1. Introduzione: questione di metodo (di ricerca). Presentazione dell’intervento.
Ci sono poche sedi in cui discutere congiuntamente di contenuti e di metodo di ricerca. La riflessione avviata in questa sede sui progetti di ricerca PRIN finanziati in materia di lavoro è davvero significativa, perché consente di valorizzare la complementarietà di percorsi di ricerca diversi, che confluiscono nella valorizzazione dei diritti delle persone che lavorano.
Il ringraziamento per avermi coinvolto oggi non è, quindi, formale, ma teso a valorizzare l’importanza per il diritto del lavoro della ricerca finanziata dall’esterno (da enti pubblici, privati, nazionali e UE) come motore della trasformazione della disciplina, dei contenuti e del metodo, appunto.
Perché è di trasformazione vorrei parlarvi, con un confronto privilegiato all’approccio interdisciplinare della ricerca e con attenzione specifica sull’attività svolta dall’Unità di Milano. Nell’acronimo di progetto, Working Poor NEEDS, io mi concentro soprattutto sulla D di decent work. Come altri prima di me hanno ricordato, dobbiamo allontanarci il più possibile dall’uso retorico dei diritti per avvicinarci a quella platea (descritta dalla coordinatrice Marina Brollo) di lavoro povero variegata, non certo monolitica, diversa per età, genere e, per la parte che mi interessa in questa sede, per ragioni di cittadinanza. E’ di migranti che vorrei parlavi oggi.
Nel contesto del lavoro povero, la questione migrazioni, ci rende evidenti cause e degli effetti che lo status produce sui singoli lavoratori e sulle singole lavoratrici che – in mobilità per ragioni, non solo di lavoro – si ritrovano a svolgere attività lavorativa in paesi diversi da quelli di origine. Sono convinta che il diritto del lavoro in trasformazione di cui misuriamo la sostenibilità nella fase post pandemica debba tenere in considerazione il lavoro prestato ai «margini» ovvero al di fuori del core più tradizionale della disciplina, quello del lavoro regolare o, comunque, non sfruttato in ragione dello status.
Negli ultimi tre anni, l’Italia è stata oggetto di tre visite di relatori speciali ONU (nuove forme di schiavitù, diritto alimentare, inquinamento e conseguenze), che ci parlano, da una diversa prospettiva, di lavoro povero in una complessità inusuale per i nostri studi. Gli esiti delle visite dovrebbero essere raccontati ai nostri studenti nelle aule universitarie.
Per evitare ogni approccio retorico al tema (e retorico potrebbe apparire un mero rinvio al rispetto degli standard del lavoro decente fissati dall’OIL o una discussione tutta teorica sulla portata della dignità del lavoratore).
A partire da un progetto di ricerca-azione che coordino , vorrei offrirvi alcune considerazioni sia di metodo che di contenuti di una ricerca attenta ai margini del diritto del lavoro, quelli in cui emergono le questioni di sfruttamento del lavoro e in cui ricompare anche il sindacato autonomo, di base, che acquisisce sempre più i connotati identificativi del sindacato etnico, nel senso che associa lavoratori che appartengono alle stesse comunità e gruppi di provenienza .
Un ragionamento giuridico in termini di ricerca-azione partecipativa ci impone, come giuristi, uno sforzo di co-costruzione di conoscenza, attenta al funzionamento delle regole nei contesti in cui trovano applicazione e sottoposta a meccanismi ciclici di verifica che vedono nel momento della implementazione un’occasione per testare le riflessioni di carattere dottrinale e affinare tali riflessioni alla luce dei dati empirici e delle esperienze dei partecipanti alla ricerca (ovviamente non solo ricercatori) .
La ricerca giuridica ha bisogno di dati empirici non necessariamente di dati quantitativi, ma anche qualitativi mirati per proporre interventi su determinati contesti, per costruire percorsi di prevenzione di fenomeni complessi, una prevenzione ovviamente intesa non solo come attività di attuazione di misure ex d.lgs. 81/2008.
A questa prima conclusione, come segnalato di recente , occorre aggiungerne una seconda. I percorsi di co-costruzione degli interventi di prevenzione consigliano di trasformare il discorso tecnico-giuridico che qualifica l’usuale riflessione in materia di salute e sicurezza, un contesto di sicuro già sensibile al tema dei migranti, in un meno tradizionale discorso che comprenda gli effetti delle regole (non solo di salute e sicurezza: v. regole sugli status) sulla salute della persona immigrata che lavora, più o meno regolarmente in molteplici settori produttivi.
Le domande rilevanti per la ricerca giuridica sensibile alla sicurezza sul lavoro applicata ai migranti sono molte: aprire agli immigrati il mercato del lavoro regolare, oggi più flessibile del passato, aiuterebbe a garantire la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro? Una riformulazione delle regole di accesso al lavoro regolare potrebbe garantire una maggiore tutela della salute del lavoratore e della lavoratrice migrante? Affrontare il tema dello sfruttamento lavorativo anche con gli strumenti del diritto antidiscriminatorio e non solo con le regole del codice penale può aiutare il migrante sfruttato a ottenere giustizia, anche a prescindere dalla costituzione di parte civile in un processo penale? L’abrogazione del reato di ingresso e soggiorno illegale regolato nell’art. 10-bis del t.u. sugli stranieri non consentirebbe un maggiore rispetto delle regole del t.u. su salute e sicurezza del 2008?
Una lettura integrata del diritto della sicurezza sul lavoro nella logica dei determinanti sociali della salute, consente di prospettare margini di miglioramento interpretativo dell’assetto regolativo dato. Nel senso che il perimetro tradizionalmente percorso dal diritto della sicurezza sul lavoro deve includere in modo strutturale il legame tra vulnerabilità del migrante e paradigma protettivo del diritto del lavoro.
2. Il lavoro degli immigrati in agricoltura come focus delle politiche di prevenzione dello sfruttamento. Alcune istruzioni operative.
Nella pubblicazione a stampa della Rivista Lavoro e diritto 1/21 (citata nella nota n. 3) è scomparsa questa figura che inserisco oggi, in questa sede, per sostenere un ragionamento di prevenzione dello sfruttamento lavorativo a partire dagli strumenti di diritto del lavoro.
Come a dire che la questione del lavoro ai «margini» su cui oggi vorrei focalizzare l’attenzione delle unità di ricerca, ci impone di riflettere – come disciplina – della rappresentazione grafica che la FRA (European Union Agency for Fundamental Rights) ha fatto delle forme e alla gravità dello sfruttamento dell’attività lavorativa. L’idea che si intende sostenere è che non si può evitare di trattare le questioni che idealmente l’Agenzia di Vienna pone al diritto del lavoro, soprattutto nella dimensione privatistica e graficamente ricondotte al Diritto a condizioni eque e giuste sancito dall’art. 31 della Carta dei diritti fondamentali UE. Il diritto fondamentale inserito nella Carta (art. 31 appunto) correlato alle Altre forme di sfruttamento dell’attività lavorativa, di cui rappresenta lo specchio riflesso. Questo schema grafico, riproposto anche in apertura nel Piano triennale di contrasto allo sfruttamento e al caporalato in agricoltura, individua non solo i confini necessariamente più ristretti di rilevanza penale delle peggiori forme di lavoro, poggiandoli su una base comune in cui si colloca lo sfruttamento dell’attività lavorativa. La grafica dello sfruttamento e della sua intensità, consente di accompagnare la complessa riflessione giuridica in materia, con considerazioni relative all’incidenza fattuale dei fenomeni vietati (molto ridotta o minimale per l’apice, riduzione in schiavitù); consente di distinguere i singoli contenuti (da un massimo di gravità a una gravità ridotta, collegando i fenomeni alla loro rilevanza penale, parziale, rispetto al complessivo intervento regolativo); consente di immaginare una traduzione del continuum fenomenologico rilevato dalla sociologia con confini giuridici rigidi, ma solo all’apparenza. In fase di applicazione giudiziaria, le differenze risultano sfocate, confermando applicazioni non uniformi. Come è stato ricordato, tra una fattispecie e l’altra non sempre vi è una cesura netta o, comunque, non esiste una cesura netta tra le altre forme di sfruttamento lavorativo e le forme di grave sfruttamento lavorativo che si collocano alla base.
La rappresentazione grafica offerta dalla FRA, impone a noi giuristi del lavoro che discutiamo di trasformazione di non concentrarci solo sulla
dimensione della repressione penale dei fenomeni estremi, ma di concentrarci sulla parte più bassa della piramide, dove c'è quel confine tra lo sfruttamento ordinario e lo sfruttamento qualificato penalmente.
Sono due le riflessioni conclusive che vorrei proporre alle unità di ricerca attente al decent work.
A partire da questa premessa e nei pochi minuti a disposizione, vorrei stimolare l’attività delle unità di ricerca nei confronti della costruzione delle policies in materia, percorsi di riflessione da cui il diritto del lavoro di solito è escluso. L’Agenda ONU 2030 (e non solo il PNRR) lo impongono, come impongono un cambio di attenzione della disciplina a favore delle tecniche e strumenti di prevenzione dello sfruttamento o, come preferiscono esprimersi le Organizzazioni internazionali, nei confronti delle nuove forme di schiavitù. A questo proposito, rinvio alla Road Map di prevenzione pubblicata sul sito www.project-farm.eu. Mi limito, in questa sede, a ricordare che ad obiettivi complessi, devono seguire risposte articolate e non mere affermazioni di principio, dal sapore retorico. Perché la prevenzione dello sfruttamento lavorativo e del caporalato in agricoltura è un obiettivo complesso che rende necessaria l’interazione tra più soggetti, con diversi strumenti a disposizione. Il richiamo ai valori condivisi da tutti i partecipanti al progetto FARm, ha, ad esempio, rappresentato la premessa del nostro intervento di ricerca-intervento, il punto di partenza. Scontati gli importanti valori di riferimento, preso atto delle scelte legislative – che rappresentano le coordinate di contesto in cui ci siamo attivati – nei punti della Road Map abbiamo fissato nel modo più sintetico possibile, la traccia di un modello di intervento del presente e del prossimo futuro per favorire l’emersione del fenomeno, per ragionare di inclusione in modo sensato, per segnalare le potenzialità di un’intermediazione attenta alle persone vulnerabili, per sostenere il ruolo delle parti sociali mediante strumenti dedicati.
Il confronto in termini di policies (e la centralità della giuslavoristica in questo ambito) ci consente anche un importante confronto di stampo comparato. L’ambizione della Francia di diventare paese capofila dell’Alliance 8.7, con il supporto dell’Agenda 2030, l’ha indotta ad elaborare la Stratégie nationale d’accéleration pour eliminera le travail des enfants, le travail forcé, la traite des êtres humains et l’esclavage contemporain à l’horizon 2030 . La strategia è correlata specificamente a formule di prevenzione dedicata allo sfruttamento lavorativo e/o forme di moderne schiavitù e traduce una serie di impegni francesi assunti con l’Agenda 2030 ONU, in particolare, l’obiettivo 8 chiede di «Incentivare una crescita economica duratura, inclusiva e sostenibile, un’occupazione piena e produttiva ed un lavoro dignitoso per tutti».
La strategia integra livelli (internazionali, nazionali), approcci (diritto pubblico, diritto privato), reti di stakeholders (l’associazionismo chiamato a gestire le forme dell’emersione delle nuove forme di schiavitù con i partner sociali).
La seconda riflessione conclusiva, si collega alla rappresentanza sindacale del lavoro ai «margini». In un confronto come quello odierno, attento alla contratto e alla contrattazione collettiva – appare importante segnalare che il sindacato «ai margini», se confederale, è posto di fronte ad una torsione logica e organizzativa nei confronti del sindacato di base, che sta diventando centrale come supporto dei diritti dei lavoratori poveri, in particolare migranti. Questo sindacato, pensiamo alla lega braccianti, sta assumendo le caratteristiche del sindacato etnico, ovvero una comunità di lavoratori con una specifica provenienza territoriale e gruppo religioso. La dialettica tra questi soggetti - accumunati da una eguale richiesta di attenzione per la garanzia dei diritti retributivi e di inclusione sociale dei lavoratori – merita di essere affrontata anche dal diritto del lavoro e non solo rimossa.