TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

Il cambiamento epocale del lavoro

Entro 5 anni oltre la metà dei lavori oggi esistenti saranno modificati o scompariranno e altri ne emergeranno. Il World Economic Forum nel 2020 ha stimato che già entro il 2025 85 milioni di posti di lavoro potrebbero essere sostituiti in seguito a una diversa suddivisione del lavoro tra uomo e macchine, mentre potrebbero emergere 97 milioni di nuove professioni .

Non solo la rivoluzione digitale ma la questione ambientale e ora da ultimo la pandemia stanno profondamente cambiando la “società italiana delle organizzazioni” e il mondo del lavoro ereditati dal modello taylor-fordista del 900, anche se la sua eredità permane pesantemente nelle imprese, nelle pubbliche amministrazioni e soprattutto nel sistema normativo. Le organizzazioni gerarchiche sono entrate in crisi profonda ma stentano a scomparire nelle strutture e nella testa delle persone. Non è ancora cambiato il modello dominante caratterizzato  basato su prescrizione dei compiti procedure, mansioni, livelli, reparti,   gerarchia; saldamente rafforzato dai sistemi di rappresentazione e regolazione del lavoro fissati dal sistema normativo e delle relazioni industriali. Le idee di lavoro e di vita che le giovani generazioni d’altra parte hanno sono enormemente diverse da quelle delle generazioni precedenti, ma queste idee sono di solito svalutate con atteggiamenti di sufficienza o di antropologie che occupano di tribù strane.

Non basta osservare questo cambiamento epocale . Occorre progettare e sviluppare una new way of working, se possibile un nuovo mondo del lavoro .

Per vedere come fare partiamo dal caso più discusso durante la pandemia: il lavoro a distanza o smart work o lavoro agile o lavoro ibrido o lavoro ubiquo (comunque lo vogliamo chiamare). Nel seguito lo chiameremo ,come fa le legge, lavoro agile.

 

Il lavoro agile come esperimento per accelerare il cambiamento del modello di lavoro

Il lavoro agile è la punta di un iceberg di un modello di lavoro che cambia . Esso infatti riguarda non solo il dove lavorare ma il come lavorare.

Nel 2019, in Italia, solo il 50% delle grandi imprese, il 12% delle PMI, il 16% delle Pubbliche Amministrazioni avevano adottato per 1 o 2 giorni alla settimana forme di lavoro a distanza. Il lockdown imposto dall’epidemia di coronavirus ha generato dal 2020 un esperimento senza precedenti: oltre 6 milioni di persone hanno lavorato da casa. Questo processo è stato un booster per accelerare ulteriormente il cambiamento già in atto non solo nel dove ma anche nel come lavorare.  Ciò ha accelerato due grandi fenomeni in atto fin dagli anni Settanta: la remotizzazione del lavoro, resa possibile dalla digitalizzazione e la crescente professionalizzazione del lavoro con lo sviluppo dei lavoratori della conoscenza e l’ampio sviluppo dei team e delle comunità di pratiche. Il lavoro sta cambiando profondamente da molto tempo. Questi cambiamenti hanno toccato quote maggioritarie di lavoratori e sono destinate a aumentare esponenzialmente .

Si è aperto così un vasto esperimento organizzativo che non cesserà dopo l’emergenza pandemica, un gran numero di cantieri nelle imprese e nelle pubbliche amministrazioni che stanno generando un patrimonio prezioso di metodi e soluzioni, la cui portata forse non è inferiore a quello che ebbe taylor-fordismo o alla lean production. Per questo come avvenne allora, questa sperimentazione va documentata e condivisa.

Non si tratta solo di fissare le regole per il lavoro a casa su cui stanno lavorando e polemizzando il governo, le associazioni imprenditoriali, i sindacati, i giuristi e su cui scrivono i giornalisti. Si tratta bensì di comprendere, gestire e progettare quattro dimensioni fondamentali di un sistema del lavoro che si avvia a configurare un nuovo paradigma .

Quattro dimensioni strutturali della sperimentazione di nuove modalità di lavoro

 La prima dimensione della estesa sperimentazione del lavoro sviluppata in questi due anni riguarda il cosa, ossia il cambiamento dei contenuti del lavoro e delle organizzazioni:  lavorando non più nel flusso delle attività scandite dal tempo di presenza sul posto di lavoro e sotto il controllo della gerarchia, le persone si  sono in un numero crescente di casi avviate  a forme di lavoro costituite da ruoli professionalizzati modellati sulle specificità delle persone, in grado di governare i processi di lavoro e di connettersi responsabilmente con gli altri con l’uso di tecnologie:  e soprattutto ruoli responsabili di risultati . Si sono moltiplicate organizzazioni basate su teams relativamente autoregolati supportati da tecnologie digitali abilitanti. In una parola un gran numero dei sei milioni che hanno lavorato in remoto hanno sperimentato una new way of working che riequilibra l’autonomia delle persone e il potere regolatorio del management, simile a quella già esperita dai professionisti nelle organizzazioni ( Butera, Failla, 2008 ) e dai lavoratori della conoscenza (Butera, Bagnara, Cesaria, Di Guardo S . 2008) . Questo modo di lavorare ha favorito una elevata produttività e insieme ha consentito per lo più libertà nel lavoro e miglioramento della qualità del lavoro e della vita delle persone. In sintesi una way of working ben diversa dai modelli cripto- taylor-fordisti ancora diffusi in molte organizzazioni gestite ancora, per la grande maggioranza di lavoratori, attraverso mansioni prescritte e reparti gerarchici in “uffici fabbrica”.

La seconda dimensione riguarda il come, ossia come sono stati gestiti i percorsi per gestire il cambiamento. Si sono spesso superate le tradizionali modalità in cui il manager con i suoi diretti collaboratori definiscono a tavolino strategie e organizzazione e ne fanno “ordini di servizio”, applicati in modo omogeneo a larghe fasce di popolazione lavorativa. Il modo di lavorare, prevalentemente modellato ad hoc sulle specificità delle imprese e delle amministrazioni, adattato alle diverse fasce della popolazione e in moltissimi casi addirittura degli individui. Spesso questi percorsi hanno visto anche una partecipazione delle organizzazioni sindacali e un ascolto dei bisogni e istanze delle singole persone. In una parola una modalità di cambiamento processuale, personalizzato e partecipato.

La terza dimensione riguarda il perché avvengono cambiamenti nel lavoro . La pandemia è stato un evento drammatico che ha attivato una catalisi. In realtà l’environment, l’ambiente esterno del lavoro da tempo non è più quello che aveva modellato le regole del lavoro ereditate dal secolo scorso. La globalizzazione, le trasformazioni del mercato del lavoro, la rivoluzione tecnologica, i mutamenti demografici, il crescente mismatch fra offerta e domanda creando incertezze senza precedenti e richiedendo alle organizzazioni una capacità di resilienza e di gestione dell’inaspettato. Molti manager colgono queste sfide creando organizzazioni capaci di prontezza intrinseca, proattive, resilienti, antifragili (come si dice con brutti neologismi diffusi nel nuovo gergo manageriale) e sviluppando forme di organizzazione del lavoro innovative e adeguate alle caratteristiche e ai bisogni effettivi delle persone. Altri subiscono passivamente questo ambiente VUCA (Volatilità, Incertezza, Complessità e Ambiguità) conservando rigide e inadatte organizzazioni del passato.

La quarta dimensione riguarda il chi ossia le persone che sono cambiate e che hanno sempre più un diverso rapporto con il lavoro. Durante la pandemia è ulteriormente emersa una forte riconfigurazione delle aspirazioni e delle motivazioni delle persone soprattutto giovani e donne. Il così detto fenomeno della great resignation o big quit che si sta manifestando in tutti i paesi dopo la pandemia. Si discute se questo sia l’effetto di un rimbalzo post pandemico dopo l’immobilizzazione del mercato del lavoro, oppure della maggiore disponibilità di impieghi a tempo indeterminato, o di altro: ma esso rivela certamente una crescente insoddisfazione per il lavoro svolto, una tensione verso una migliore qualità della vita di lavoro e l’emergere prorompente di un nuovo “potere dei lavoratori”. Da una inchiesta Gallup risulta che solo il 5% dei lavoratori è contento di ciò che fa in fabbrica o in ufficio: ma non servono gli esperti della fuga dal lavoro che sono tanti ma architetti del nuovo lavoro che sono pochi, come scrive Marco Bentivogli[1] .

Queste quattro dimensioni che caratterizzano l’esperimento del lavoro agile si innestano in trasformazioni in atto da decenni e configurano potenzialmente una new way of working, un nuovo paradigma di lavoro, se esso sarà sviluppato da progetti, realizzazioni concrete e processi di diffusione.

Non posso fare a meno di ricordare che quando nel 1970 scrissi il libro I frantumi ricomposti. Ideologia e struttura nel declino del taylorismo in America circolavano parole alla moda come “centralità delle persone”, relazioni umane, engagement proprio come oggi: “parole magiche” della retorica manageriale che non avevano cambiato niente. Invece alla fine degli anni 60 stava cambiando davvero il mondo del lavoro. Si avviavano allora cambiamenti reali   che si allontanavano da quel modello taylor-fordista fino ad allora indiscutibile: il fiorire di esperimenti di new job e organization design che mostravano che poteva esserci una alternativa al lavoro in frantumi; la diffusione dei processi di organization development che svelavano alternative ai cambiamenti top down di organigrammi e mansionari; l’emergere di organizzazioni per processo, per matrice, a rete più adattive e flessibili sorte per la pressione del turbolent environment; la crescente insoddisfazione dei lavoratori testimoniata da dimissioni, sabotaggi, scioperi a gatto selvaggio e altro, ciò che fu chiamato il blue collar blues, l’amarezza degli operai. Il lavoro e le organizzazioni da allora cambiarono in America, in Europa e in Italia seppur solo a macchia di leopardo. Non si affermò però un nuovo modello che avesse una pervasività e sistematicità paragonabile a quello del taylor-fordismo.

 Ora però è possibile costruire sulle spalle di quei cambiamenti che da allora si sono moltiplicati e che sono stati accelerati dal lavoro remoto su larga scala imposto dalla pandemia.

Oltre la polarizzazione fra sostenitori e detrattori del lavoro agile

Si è aperta una aspra polarizzazione fra sostenitori e detrattori del lavoro da remoto/agile/smart work dopo l’emergenza sanitaria che rischia di diventare ideologia. Credo che sia una polemica fuorviante in primo luogo perché essa riguarda solo il dove e non il come lavorare ; in secondo luogo perché non tiene conto che le sperimentazioni durante la pandemia sono state diversissime fra loro, per contenuti, metodi, persone coinvolte, relazioni e soprattutto per esiti in termini di produttività e qualità della vita di lavoro. In terzo luogo perché non considera le enormi potenzialità di questa nuova fase di progettazione del lavoro.

Il lavoro agile che riguarda il dove lavorare era stato regolamentato dalla legge n. 81/2017 art. 18 che aveva battezzato il lavoro agile «quale modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici». Due recenti fonti regolamentari hanno innovato quella normativa: il decreto del Ministro per la Pubblica Amministrazione del 22 ottobre 2021 art. 1 e Il Protocollo d’intesa firmato il 7 dicembre 2021 fra Ministero del Lavoro e parti sociali. Ma il come lavorare rimane sullo sfondo di queste norme.

Programmi di sviluppo di new way of working

Cambiare insieme il come e dove lavorare non sarà ottenuto in virtù di norme e regole magari giuste e neanche da progetti manageriali top down magari ingegnosi preparati a tavolino. Ciò potrà avvenire solo con progetti di cambiamento entro le singole organizzazioni sostenuti da programmi di promozione e regolazione pubblica e di contrattazione collettiva, che vedano la partecipazione delle persone. Il tutto come parte di quei processi strutturali in atto da decenni a cui abbiamo accennato

Questi progetti dovranno essere guidati da strategie di valorizzazione: le migliori imprese e amministrazioni che hanno innovato le loro strategie e organizzazioni e che hanno arricchito il lavoro infatti prosperano economicamente e non registrano situazioni di disaffezione dal lavoro, mentre quelle che non lo hanno fatto fanno fatica sul mercato e non trovano lavoratori.

Questi progetti dovranno essere orientati alla progettazione di lavoro di qualità, ossia lavoro decente per tutti e lavoro professionalizzato sempre più diffuso a tutti i livelli. Il lavoro di qualità è la condizione necessaria da una parte per quel necessario aumento di produttività e innovazione che le organizzazioni italiane devono conseguire; e dall’altra parte per assicurare equità, opportunità, qualità della vita sia ad una popolazione di lavoratori scolarizzati sia a quella parte purtroppo troppo grande che ha condizioni di lavoro insoddisfacenti o che non ha lavoro.

Questi progetti saranno parte di più estesi programmi di cambiamento - chiamati di volta in volta digital innovation, enterprise 4.0, POLA, PIAO e altro –che non adottino formule standardizzate ma che progettino e attuino in maniera appropriata e integrata le multiple componenti del lavoro come gli aspetti legali, le infrastrutture digitali, le tecnologie di supporto, il mindset e la formazione di lavoratori e capi, la proporzione tra lavoro in sede e lavoro remoto e soprattutto, il lavoro in sè stesso e l’organizzazione. Al centro di questi cambiamenti vanno messe  le persone vere a cui dare voce.

A2A, Bayer, BIP, BNL, Bonfiglioli, Coesia, Comuni di Milano, Bologna, Enel, Eni, Exprivia, Inail, Intesa Sanpaolo, Danone, Leonardo, Luxottica, MEF, Mediolanum, Poste Italiane, Regione Emilia Romagna, Regione Lazio, Stellantis, TIM, Unicredit sono alcune fra le grandi imprese e amministrazioni italiane che in questi due anni hanno riprogettato il dove e il come lavorare. E lo hanno fatto integrando strategie di valorizzazione, progettazione del lavoro e dell’organizzazione, programmi di cambiamento.

 

Le mie proposte di azione

La mia proposta per i dirigenti, tecnici, sindacalisti di singole organizzazioni è quella di imparare da queste esperienze migliori di architettura del nuovo lavoro ubiquo (remoto e in sede) e di sviluppare progetti e programmi partecipati di cambiamento integrato di tecnologia, organizzazione e lavoro e di contribuire a diffonderli anche nelle grande platea delle piccole e medie imprese e amministrazioni minori.

La mia proposta per i poteri pubblici, le rappresentanze delle imprese, i sindacati, le università, ai media, oltre a approfondire il sistema normativo in linea con la natura del nuova lavoro, è quella di promuovere un piano di ricerche e soprattutto di attivare “ Patti per il lavoro” per supportare e diffondere i cantieri di cambiamento nelle organizzazioni private e pubbliche. Un esempio è quello realizzato dall’Emilia Romagna e descritto nel volume Bianchi, Butera, De Michelis, Perulli, Seghezzi, Scarano Coesione e ìnnovazione, Il Mulino.

La mia proposta per gli studiosi è quella di intensificare i progetti di ricerca e di ricerca-intervento per individuare e diffondere le best practices, per contribuire a sviluppare nuovi modelli di organizzazione e di lavoro; per individuare gli effetti positivi e negativi delle soluzioni adottate sulle performance delle organizzazione e sulla qualità della vita dei lavorator; per contribuire allo sviluppo di politiche trasversali.

La missione degli architetti del nuovo lavoro

Cruciale allora è lo sviluppo quel ceto di progettisti o architetti del nuovo lavoro, evocati da Marco Bentivogli e proposti fin dagli anni 70 da Davis e dall’International Council for Quality of Working Life ( Davis and Cherns; Trist e Murray).  Essi non saranno specialisti isolati come lo furono gli industrial engineers, i tecnici dei tempi e metodi della tradizione tayloristica ma invece manager, sindacalisti, pubblici amministratori, studiosi che nel fare il loro lavoro di gestione e innovazione collaboreranno insieme a progettare e mettere a terra nuove forme di lavoro, con la partecipazione delle persone .

Da quanto precede tre sono i principali obiettivi progettuali che dovrebbero essere perseguiti dagli “architetti del nuovo lavoro” nel maggior numero possibile di imprese e delle pubbliche amministrazioni . Essi sono a) la rigenerazione organizzativa , ossia lo sviluppo di organizzazioni di nuova generazione flessibili, autoregolate, reticolari, supportate da tecnologie digitali; b) la professionalizzazione diffusa , ossia il passaggio da mansioni prescritte e parcellari a ruoli e professioni a larga banda basati su responsabilità dei risultati, collaborazione con le altre persone e di uso delle tecnologie, controllo dei processi simbolici e materiali, senso della comunità. E naturalmente una formazione continua di qualità: new skills and new jobs; c) la promozione della qualità della vita di lavoro , ossia assicurare a tutti un lavoro decente e dignitoso e promuovere il miglioramento delle diverse dimensioni dell’integrità della persona: l’integrità fisica, l’integrità cognitiva, l’integrità psicologica, l’integrità professionale, l’integrità economica, l’integrità sociale e soprattutto l’ “integrità del sé”, ossia l’identità di ciascuno come persona integrale e la sua abilitazione.

Vediamoli in dettaglio

  1. La rigenerazione organizzativa

Innovare i modelli di organizzazione è cruciale per la produttività, l’innovazione, la qualità della vita di lavoro. Ma lo è anche per la democrazia e per l’ordine sociale.

L’organizzazione è stata tradizionalmente un antidoto a due fonti di disordine sociale, la follia degli individui e la sete di potere. La legge al posto dell’arbitrio del re, del padrone è alla base della civiltà occidentale. Ma la legge, anche quando è giusta, va attuata attraverso la progettazione e gestione dell’organizzazione reale ( Butera 2020, 1) fatta da sistemi di regolazione flessibili e democratiche e da processi di educazione.

 Le organizzazioni burocratiche e fordiste hanno certamente regolato le organizzazioni ma tentando di espellere la società dall’organizzazione, assegnando il potere solo alla gerarchia, consentendo la follia solo a chi comanda e creando sistemi per sorvegliare e punire tutti gli altri.

Le nuove forme di organizzazioni flessibili e democratiche che includano la società - con il suo disordine ma anche con la sua libertà e creatività- non ignorano il potere e la follia ma tendono a controllarli e a mitigarli attraverso un comune orientamento al fine e agli obiettivi e attraverso processi che chi scrive ha rappresentato nel modello 4C (Butera 2020 , 1 ) caratterizzato dalle seguenti dimensioni:

  • una cooperazione autoregolata, in base a cui le persone lavorano insieme con obiettivi comuni e condivisi, con comunità di pratiche, con regole sviluppate in parte dai membri stessi dell’organizzazione;
  • una conoscenza condivisa, ossia la condivisione, promozione e governo fra tutti i membri relative di una grande varietà e formati di conoscenza ai processi (sia interno che esterno alla organizzazione, sia attuali che potenziali);
  • una comunicazione estesa, basata su varie forme di comunicazione supportate da adeguati media che si estende oltre i confini dell’organizzazione;
  • una comunità performante orientata all’innovazione, ossia una organizzazione razionale e naturale fatta di team autoregolati.

Questo modello è alla base delle migliori organizzazioni espresse negli ultimi 20 anni . Essi sono stati l’esito di processi adattivi o innovativi ma non sono ancora diventati ancora un sistema.

Che cosa possono fare gli architetti del nuovo lavoro lavorando insieme con gli altri che vanno coinvolti nei cambiamenti? Quattro cose principali

a. Studiare, raccontare, tipizzare nuove forme organizzative virtuose e i percorsi per generarle realizzate nei tanti casi esemplari italiani e internazionali e farli diventare cultura e metodi generalizzabili: questo era avvenuto nel secolo passato con l'amministrazione di Maria Teresa D'Austria, con la fabbrica Ford, con il gruppo di via Panisperna, con la fabbrica Toyota, con il sistema del cinema di Hollywood, con gli Exceptional Teams (X Teams) della Nasa: modelli che si erano diffusi marcando un'epoca. E ora si può fare lo stesso con il WCM di FCA; con le fabbriche gioiello di Ferrari, Ducati, Dallara; con l’impresa rete governata di IMA e di Bonfiglioli; con l'Impresa integrale di Zambon; con la azienda generativa di Loccioni; con il cambiamento mission driven della Regione Emilia Romagna; con l’organizzazione scientifica planetaria a cui ha contribuito l’Italia che ha reso disponibile i vaccini anti Covid in un anno e tante altre. Oltre che con il modello storico e mai dimenticato della Olivetti degli anni 60 e 70.

b. Montare e gestire progetti e programmi di progettazione e realizzazione in specifiche organizzazioni volti a sviluppare ruoli responsabili, professioni a larga banda, sistemi sociotecnici autoregolati, comunità che apprendono, corporazioni cosmopolite, organizzazioni a rete governate, imprese responsabili, amministrazioni centrate sui servizi, piattaforme di innovazione, ecosistemi inclusivi.

c. Aiutare le PMI e le piccole amministrazioni pubbliche a rigenerarsi progettando e sviluppando a insieme tecnologia, organizzazione, lavoro: università, società informatiche e di consulenza, di formazione, ossia KIBS (Knowledge Intensive Business Support) e imprese leader devono offrire supporti professionali di qualità alta a costi sostenibili. Occorre ad esempio promuovere un Fraunhofer italiano per il trasferimento tecnologico . Per l’ lstat, come ricorda Dario Di Vico, sono solo 25,64% le imprese “proattive in espansione o avanzate” che sanno cosa fare e prosperano malgrado la crisi: le altre 74,36% (denominate statiche in crisi, statiche resilienti, proattive in sofferenza) avrebbero bisogno di cambiare strategia, mercato, organizzazione, sistema tecnologico, competenze: è difficile che ce la facciano senza aiuti qualificati.

d. La riprogettazione del lavoro non è un solo compito tecnico ma una sfida politica e ideale. Questo mezzo secolo stata ha visto storie di retorica o inefficienza di molti che nel pubblico e nel privato,avendo poteri in materia di politiche sul lavoro, si sono comportati da felloni ( ossia “chi rompe un legame di fedeltà”) violando gli articoli 1 e 4 della Costituzione e non assumendo responsabilità rispetto agli evidenti bisogni dell’economia e della società. Dalla metà degli anni 70 in Italia è cessato lo sforzo di architettare un lavoro e organizzazioni di nuova concezione.

Lo avevano fatto Roosevelt con il New Deal; lo avevano fatto De Gasperi, Olivetti, Mattei, Saraceno, Trentin, Carniti durante la ricostruzione post bellica; lo aveva fatto Schimdt con la Mittbestimmung; lo aveva fatto Palme con l’Industrial Democracy; lo avevano fatto Clinton e Gore con il “Reinventing Governement”.

Ora il PNRR offre ”, a chi fa politiche industriali e del lavoro, ai manager, ai sindacalisti, agli scienziati, una nuova finestra di opportunità di mettere in campo “architetti del nuovo lavoro”.

 

 

  1. La professionalizzazione diffusa

 

 Il lavoro nella quarta rivoluzione industriale sarà costituito da innumerevoli e cangianti ruoli nuovi o profondamente modificati, generati non da ineluttabili “effetti delle tecnologie” ma dalla progettazione e gestione del lavoro di cui abbiamo parlato.

Il nuovo modello del lavoro - intellettuale e manuale, in presenza o remoto-che già si profila sarà basato su conoscenza e responsabilità, dovrà essere in grado di controllare processi produttivi e cognitivi complessi, richiederà competenze tecniche e sociali. Un lavoro che susciti impegno e passione. Un lavoro fatto di relazioni tra le persone e con le tecnologie. Un lavoro che includa anche il “workplace within”, ossia il posto di lavoro “dentro” le persone ossia le loro storie lavorative e personali, la loro formazione, le loro aspirazioni e potenzialità.

Le diversissime attività contenute nei lavori vecchi e nuovi della quarta rivoluzione industriale e quelli evidenziati durante la pandemia nella sperimentazione del lavoro agile hanno alcuni elementi in comune: producono conoscenza per mezzo di conoscenza, forniscono output economicamente e socialmente tangibili ossia servizi di valore per gli utenti finali (persone, famiglie, imprese) oppure servizi per la produzione a strutture interne alle organizzazioni (terziario interno). Quando l’output è una relazione, esso attiva conoscenze e competenze contestualizzate e personalizzate (per es. un consulto medico, un parere legale, una lezione, un articolo giornalistico, una fisioterapia, un servizio al tavolo etc.) e la capacità di presa in carico dei bisogni del cliente.

La componente di base del nuovo lavoro è rappresentata dai ‘ruoli aperti’, lo abbiamo anticipato. Questi ruoli non sono le mansioni prescritte nel taylor-fordismo ma “copioni”, in cui vengono definite aspettative formalizzate che divengono “ruoli agiti” allorché vengono animati, interpretati e arricchiti dagli attori reali, ossia dalle persone vere all’interno delle loro organizzazioni o del loro contesti. In opposizione all’homo laborans, emerge l’homo faber che esercita le  conoscenze e ‘maestrìa’ come impulso umano fondamentale, desiderio di svolgere bene il lavoro per se stesso, come dice Sennet.

I  ruoli emergenti ( nuovi o trasformati; fra loro diversissimi per contenuto, livello, valore, competenze richieste ) saranno tutti basati su quattro componenti comuni:

a) responsabilità su risultati materiali e immateriali, economici e sociali, strumentali ed espressivi, nonché sul valore che questi risultati hanno per l’economia, l’organizzazione, la società;

b) autonomia e il governo dei processi di lavoro, sia i processi di fabbricazione di beni sia quelli di elaborazione di informazioni e conoscenze, di generazione di servizi, di ideazione, di attribuzione di senso, di comunicazione . Processi che la persona sia in grado di padroneggiare, migliorare e perfezionare;

c) gestione positiva delle relazioni con le persone e con la tecnologia, ossia come lavorare in gruppo, comunicare estesamente, interfacciarsi con le tecnologie;

d) il possesso e continua acquisizione di adeguate competenze tecniche e sociali.

In un contesto in cui mansioni regolamentate, profili definiti da curriculum scolastici, mestieri consolidati, professioni ordinistiche vengono senza posa resi obsoleti e sostituiti con altri che non hanno ancora nome, come sarà possibile per le persone mantenere e sviluppare una work identity?  Come sarà possibile per i policy makers programmare il mercato del lavoro e la scuola? Qualcuno ha proposto di far ricorso alle competenze, ma esse sono solo componenti richiesti da ruoli e professioni: sarebbe come ricorrere alle molecole quando non siamo capaci di rappresentare e nominare gli oggetti e gli esseri viventi che esse vanno a comporre.

Conosciamo già un dispositivo che consente di portare a unità diversissimi lavori fortemente differenziati per livelli di responsabilità, di remunerazione, di seniority: quello dei mestieri (ahimè in gran parte distrutti dalla rivoluzione taylor-fordista) e delle professioni (ahimè ristrette entro i confini degli ordini professionali: medici, giornalisti, ingegneri, geometri etc.).

Gli innumerevoli ruoli nella quarta rivoluzione industriale infatti possono e devono essere raggruppati in mestieri e professioni nuovi, caratterizzati da un ampio dominio di conoscenze e capacità costruite attraverso un riconoscibile percorso di formazione e da un “ideale di servizio” caratterizzante e impegnativo. Non declaratorie ma “dinamiche strutture del sistema sociale e produttivo” (Parsons).

Il modello del mestiere e della professione racchiude infatti diverse funzioni convergenti: esso è al tempo stesso a) parte essenziale del sistema di erogazione di un servizio, b) fonte primaria della identità lavorativa delle persone malgrado i cambi di attività, c) sistema di gestione e sviluppo delle persone che individua percorsi formativi e di sviluppo in cui le persone si possono orizzontare. Il grafico seguente rappresenta le funzioni convergenti del modello professionale.

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Le nostre ricerche ci inducono a dire che il paradigma dominante del lavoro nella quarta rivoluzione industriale potrà proprio essere quello dei mestieri e professioni dei servizi a banda larga (broadband service professions). Perché questa definizione? A banda larga, perché questi mestieri e professioni devono poter contenere un altissimo numero di attività diverse per contenuto, livello, background formativo; servizi resi sia al cliente finale sia alle strutture interne dell’organizzazione perché sono essi sono il vero scopo oggetto dell’attività professionale .  Questo costrutto permette alle persone di passare da un ruolo all'altro senza perdere identità; permette una visione e una strumentazione a chi programma lavoro e formazione.

Tutti conosciamo il mestiere del carpentiere (che include il giovane apprendista che lavora in una ditta di infissi e il grande montatore di tralicci Tino Faussone del  La chiave a stella  di Primo Levi) e la professione del medico (che include il giovane praticante e il primario, il medico ospedaliero e il libero professionista, l’ortopedico e lo psichiatra). Il modello del mestiere e della professione include un’estrema varietà di situazioni occupazionali concrete in cui potrebbere rientrare in un numero limitato di broadband profession  . Non si tratta di inventare nomi e profili ma di potenziare i processi di concreta architettura dei nuovi lavori (job design, job crafting) e di consolidare poi alcuni pochi mestieri e professioni su cui investire in termini di formazione e sviluppo.

Degli “architetti del nuovo lavoro” e delle sue diverse professioni in esse contenute abbiamo parlato: ad esempio quelle del manager di impresa, dell’ imprenditore, del knowledge owner di una funzione aziendale, del consulente, del professore universitario, etc.. Fondamentali sono le professioni dei ricercatori e degli scienziati che assicurano l’innovazione nelle conoscenze teoriche e nelle tecnologie. Entrambi proverranno da studi universitari rigorosi e probabilmente di nuova concezione.

Per quanto riguarda i tecnici e i professional, alcuni mestieri e professioni saranno specifici per settori. Per esempio nel settore abbigliamento mestieri come modellisti, stilisti, sarti, tecnici del taglio delle confezioni, tecnici del rammendo. Altri saranno trasversali come i venditori di servizi; i progettisti customizzatori; i tecnico-commerciali; i tecnici informatici; i professionisti dei social media; i capi intermedi come coach capaci di insegnare a imparare; i project leader e coordinatori capace di fare e far sapere; i professionisti negli acquisti materie prime a livello globale; i tecnici di logistica integrata;  i tecnici di controllo delle gestione economica e del benessere organizzativo; i tecnici corporate con piena conoscenza linguistica in grado di muoversi globalmente. Per essi lo sviluppo degli ITS (Istituti Tecnici Superiori) e delle lauree professionalizzanti sono uno dei terreni di sviluppo di new jobs e new skills .

Le professioni e i mestieri citati non copriranno ovviamente tutto il mondo del lavoro ma rappresenteranno il posizionamento baricentrico, come gli artigiani lo furono nel Rinascimento, i liberi professionisti nel 700, gli operai di fabbrica nella rivoluzione industriale. Le service professions potranno costituire la locomotiva che riqualificherà il resto del mondo del lavoro.

Il modello dei mestieri e professioni di servizio potrebbe divenire un paradigma di riferimento plausibile anche per i lavori operativi, anche per quelli più umili che non richiedono elevata formazione scolastica? Forse sì.

E’ plausibile la prospettiva di un “professionalizzazione di tutti”, anche di giovani che entrano nel mondo del lavoro, degli attuali NEET, dei disoccupati temporanei, delle persone in cerca di nuove competenze per nuovi posti di lavoro: aiutandoli a imparare ad apprendere, a contribuire a rafforzare la propria identità lavorativa e l'identità umana. Wilensky nel 1964 scriveva un memorabile articolo intitolato “The professionalization of everyone?” richiedendo per questo ampio professionalismo solo due requisiti: il possesso di una conoscenza distintiva   e l’ideale (l’orientamento) al servizio. Questi requisiti erano assenti nel lavoro del taylor-fordismo e della burocrazia weberiana, anche nei lavori qualificati: in essa la conoscenza e la responsabilità sui risultati appartiene all’organizzazione e le persone sono tenute a svolgere le mansioni assegnate e rispondono alla gerarchia non ai clienti. E’ un “futuro professionale” quello che qui intravediamo. Esso, per essere attuato su larga scala, richiede quel   di architettura dei nuovi lavori e di progettazione formativa innovativo che abbiamo prima tratteggiato.

Ma, ammesso che si si strutturi un “futuro professionale su cui si progetteranno i new jobs e i new skills, sorge a questo punto una domanda. Ci sarà lavoro per tutti? Ma a questa abbiamo risposto con  con un altro lavoro ( Butera 2020 ,2.

In sintesi il modello di progettazione del lavoro sviluppato dalla Fondazione Irso e adottato in un gran numero di ricerche e di progetti è rappresentata nella seguente tavola( Butera e Di Guardo ).

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  1. La qualità della vita di lavoro e l’abilitazione della persona

Al centro di questo processo di ridefinizione del lavoro che abbiamo descritto c’è la persona e la  integrità o qualità della sua vita di lavoro , che di seguito elenchiamo.

  1. L'integrità fisica delle persone-sicurezza e salute fisica- è la dimensione fondamentale. Mettere la salvaguardia della integrità fisica delle persone al centro della progettazione e gestione dell’organizzazione e del lavoro si deve e si può, non solo con le norme ma anche e soprattutto con la prevenzione e la consapevolezza ottenute attraverso appropriati interventi sui processi e sull'organizzazione .
  2. L' integrità cognitiva è la capacità di comprendere i processi e i fenomeni del lavoro: oggi vi sono persone di 50 anni che in un laminatoio, in un pastificio, o in una centrale di smistamento dell'energia elettrica si trovano di fronte ad un computer che visualizza dati che rappresentano fenomeni reali da controllare attraverso dati: essi se non comprendono quei dati e l’uso decisionale probabilmente verranno espulsi dal quell’ambiente di lavoro che cambia. Poiché l'informatica consente di rappresentare le cose con visualizzazioni perfettamente comprensibili anche da una persona con la V° elementare, la progettazione tecnologica deve assumere criteri di ergonomia cognitiva che servano a mantenere al lavoro le persone al più lungo possibile .
  3. Un'altra dimensione della Qualità della Vita di Lavoro è l'integrità emotiva. Fatica mentale, stress, tensione, nevrosi, psicosi sono in molti casi co-generate da carichi di lavoro mentale e da una organizzazione del lavoro inadeguata. Nelle condizioni in cui alle persone viene richiesto sempre di più, l’organizzazione del lavoro non deve danneggiare ma deve proteggere le persone.
  4. Il quarto criterio è l'integrità professionale: le persone hanno diritto a un giusto salario, a condizioni di dignità sociale, alla protezione verso la perdita del lavoro, al welfare. Esse hanno anche bisogno di veder riconosciuta la propria identità professionale, di proteggere ciò che può essere valorizzato della propria esperienza, di predisporsi ad apprendere delle cose nuove. Quindi bisogna aumentare e render chiare competenze, ruoli, formazione .
  5. L'integrità sociale , o work life balance è molto importante: la famiglia, gli amici, il contesto sociale non devono essere minacciati dal lavoro. Non è accettabile che chi lavora in un piccolo paese dell'Emilia che esce dal lavoro, ha tempo per la famiglia e si trova con gli amici viva bene mentre chi lavora nelle grandi metropoli come Milano o come Roma passa ore a viaggiare e arriva in quartieri dormitori , rischiando di sradicarsi dalle  relazioni familiari e sociali . Riforma dell'impresa e riforma delle città devono essere interconnesse, avendo la persona al loro centro.
  6. L'ultimo punto e il più importante di tutti, è l'integrità del sé. Essa non è solo la somma di tutto quanto abbiamo detto prima. Se c'è un attacco all'integrità emotiva o all'integrità cognitiva, se ci sono dei turni impossibili, una persona potrebbe non sapere più neanche chi è. Ma anche quando nessun altra dimensione dell’integrità sia stato violata potrebbero esserci casi in cui la persona non riconosca il proprio (o i propri) “sè”: quello che Durkheim chiamava anomia, che Marx chiamava alienazione e che Mounier e Maritain chiamavano mancato autoriconoscimento di sè come persona. In questo mondo di grande cambiamento conservare il senso dell'identità è vitale per le persone, per le organizzazioni e per la società. Il riconoscimento di sè non è contemplazione ma per un verso mobilitazione di energie per la autodifesa dell'integrità di tutte le dimensioni della persona e per altro per la valorizzazione e l'affermazione di sè in nella "lotta per il reale " e nella "padronanza dell'azione" come dice ancora Mounier.

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 Il concetto di persona ( invece che quello di individuo, soggetto, ruolo) che adottiamo nel nostro programma di ricerca è legato a quattro assunti: la centralità e assolutezza dell'uomo, la relazione con l’altro e la comunità, la capacità di agire, la relazione con sè. Sul primo punto, come chiarisce Abbagnano richiamando Kant "gli esseri ragionevoli sono chiamate persone perchè la loro natura li indica già come fini in se stessi vale a dire come qualcosa che non può essere adoperato come mezzo" . La relazione con l'"altro" è la seconda dimensione del concetto di persona: "polo di tutta la vita intenzionale attiva e passiva e di tutti gli abiti che crea" (Husserl), l'"esserci' ( Heidegger) . La capacità di agire è richiamata da Scheler quando scrive  "La persona è data solo laddove è dato un poter fare che precede l'agire effettivo; dove vi è dominio delle possibilità di azione "  . Il rapporto con sé  è , come abbiamo detto, la dimensione più importante: "La persona è un essere intelligente e pensante che possiede ragione e riflessione e può considerare se stesso ..in diversi tempi e luoghi; e lo fa attraverso quella coscienza che è inseparabile dal pensare ed essenziale ad esso" (Locke) ; "Il fatto che l'uomo possa rappresentarsi il proprio io lo eleva infinitamente al di sopra di tutti gli esseri della terra" (Kant)

L'idea di abilitazione personale o empowerment della persona che è alla base dell’architettura del nuovo lavoro si allontana quindi dall'uso fatta della letteratura manageriale che allude prevalentemente ad una evocazione a prendersi carico dell'incertezza dalle strutture agli individui. Invece esso implica lo spostamento del "locus of control" da fuori a dentro e l'aumento della capacità di "coping " a situazioni stressanti o ansiogene “ . Questo implica una doppia richiesta strutturale e soggettiva i) di nuove e più flessibili strutture organizzative e ii) di valorizzazione delle persone.

L’abilitazione personale o empowerment della persona è quindi “ il processo attraverso il quale un individuo o un gruppo di individui migliorano la propria abilità e abilitazione ad agire individualmente e in cooperazione con gli altri per controllare i processi di lavoro, influenzare positivamente le strutture e migliorare le performance di un sistema socio-tecnico e la propria stessa integrità della vita, grazie alle proprie condizioni congiunte di forza e sanità fisica, livello di comprensione e competenza, stabilità emotiva, abilità professionali, integrazione sociale, fiducia in se stessi (Butera 1992)

 

[1] Bentivogli, M. Lavoro a umanità aumentata, in L’Espresso, 23 Novembre 2021

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