutazioni di merito aperte al confronto.
Anche qui sono probabilmente influenzato dai sistemi di valutazione e selezione vigenti in altri paesi, come quelli anglosassoni, dove le Università anche pubbliche sono stimolate a reclutare i candidati migliori, perché su queste scelte sono giudicate non solo dal mercato ma dai loro ‘pari’, nella qualità e prestigio.
Non sono in grado di dare indicazioni precise su come migliorare la nostra attuale situazione, ma credo che queste esperienze andrebbero seriamente considerate, anche perché la competizione internazionale ormai coinvolge direttamente le stesse professioni intellettuali e accademiche. È significativo che nei paesi ricordati al titolo di studio non sia riconosciuto alcun valore legale, a differenza di quanto avviene in Italia. Questo è un altro aspetto che andrebbe considerato, cercando di valutare senza pregiudizi i pro e i contro delle soluzioni possibili.
Se dovesse dare un solo consiglio ai giovani alle prese con le prime ricerche, sarebbe più per i libri o per i saggi?
Dare consigli utili è sempre difficile, specie oggi in tempi di grande incertezza sulle prospettive future e nei confronti di giovani, che sono così diversi da chi appartiene a una generazione del 900. Noi siamo legati al contesto e alla cultura industrialista di quel secolo, mentre i giovani di oggi sono influenzati fin dalla nascita da tecnologie nuove, in particolare digitali che, a detta degli esperti, costituiscono un cambiamento non solo tecnico, ma culturale e persino antropologico.
Tutti i giovani, compresi quelli che si avventurano nella carriera universitaria, partecipano di questo contesto così lontano dal nostro e hanno quindi aspettative e visioni diverse circa il loro futuro.
Di qui la difficoltà e la mia esitazione a dare consigli specifici, anche se riferiti come chiede la domanda a un aspetto particolare, ma comunque importante, come il tipo e gli oggetti della ricerca universitaria. Posso dare alcuni suggerimenti: anzitutto di non seguire una consuetudine accademica italiana come quella di finalizzare la ricerca anzitutto alla pubblicazione di una monografia in forma di ‘libro’.
Cimentarsi in una ricerca complessa e quindi anche di una certa durata e dimensione costituisce un test utile a provare le proprie capacità. Ma non è necessariamente la dimensione che conta. Ci sono esempi di autori che hanno rivoluzionato le teorie dominanti e segnato veri e propri cambi di paradigma, con contributi in forma non di libro ma di articolo.
Articoli anche brevi possono essere più tempestivi e utili di libri che escono fuori tempo, ad affrontare i problemi del lavoro in questa fase di grandi e rapide trasformazioni. Tanto più se, come ricordavo prima, la nostra ricerca deve tener conto delle prassi sottostanti alle normative e della loro evoluzione.
Non vorrei generalizzare, ma la produzione di monografie nella nostra materia è inflazionata oltre misura, non solo a fini concorsuali. Con risultati spesso deludenti o del tutto inaccettabili: testi senza contenuti, scritti solo perché si devono riempire un certo numero di pagine.
Nel merito credo che i giovani debbano essere orientati, dai loro maestri in primis, non tanto a riesaminare argomenti tradizionali e già esplorati (come spesso capita) bensì a cimentarsi su temi nuovi, aperti a possibili sviluppi diversi. Così il test può essere più rischioso, ma anche più significativo. Anche per questo suggerirei temi con implicazioni di diritto comparato e sovranazionale (che del resto sono sempre più presenti anche nelle questioni di diritto nazionale).
Cosa pensa della ‘co-authorship’ e dei lavori interdisciplinari?
Gli scritti a più autori sono poco frequenti in Italia, specie nella produzione giuridica. Mi riferisco a testi frutto di riflessione e di stesura comune, non semplicemente composti di pezzi attribuibili singolarmente ad autori diversi.
La ricerca comune in vista di risultati condivisi è una attività che andrebbe maggiormente promossa, perché può arricchire gli autori e la loro creatività, nonché aprire prospettive più ampie di quelle percepibili da un singolo.
Personalmente ne sono convinto e ho cercato di impegnarmi in lavori comuni anche con economisti e con sociologi.
Gli argomenti di relazioni industriali si prestano in modo particolare a questo tipo di ricerca, perché questa materia è tipicamente interdisciplinare. Non è una disciplina, ma un crocevia di discipline, che comprende diritto, economia, sociologia e psicologia del lavoro.
Così si è sempre affermato e cercato di praticare dalle associazioni nazionali delle relazioni industriali e da quella internazionale, tutte costituite abbastanza di recente nel secondo dopoguerra.
La ricerca interdisciplinare sperimentata in questa materia ha presentato non poche difficoltà e prodotto risultati non sempre del tutto soddisfacenti, anche in paesi con maggiore tradizione che in Italia. Posso testimoniare per esperienza diretta che il confronto con gli economisti ha richiesto particolare impegno per capire e adattare i reciproci linguaggi e categorie; ma mi è stato particolarmente utile, anche a prescindere dai risultati ottenuti.
La caratteristica strutturalmente interdisciplinare delle relazioni industriali non ha facilitato il riconoscimento del suo status accademico, in Italia come in altri paesi dell’Europa continentale. Lo ho sperimentato negli anni in cui mi sono impegnato in queste ricerche, frequentando colleghi di altri paesi dove le relazioni industriali avevano ben altro sviluppo che in Italia.
Ricordo che negli Stati Uniti già negli anni ’50 del secolo scorso la materia era studiata con questo metodo in molte Università ed era l’oggetto specifico della scuola ad essa dedicata nella Cornell University da me frequentata nel 1962-63.
In Italia invece i corsi di relazioni industriali sono stati sconosciuti o marginali nei curricula universitari fino a tempi recenti e i cultori della materia hanno dovuto vincere non poche resistenze per vedere riconosciuta alle loro ricerche pari dignità con quelle relative alle discipline classiche.
Nonostante queste resistenze gli studi di relazioni industriali hanno contribuito a diffondere un metodo di analisi critica delle dinamiche collettive e industriali del lavoro, particolarmente importanti nel nostro paese dove questi temi sono stati tradizionalmente influenzati da ideologie contrapposte e da impostazioni unilaterali.
Credo che il metodo di reflexive critical thinking proprio delle migliori tradizioni di questi studi vada oggi riaffermato contro le tendenze ad assorbire le analisi dei rapporti individuali e collettivi di lavoro nell’impresa all’interno degli studi di management.
Con la consapevolezza peraltro che gli studiosi, al pari degli attori delle relazioni industriali, sono chiamati a interrogarsi sulle condizioni attuali di queste relazioni, sui motivi della perdita di efficacia della contrattazione collettiva e sulle modalità di adeguare gli strumenti e le strategie dell’azione collettiva alle mutate condizioni economiche e sociali.
Quando si partecipa ad un incontro scientifico, seminario, convegno, quanto conta considerarlo un colloquio a più voci, intervenendo liberamente, rispetto ad uno svolgimento dove prevale l’esposizione delle relazioni e degli interventi ‘programmati’?
Ho avuto molte occasioni di partecipare a incontri seminariali, in presenza e più di recente a distanza, in cui si discutevano di problemi comuni. E ho spesso rilevato la difficoltà di utilizzare questi incontri come una occasione di vero confronto di opinioni. Molto frequentemente si è trattato non di veri scambi di posizioni o di esperienze, ma di una sequenza di relazioni di solito preparate in anticipo da parte dei vari partecipanti.
Anche questo modo di procedere è condizionato da nostre abitudini accademiche, e non solo, che andrebbero superate. Ricerche e dibattiti con vero approccio interdisciplinare sono sempre più necessari, perché la evoluzione della nostra società, sotto l’influsso delle tecnologie digitali e della globalizzazione, ha accentuato la interdipendenza fra i saperi e in realtà fra i destini delle persone.
Un numero crescente di aspetti della nostra realtà e delle nostre vite sono interconnessi, dal livello globale a quello locale; per cui è impensabile che ricerche significative si possano concepire e svolgere ‘in isolation’, senza confronti veri fra persone e discipline che condividono lo stesso destino.
L’esperienza politica locale e quella nazionale sono state per Lei simili o molto diverse? È stato importante che siano capitate in quest’ordine temporale? E poi, si può dire che la Sua ‘militanza’ nel sociale e nel politico, a partire dal sindacato, è stata un contributo ‘da intellettuale’?
Ho già ricordato come la educazione giovanile e universitaria mi abbia portato a coltivare l’interesse per le questioni sociali e politiche. Questo interesse ha influenzato progressivamente le mie scelte successive.
Dopo la laurea e al mio ritorno dalla esperienza Usa ho trovato naturale, insieme con alcuni colleghi universitari (Bruno Manghi, Gian Primo Cella, con cui avevamo interessi simili), avvicinarmi al mondo sindacale, anzitutto partecipando ad attività formative e di ricerca organizzate dalla Fim e dalla Cisl di Milano.
Qui il leader era Pierre Carniti che proponeva e praticava un sindacalismo ‘nuovo’: nuovo per la forte militanza non priva di tratti radicali, per la attenzione alla elaborazione culturale e al rapporto con gli intellettuali, e non ultimo per un orientamento politico diverso da quello, in prevalenza filo democristiano, della Cisl storica, e invece vicino al socialismo e al partito socialista, allora rappresentato a Milano da Riccardo Lombardi.
I caratteri e le attività di questa organizzazione mi erano congeniali, come lo erano ai miei colleghi, anche perché si collegavano a idee e letture che avevo coltivato negli anni universitari. La esperienza e la collaborazione sindacale avviate allora si sono sviluppate negli anni successivi, in particolare con la Cisl e alle sue attività di formazione, ma in seguito anche con le altre maggiori confederazioni Cgil e Uil.
Queste esperienze, sia pure arricchite da quelle diverse intervenute nel tempo, dovevano influire sul mio modo di intendere le questioni sociali e del lavoro, e indirettamente quelle politiche e istituzionali.
Le attività e le responsabilità politiche si sono sviluppate dopo, e relativamente tardi nel corso della mia vita.
Come ho già detto, queste attività si sono svolte in una sequenza continua dal livello locale a quello nazionale; e con un passaggio graduale fra le responsabilità amministrative, nel comune di Milano, a quelle tecnico- gestionale, nella presidenza dell’Aran, fino alla esperienza ministeriale e parlamentare.
Ho sempre pensato che questa sequenza, nel mentre la vivevo e anche dopo, sia stata utile; lo è stata sicuramente per me. Mi ha permesso di accumulare nel tempo elementi di conoscenza e di esperienza preziosi per reggere le responsabilità via via più ampie che mi sono trovato ad assumere.
Una sequenza simile era spesso prevista e organizzata per l’attribuzione di responsabilità politiche all’interno dei partiti, e serviva per i singoli ad assumere i vari incarichi istituzionali e politici, quando questi erano largamente decisi dagli stessi partiti.
In realtà io non ho mai sperimentato questa ‘gavetta politica’, in quanto i miei vari incarichi istituzionali mi sono stati conferiti più per le mie competenze tecniche che per la mia affiliazione partitica. Del resto, non ho mai fatto, come si dice, molta vita di partito, pur non nascondendo la mia vicinanza al partito socialista. Non è stato diverso neppure quando sono stato eletto nelle liste di partito, da Rinnovamento italiano prima, all’Ulivo poi, e quindi alla Margherita e al Pd. Ho invece contribuito attivamente ai dibattiti interni a questi partiti, in particolare alla elaborazione delle loro linee programmatiche, che era un’attività congeniale alle mie inclinazioni e aspirazioni di ‘policy maker’.
In realtà mi sono sempre sentito più un uomo delle istituzioni che un politico di partito.
Il tradizionale cursus honorum partitico non esiste più, da quando i partiti politici hanno perso o abbandonato gran parte delle loro funzioni di selezione, reclutamento e formazione della classe dirigente. Anche se non hanno del tutto perso, né abbandonato, la loro influenza nel decidere sia le candidature elettorali sia gli incarichi pubblici di vario genere e livello.
Non credo possibile ricostruire sic e simpliciter quelle attività tradizionali dei partiti, né la sequenza da me sperimentata nel passaggio fra varie esperienze e responsabilità istituzionali. Ma certo, il vuoto creatosi per il venir meno di tali funzioni costituisce uno degli elementi di debolezza dei nostri sistemi democratici; e occorrerà pensare seriamente a come colmarlo.
Questo vuoto di preparazione e di organizzazione dei passaggi fra attività private, partecipazione politica e assunzione di incarichi pubblici, ha contribuito, beninteso con altri fattori strutturali, allo scadimento della qualità di molti eletti e rappresentanti nelle istituzioni e negli enti pubblici. Più in generale ha portato a svalutare l’importanza della esperienza e delle competenze nello svolgimento delle attività pubbliche; e di qui in altri settori ed evenienze della vita.
Ho avuto modo di verificare più volte le conseguenze negative di questa carenza sull’ attività parlamentare e di governo, sulla qualità delle proposte politiche e della stessa legislazione.
Tali conseguenze sono particolarmente gravi nelle questioni del lavoro, delle politiche e della regolazione giuridica ad esse relative. Le complessità tecniche e politiche di tali questioni, decisive per la vita di milioni di persone e ora accresciute dalle grandi trasformazioni in atto, non permettono improvvisazioni e genericismi; richiedono a tutti quelli chiamati a occuparsene esperienza e competenze adeguate, rigore ed equilibrio di analisi, oltre che onestà di intenti.
I temi del diritto del lavoro sono estesi, sembra che non abbiano confini. Se dovesse scrivere oggi l’indice di un manuale, farebbe ancora la differenza fra rapporti individuali e collettivi, o il riparto dei capitoli sarebbe un altro? E poi, Lei è co-autore di un manuale di diritto del lavoro italiano e di uno di diritto del lavoro europeo, il primo nel suo genere. Come è venuto in mente a Lei e a Massimo Roccella di scrivere il Diritto del lavoro della CEE alla fine degli anni ‘80?
I temi di diritto del lavoro considerati in Italia sono stati a lungo concentrati quasi esclusivamente sulla normativa riguardante i rapporti individuali di lavoro. Si sono allargati progressivamente nei decenni, dopo lo Statuto dei lavoratori, a seguito degli interventi legislativi succedutisi nel tempo.
Anzitutto si è cominciato a studiare qualche aspetto della regolazione del mercato del lavoro come il collocamento e la formazione professionale, anche se la maggior parte dei giuslavoristi non vi ha mai dedicato l’attenzione che meritano. Poi le vicende della concertazione e delle riforme ha sollevato questioni e interesse sui rapporti fra legge e contrattazione collettiva.
In seguito, hanno assunto rilievo i temi della flessibilità e della flexicurity proposti dalle guidelines europee, con le conseguenze ancora dibattute sulla normativa di tutela del lavoratore e sugli istituti di sicurezza nel mercato del lavoro.
Più vicino a noi l’impatto delle nuove tecnologie, della globalizzazione e poi delle grandi crisi sull’ assetto tradizionale della nostra materia hanno ulteriormente complicato e allargato il quadro.
Le normative europee prima, e poi la regolazione dei rapporti di lavoro oltre i confini nazionali, hanno richiesto una attenzione specifica anche dei giuslavoristi.
Questo allargamento della nostra disciplina e la alterazione dei suoi stessi fondamenti hanno ricevuto risposte diverse: di difesa dello status quo o di nostalgia delle vecchie regole del rapporto di lavoro, di ricerca di nuovi paradigmi non priva di fughe in avanti, e spesso di semplice disorientamento.
La evoluzione dei temi oggetto della nostra materia, proprio per la sua complessità e tuttora per i confini incerti, è solo in parte riflessa nei manuali, anche dei più moderni. Credo che il manuale non possa essere lo strumento adatto a darne compiutamente conto.
In effetti la complessità della nostra materia ha aumentato i dubbi che il manuale soprattutto nella sua struttura tradizionale sia ancora adeguato alla formazione dei giovani giuristi del lavoro. Esso presenta rischi opposti, di incompletezza e di enciclopedismo. Un rischio ancora più grave è di non agevolare la comprensione delle dinamiche in atto nella normativa e soprattutto nei rapporti fra tendenze normative e trasformazione del contesto e delle prassi.
Considerando questi rischi, ho evitato all’inizio del mio insegnamento di pubblicare dispense che riprendessero le mie lezioni, come allora si usava. Sono stato tentato, ma poi ho rinunciato, a preparare un tipo diverso di sostegno all’insegnamento, del genere Cases and Materials che avevo visto usare nei corsi americani di diritto del lavoro e di relazioni industriali. Gli esperimenti avviati nei miei corsi di mescolare casi pratici e insegnamento teorico avevano avuto, come ho detto, esiti alterni, e non ero convinto di poter adattare bene quella formula al nostro sistema. Forse mi è mancato il coraggio e il tempo di provare.
Quando più tardi mi sono deciso a pubblicare con tre colleghi - Franco Carinci, Raffaele De Luca Tamajo e Paolo Tosi- i due manuali di diritto del rapporto di lavoro e di diritto sindacale, la scelta ci è sembrata giustificata per il fatto che era un testo scritto a più mani con l’intento di mostrare orientamenti e prospettive diverse, che in effetti erano presenti fra gli autori, e quindi con la possibilità che il dialogo fra noi sollecitasse riflessioni e dialogo anche fra gli studenti.
L’esperimento è riuscito abbastanza bene, specie nelle prime edizioni del manuale, perché i vari capitoli sono stati discussi e confrontati fra gli autori, mostrando le diverse prospettive di analisi (quasi la co-authorship di cui dicevamo).
In seguito, questa interazione fra gli autori si è ridotta, anche perché questi hanno seguito percorsi diversi.
Il manuale di diritto comunitario europeo del lavoro costituisce una vicenda a parte. Personalmente sono stato sempre interessato dalle vicende europee, fin da quando Mengoni contribuiva alla prima collana di scritti di diritto del lavoro dei paesi della CECA.
Inoltre, la sollecitazione a occuparmi di comparazione giuridica, insieme con preziose indicazioni metodologiche, mi è venuta dal prof. Rodolfo Sacco, uno fra i primi e più importanti comparatisti italiani, a cui sono grato anche perché fu decisivo per farmi chiamare all’insegnamento di diritto del lavoro dell’Università di Pavia.
Le sue indicazioni metodologiche erano diverse, più sistematiche e organiche rispetto agli input ricevuti nei miei studi in corsi Usa. Qui avevo seguito con interesse un corso sui sistemi sindacali comparati tenuto da un grande esperto della materia, John Windmuller, come altri di origine e formazione tedesca. Era un corso ricchissimo di informazioni e di indicazioni di fonti internazionali che mi sarebbero state di grande utilità nelle mie analisi e attività seguenti.
Quanto al mio interesse per le vicende europee, esso fu sollecitato dal fatto che le mie prime ricerche in argomento avvenivano nel periodo di massimo sviluppo delle iniziative comunitarie, anche nella forma delle direttive, nel corso cioè dei cdd. ‘trenta gloriosi’.
Per di più in tale periodo avevo cominciato a frequentare le sedi comunitarie a Bruxelles e verificavo da vicino la realtà e la complessità del diritto del lavoro europeo. Vedevo in azione un ordinamento non completo ma articolato su più livelli, con una impostazione ‘plurilivello’ per noi nuova e che esprimeva forme di interazione con i diritti nazionali di grande interesse teorico e pratico.
Ho potuto verificarne alcune implicazioni concrete partecipando a commissioni di esperti di vari paesi incaricate di analizzare argomenti specifici per la preparazione di proposte e direttive. Mi piace ricordare in particolare la commissione sui temi della parità di genere e della non discriminazione cui partecipai insieme con Maria Vittoria Ballestrero e che ci fornì stimoli e riflessioni per affrontare questi argomenti ancora poco esplorati in Italia.
La combinazione tra queste mie esperienze e la riflessione comune avviata con Massimo Roccella, che si dedicò subito ad approfondire le vicende anche giurisprudenziali del diritto comunitario, portò entrambi a impegnarci nel tentativo di sistematizzare le nostre idee, anzitutto con scritti specifici e poi con la prima edizione del manuale. Tale manuale ha contribuito, mi auguro, a colmare un vuoto nelle conoscenze dei nostri giuristi circa il diritto europeo e spero anche ad accrescere la loro consapevolezza circa la importanza della costruzione europea per le politiche sociali e per i nostri destini comuni.
Si è chiusa di recente la Sua presidenza dell’Associazione internazionale del diritto del lavoro e della sicurezza sociale: pensa che sia un attore forte per interloquire a livello di policy globali ed anche locali?
La crescente importanza della dimensione sovranazionale della economia e la sempre maggiore interdipendenza fra paesi e territori hanno influito non solo sulla direzione delle nostre ricerche e sulle relazioni fra studiosi di diversi paesi, ma hanno anche dato rilievo e nuova vitalità alle associazioni internazionali di diritto del lavoro e delle relazioni industriali.
Queste associazioni ricevono sostegno non solo finanziario ma anche nelle attività di studio e di ricerca dalle costituenti nazionali, che hanno dimensioni e consistenza organizzativa e scientifica molto variabile.
Nel nostro paese, mentre la Associazione di diritto del lavoro (Aidlass) ha avuto un notevole sviluppo e ha svolto negli anni una consistente attività, la Associazione di relazioni industriali (Aisri) è nata più tardi, per iniziativa di Giugni, e ha risentito della scarsa considerazione accademica della materia e quindi del minore appeal verso gli studiosi anche giovani.
Ciò nonostante, ha contribuito sia pure con fatica a diffondere questo tipo di studi e di cultura, promuovendo varie attività di ricerca.
La domanda sul ruolo di queste associazioni internazionali è del tutto pertinente ed è stata oggetto di riflessioni periodiche anche nei dibattiti interni.
La intensità e qualità dei dibattiti e degli scambi di ricerca da loro attivati ha dovuto superare non poche barriere linguistiche e culturali, soprattutto quando le riunioni andavano oltre l’ambito europeo relativamente omogeneo, allargandosi alle altre grandi regioni (Americhe, Asia e da ultimo Africa).
In molti casi, e per molto tempo, non è stato facile andare oltre la mera giustapposizione di racconti sui diversi ordinamenti nazionali per arrivare a una comparazione critica e sistematica fra istituti nazionali. I risultati migliori sono stati ottenuti per lo più da piccoli gruppi di ricercatori, interni o esterni alle associazioni.
Queste difficoltà hanno ridotto le intensità del dialogo internazionale attivato da queste associazioni e talora la qualità dei risultati di ricerca. Per lo stesso motivo le analisi svolte in queste sedi sono risultate spesso poco utilizzabili per trarne indicazioni e proposte da sottoporre all’attenzione delle istituzioni internazionali competenti, in primis l’OIL che pure ha sempre sostenuto entrambe le associazioni.
Peraltro scambi utili di ricerca e di proposta con l’OIL sono stati frequenti da parte di singoli e di gruppi interni alle associazioni.
La debole capacità propositiva di queste attività associative ne ha ridotto anche la influenza nelle sedi istituzionali sovranazionali e la possibilità di dare indicazioni di policy allo stesso Oil. Questa organizzazione, forte di una meritoria attività centenaria di promozione dei diritti sociali, ma istituzionalmente e politicamente debole, ora più che mai ha bisogno di essere rafforzata per svolgere efficacemente la sua funzione.
L’evoluzione dei rapporti internazionali con la crescente interdipendenza fra sistemi giuridici e sociali, resa drammaticamente evidente dalla crisi pandemica, costituisce una sfida non solo per i decisori pubblici e per le parti sociali, ma anche per gli studiosi e gli operatori della nostra materia, con le loro associazioni. Sollecita tutti a rafforzare la dimensione sovranazionale delle loro analisi e delle loro proposte di policy.
La comparazione è sempre più una attività essenziale per comprendere la realtà e le vicende degli stessi ordinamenti nazionali.
La Costituzione italiana è un faro, specie nei periodi di crisi. Vuole indicare qualche disposizione non attuata o che racchiude promesse ancora troppo ‘mancate’?
Nelle risposte precedenti si è accennato come il nostro diritto del lavoro abbia attraversato vicende complesse e spesso tormentate, per motivi che qui non si possono ricordare.
Le alterne vicende della regolazione del lavoro hanno inciso in modo diretto anche negli istituti toccati dalla nostra costituzione, influenzando la loro attuazione in modi diversi e spesso non previsti.
La norma dell’art 36 sulla retribuzione sufficiente e proporzionata è nota per essere stata interpretata da una giurisprudenza creativa così da svolgere negli anni una fondamentale funzione di garanzia dei livelli retributivi dei lavoratori dipendenti, specie a sostegno dei salari più bassi e dei lavoratori più deboli.
Tale funzione, esercitata con continuità anche se con varie modalità applicative, ha supplito a lungo alla carenza di istituti di garanzia salariale quali operanti in altri ordinamenti, come in particolare i contratti collettivi con efficacia erga omnes e/o i salari minimi legali.
All’art 36 sulla retribuzione, che ha ricevuto una applicazione così ampia e creativa, fanno riscontro casi opposti di persistente ‘inattuazione’ di altre due norme costituzionali, in modi diversi l’art 46 e l’art 39. Le vicende sono note per cui mi limito a un commento sintetico.
L’ art. 46 è stato vittima di una visione conflittuale e non partecipativa delle relazioni di lavoro a lungo sostenuta dalla Cgil e rimasta prevalente nel sindacato, nonostante le diverse posizioni di Cisl e Uil.
Questa storica resistenza a introdurre istituti partecipativi nelle imprese (contrariamente per quanto è avvenuto per la partecipazione all’interno di molte istituzioni pubbliche) ha bloccato le proposte avanzate da più parti di dare seguito alla norma, peraltro mai veramente sostenute dalle maggioranze politiche in carica. Ha vanificato anche la trasposizione in Italia della direttiva sulla società europea (SE), che pure ammetteva la possibilità di adottare diverse varianti di partecipazione, proprio per tener conto delle tradizioni nazionali.
Un nuovo approccio al tema risulta ora da alcune esperienze della contrattazione decentrata, che hanno inteso valorizzare la partecipazione diretta dei lavoratori nelle imprese, ritenendola utile per rispondere alle nuove aspettative e conoscenze di questi dipendenti e per la stessa produttività aziendale, specie in contesti produttivi tecnologicamente avanzati.
Di recente la opportunità di riconsiderare la questione e la utilità di sperimentare anche in Italia forme di partecipazione, attivate per contratto collettivo se non per legge, sono state riconosciute dalle parti sociali più rappresentative in documenti recenti, come il cd. patto della fabbrica del 2018.
L’art. 39 nella sua seconda parte è stato quasi subito ritenuto inapplicabile, in sostanza incompatibile anche per la sua struttura non priva di reminiscenze corporative, con il sistema di pluralismo sindacale affermatosi nel dopoguerra.
La perdurante contrarietà da parte del sindacato, insieme con la mancanza di interesse e di reale intenzione della politica di intervenire in argomento, hanno decretato l’oblio e l’abbandono della norma.
Il problema della efficacia erga omnes dei contratti, a lungo ritenuto poco rilevante, ha ripreso urgenza negli ultimi anni a fronte della decrescente capacità dei contratti collettivi di diritto comune di garantire salari e condizioni di lavoro adeguati, specie in settori con debole presenza sindacale e per gruppi di lavoratori deboli.
Per rimediare a questa debolezza della contrattazione, evidenziata anche dal diffondersi di contratti stipulati da organizzazioni non rappresentative, spesso con salari e condizioni concordate al ribasso rispetto a quelle dei contratti più rappresentativi., sono state avanzate varie proposte di definire minimi salariali per legge.
Al che le maggiori confederazioni sindacali, preoccupate che un intervento legislativo in materia di salari minimi, possa creare effetti di spiazzamento della contrattazione collettiva, hanno proposto di riconoscere efficacia generale ai contratti nazionali almeno per la parte salariale :una soluzione che anche la Corte costituzionale, ha ritenuto non incompatibile con l’art 39, e giustificabile come applicazione dell’art. 36, laddove mira a garantire una retribuzione equa e sufficiente.
La situazione, come è noto, resta tuttora sospesa, a conferma della anomalia del nostro ordinamento sindacale, che è unico in Europa a essere privo non solo di sistemi per la efficacia generale dei contratti collettivi, ma anche di regole certe sulla rappresentatività delle organizzazioni stipulanti tali contratti. Una carenza tuttora non colmata, nonostante i molti tentativi di definire tali criteri da parte del legislatore e da ultimo da parte del Cnel.
La presidenza del Cnel cosa Le ha suggerito per rendere più efficace l’azione di questo organo ‘costituzionale’?
Il Cnel italiano, a differenza di altri Consigli della economia e del lavoro presenti in Europa, ha ricevuto dall’art.99 Cost il riconoscimento come ente di rilevanza costituzionale.
Nonostante questo riconoscimento, lo svolgimento delle sue funzioni è stato alquanto contrastato e la sua stessa esistenza di recente messa in dubbio, come ho sperimentato personalmente. Anche nei periodi di più intensa attività i risultati ottenuti sono stati spesso al di sotto delle aspettative e delle indicazioni costituzionali.
Lo riconosceva Gino Giugni, autore negli anni ’80 di una riforma che ne voleva riattivare e rafforzare le funzioni. Il bilancio fatto da Giugni indicava come il Cnel avesse un ruolo rilevante nella promozione di ricerche, nella preparazione di proposte legislative in materie di economia e di lavoro, e in attività di servizio quali la tenuta degli archivi della contrattazione collettiva.
Ma segnalava come i pareri del Consiglio e le iniziative di legge, anche quanto ben argomentati e sostenuti dalle parti sociali rappresentate nel consiglio, risentissero molto delle variabili vicende della nostra politica e faticassero a forzarne gli equilibri.
Questi rilievi mantengono ancora una parte di validità, anche se ho verificato personalmente come le riflessioni svolte nel Cnel abbiano spesso raggiunto conclusioni di grande equilibrio, esprimendo bene la expertise sociale e tecnica dei diversi componenti e la capacità di affrontare questioni controverse riducendo il dissenso fra le parti: un risultato di grande valore nel nostro paese.
Il punto forse più critico segnalato da Giugni, e rilevato anche nella mia esperienza, è che la disponibilità delle parti sociali di delegare al Cnel o di decidere in questa sede, è stata spesso limitata in questioni di loro diretto interesse che ritengono di definire direttamente fra loro e nei rapporti col governo.
È questo il caso dei criteri di rappresentatività, che per la parte dei sindacati dei lavoratori hanno trovato definizione in vari accordi interconfederali, peraltro rivelatisi di difficile applicazione, e che sono invece ancora non concordati fra le maggiori organizzazioni dei datori di lavoro, nonostante i tentativi del Cnel di propiziare una intesa.
Il confine fra il diritto al lavoro e i diritti sociali è ancora chiaro, perché il lavoro è necessario per accedere a molte opportunità. Penso a beni e servizi come la casa, la scuola, la salute, l’ambiente. La questione della parità ‘come minimo’ si sposta sui livelli essenziali e quindi sul riparto di competenze statali e regionali. Quali lacune vede sulle quali intervenire è più urgente che mai?
Una questione di grande rilevanza costituzionale e con implicazioni dirette per le questioni del lavoro è la definizione dell’assetto e delle competenze delle regioni.
La attuazione dell’ordinamento regionale in Italia ha alimentato grandi aspettative; per me è un ricordo giovanile ancora vivo. Essa doveva esprimere e attivare una logica virtuosa di sussidiarietà atta a valorizzare le risorse e le diversità dei nostri territori e in grado di imprimere dinamismo nelle scelte locali senza pregiudicare la unità e la solidarietà nazionali.
Non sono in grado di valutare i diversi aspetti delle attività regionali in questi decenni; ma le mie esperienze di amministratore e di governo mi hanno segnalato spesso la distanza tra quelle aspettative e le effettive realizzazioni, specie per l’uso parziale e talora distorto della sussidiarietà che ha portato a scelte regionali spesso divaricate fra loro e particolaristiche.
Le distanze e le diseguaglianze nel nostro paese, come pure la loro crescita in anni recenti, hanno motivi strutturali diversi e radicati; ma le politiche regionali in settori critici come i servizi pubblici e le politiche sociali non hanno operato efficacemente per ridurle, e talora le hanno favorite.
Il mio giudizio può essere più preciso e argomentato per quando riguarda le politiche del lavoro. Ripeto qui il mio giudizio critico sulla riforma costituzionale del 2001, in particolare per quanto riguarda la ripartizione delle competenze fra Stato e regioni in queste materie.
Ricordo sempre il rilievo del mio collega ministro del lavoro tedesco dell’epoca che non condivideva ne capiva la nostra decisione di riconoscere competenze alle regioni nella legislazione del lavoro; rilevava che la Germania, pur essendo uno stato federale, aveva escluso una simile scelta ritenendola pericolosa per la gestione unitaria del mercato del lavoro, pur decentrando ai lander ampi poteri di gestione amministrativa.
Le vicende di questi anni sembrano confermare le riserve mie e del collega tedesco. Le regioni hanno adottato scelte molto diverse fra loro in materia del lavoro, oltretutto sostenute da una stabilità dei governi regionali ben maggiore di quella degli esecutivi nazionali.
I vari tentativi e strumenti di coordinamento sperimentati finora si sono rivelati deboli e in ogni caso insufficienti a garantire unitarietà nelle direttrici principali delle politiche del lavoro.
Una revisione dell’assetto costituzionale in materia non è all’ordine del giorno, anche se sarebbe auspicabile. In assenza di iniziative in tale direzione resta la strada indicata dalla Corte costituzionale che è di praticare effettivamente la leale collaborazione fra stato e regioni.
Le trasformazioni in atto nei sistemi produttivi e nelle dinamiche del mercato del lavoro richiedono più che mai di essere governate con una visione innovativa e unitaria che sia in grado di contrastare le tendenze alla polarizzazione dei mercati del lavoro e alle diseguaglianze nelle condizioni e nelle opportunità di lavoro.
Ma per fronteggiare le sfide e le emergenze che ci attendono, a cominciare dalla gestione delle risorse del PNRR, non basta un coordinamento debole e di routine. Serve un patto solido e durevole fra parti sociali, stato e regioni per una gestione concordata delle maggiori questioni del lavoro e del welfare; sarebbe un contributo importante per affrontare con unità di intenti il futuro del lavoro e della nostra società.
Cosa può dire del diritto del lavoro ‘da oggi in poi’?
Il diritto del lavoro è stato sempre esposto, anche più di altre discipline, ai grandi cambiamenti della storia; e i suoi cultori si sono interrogati spesso su come reagire alle sfide poste da queste trasformazioni per mantenere il senso e i valori della nostra materia nei nuovi contesti economici e sociali.
L’accelerazione dei cambiamenti che abbiamo vissuto negli anni recenti, già prima della pandemia, ha reso questi interrogativi più difficili e talora inquietanti.
Il fatto è che i fattori alla base di questi cambiamenti, le tecnologie digitali e la globalizzazione, ora anche le perturbazioni climatiche e gli squilibri demografici, hanno alterato in modo strutturale i fondamenti su cui si è costruito il diritto del lavoro che conosciamo: in primo luogo la omogeneità del lavoro e dei lavoratori nella subordinazione, come la identità tradizionale della impresa emblematizzata dal fordismo; la unicità dei luoghi e dei tempi del lavoro, sfidata dagli strumenti del web; e non da ultimo gli ambiti nazionali entro cui si sono svolte tradizionalmente le vicende della regolazione e delle politiche del lavoro.
La questione centrale e più difficile che si è posta da anni alla nostra riflessione è come perseguire gli obiettivi di tutela e di promozione del lavoro, pensati per la fattispecie unitaria della subordinazione, nei confronti di prestazioni via via più differenziate e lontane dalla fattispecie originaria.
La ricerca di soluzioni ha coinvolto con varia intensità tutti i protagonisti dei vari ordinamenti nazionali, in alcuni paesi i legislatori, spesso la magistratura in funzione di supplenza, e meno di frequente le parti sociali con la contrattazione collettiva.
Le risposte sono state diverse e spesso incerte. Si riscontrano tentativi di ricondurre le nuove fattispecie agli schemi conosciuti della subordinazione per assicurare loro le tradizionali tutele; per altro verso in alcuni ordinamenti si sono create nuove figure giuridiche variamente intermedie fra lavoro subordinato e autonomo; oppure si sono realizzate forme di estensione parziale e adattamenti della disciplina storica del lavoro subordinato per rispondere ai caratteri e ai bisogni delle diverse fattispecie.
Queste diverse risposte alle nuove configurazioni del lavoro vanno analizzate nella loro diversità e nei motivi che le giustificano, per verificare se e come possano essere ordinate in una logica coerente e costituzionalmente giustificata.
Una idea guida suggerita dalle esperienze recenti di molti paesi e dalle riflessioni che le hanno accompagnate è di aprire la nostra materia, il diritto del lavoro, e anche le misure del welfare nuove e tradizionali, in una direzione universalistica che sia capace di comprendere tutte le forme di lavoro, come indica l’art. 35 della nostra Costituzione, ma che nel contempo permetta una selettività di forme di tutela e di promozione dei diversi lavori, rispondente alle loro caratteristiche e giustificata secondo i principi costituzionali.
Questa combinazione fra universalismo e selettività era alla base della idea dello Statuto dei lavori, avanzata anni fa anche da me, con un tentativo ispirato da un intento di razionalizzazione forse schematico e allora prematuro.
Le esperienze e i materiali normativi accumulatisi da allora forniscono nuovi elementi su cui riflettere per riprendere una ricerca che metta in grado le regole e le politiche del lavoro di perseguire efficacemente nel nuovo contesto gli obiettivi e i valori indicati.
L’esigenza di una ricerca simile si pone anche alle parti sociali e ai sindacati in particolare; anche essi sono chiamati ad adeguare le regole e le prassi contrattuali, costruite in gran parte per le esigenze dei lavoratori subordinati, alle nuove aspettative e conoscenze dei lavoratori della economia digitale.