1. Decentramento produttivo e lavoro povero nella prospettiva della mandatory human rights due diligence
La ricerca PRIN diretta da Marina Brollo «Working Poor N.e.e.d.s. – Nuove eguaglianze, lavoro dignitoso e professionalità» che oggi siamo chiamati a commentare ha il pregio di aver colto un problema, oggi centrale nel dibattito giuslavoristico, già nel 2017: l’aumento della povertà nel lavoro, la cosiddetta in-work poverty (che si misura anche in relazione al contesto familiare) e il fenomeno dei low wage workers. Un’intuizione feconda di cui va dato atto al gruppo di ricerca.
Una delle possibili domande di ricerca è se esista una relazione tra decentramento produttivo e low wage work così come, è stato dimostrato, esiste un collegamento tra decentramento e precarietà . All’interno di una catena di appalti, il lavoratore è maggiormente esposto al rischio di lavoro povero? La realtà degli ultimi anni sembra indicare una risposta affermativa a questa domanda; ad una conclusione analoga giunge Lina Del Vecchio nel suo intervento al seminario di ricerca organizzato dall’Unità dell’Aquila .
A livello europeo e internazionale, appare ormai pienamente acquisita l’idea che il decentramento produttivo su scala globale – la cosiddetta global value chain – sia utilizzato dalle grandi multinazionali come strumento di decentramento di responsabilità e di risparmio nei costi del lavoro che può mettere particolarmente a repentaglio i diritti fondamentali dei lavoratori (salute e sicurezza, giusta retribuzione, diritti collettivi). Sono ormai numerosi i rapporti della Commissione e della ETUC che mettono in luce il problema del mancato rispetto dei diritti umani nelle catene globali degli appalti e sottolineano l’esigenza di introdurre obiettivi di sostenibilità sociale oltre che ambientale. Ad esempio, in una dichiarazione firmata nel 2019 da 80 tra ONG e sindacati, è stato sottolineato come poco sia stato fatto sino ad oggi in proposito; in un comunicato più recente del 24 febbraio 2020 le parti sociali hanno richiamato il sostanziale fallimento degli strumenti volontaristici (come la ESCG) e la necessità di adottare una regulatory action.
Di qui il dibattito sulla mandatory human rights due diligence che, sulla scorta della legge francese del 2017, propone di superare una volta per tutte, attraverso strumenti di hard law, il velo della irresponsabilità organizzativa dell’impresa leader nelle global supply chains considerandola titolare di un dovere di vigilanza e responsabile delle violazioni di diritti umani anche extraterritoriali commesse da soggetti con i quali abbia intrecciato «stabili relazioni commerciali» . Una prospettiva teorica suggestiva che, superando il problema del principio di territorialità del diritto nazionale e quello della formale separazione soggettiva, mostra come la sensibilità delle istituzioni nazionali ed europee in questa materia stia rapidamente mutando: dalla irresponsabilità al pieno coinvolgimento dell’impresa leader nella responsabilità per il rispetto dei diritti umani dei lavoratori lungo la filiera globale . Le implicazioni pratiche sono tuttavia ancora complesse a causa delle difficoltà di enforcement della nuova disciplina, delle problematiche di diritto internazionale privato e conflict of laws ad essa sottese non meno delle incertezze che circondano tale forma di responsabilità che sembra tradursi, al momento, nell’obbligo di carattere formale e documentale, più che sostanziale, di adozione di un plan de vigilance .
Sullo sfondo riemerge il dibattito sulla natura dell’interesse dell’impresa, non più orientato all’esclusivo interesse della massimizzazione del profitto nel breve periodo ma al perseguimento del “successo sostenibile”, anche nel medio-lungo periodo, che assurge a nuovo complesso criterio di indirizzo dell’agire degli amministratori, oggetto di recenti approfondimenti da parte dei giuscommercialisti .
Entrambe le prospettive citate sono presenti nella recente e delicata proposta di direttiva adottata dalla Commissione europea il 23 febbraio 2022 sulla “Corporate sustainability due diligence” che, da un lato, introduce la responsabilità civile delle società che non mettano in atto azioni concrete per vigilare sul rispetto dei diritti umani e dell’ambiente e far cessare comportamenti ad impatto negativo (human rights and environmental adverse impact) che siano posti in essere da loro stesse o da partners con i quali abbiano “established business relationship” (artt. 1-4) e, dall’altro lato, prevede che gli amministratori, nel loro agire, debbano tenere conto delle conseguenze delle proprie decisioni in termini di sostenibilità, diritti umani, ambiente, cambiamento climatico nel breve, medio o lungo periodo (art. 25). Nell’Annex 1, allegato alla proposta di direttiva, è prevista la definizione analitica dei diritti fondamentali la cui violazione può rilevare in termini di “adverse impact”. Tra questi, al punto 7, figura il diritto di godere di condizioni di lavoro eque e favorevoli (favourable and just conditions of work), il diritto al salario adeguato (fair wage), a condizioni di vita dignitose (decent living) e ad un orario di lavoro ragionevole (reasonable working hours) in conformità a quanto previsto dall’art. 7 della Convenzione internazionale sui diritti economici, sociali e culturali. Sarà interessante verificare se e in quali termini, attraverso questo particolare meccanismo di rinvio della direttiva ad una convenzione internazionale, l’efficacia di quest’ultima finisca col venire proiettata direttamente all’interno degli ordinamenti degli Stati membri dell’Unione europea, trasformando principi contenuti nel diritto internazionale pattizio in diritti e obblighi direttamente riconosciuti dall’ordinamento unionale ed applicabili dai giudici nazionali.
2. Il Raise the Wage Act e il Pro Right to Organize Act negli Stati Uniti
In una prospettiva comparata, l’intreccio tra catene d’appalto e lavoro povero è al centro del dibattito statunitense sin dalla pubblicazione del celebre libro di David Weil . Si pensi al famoso movimento Fight for 15 Dollars che nasce nelle catene di franchising del fast-food (in particolare McDonald) per protestare contro lo schiacciamento verso il basso e la stagnazione dei livelli retributivi resi possibili dalle politiche aziendali adottate dal franchisor. Qui, dinanzi all’impossibilità di negoziare salari dignitosi con l’interlocutore effettivo dei rapporti di lavoro (il franchisor non il franchisee), i lavoratori hanno costituito un movimento nazionale di protesta supportati dalle amministrazioni locali, così creando inedite forme di alleanza sociale funzionali ad aumentare il proprio potere contrattuale e a sensibilizzare e coinvolgere la comunità e l’opinione pubblica nelle loro rivendicazioni economiche e sociali . La protesta è poi sfociata nel Raise the Wage Act e nel Pro Right to Organize act, due proposte di legge attualmente in discussione. Il primo mira ad un innalzamento graduale del salario minimo legale; il secondo ad allargare il perimetro soggettivo di alcuni istituti propri del diritto sindacale adottando la prospettiva della joint-employment doctrine al fine di coinvolgere nella contrattazione collettiva, oltre al formale datore di lavoro, il soggetto terzo in grado di esercitare un’influenza dominante sulle condizioni di lavoro e, in primis, sul livello dei salari.
3. Appalti, dumping contrattuale e mancati pagamenti nell’esperienza della Commissione di garanzia
A livello nazionale una ricerca condotta nell’ambito della Commissione di garanzia dell’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali, intitolata Appalti e conflitto collettivo, ha messo in luce come la principale causa di insorgenza del conflitto nelle catene di appalti pubblici (ma il discorso potrebbe essere esteso agli appalti privati) sia da rinvenirsi nel mancato pagamento delle retribuzioni, da un lato, e nel ricorso al subappalto con finalità di dumping, dall’altro lato. In particolare nel settore dell’igiene ambientale, è frequente che il concessionario o il contraente principale applichi ai propri dipendenti il CCNL di riferimento firmato dalle sigle maggiormente rappresentative, come Fise/Utilitalia, Cgil, Cisl, Uil. Tuttavia, i concessionari o gli appaltatori di prima linea spesso subappaltano significative porzioni del servizio, che si collocano anche molto a ridosso del core business (ad esempio la raccolta porta a porta o lo smaltimento dei rifiuti), a subappaltatori di seconda linea che applicano CCNL che prevedono livelli salariali molto più bassi pur risultando firmati da associazioni datoriali e sindacali rappresentative e “coerenti” con l’oggetto dell’appalto (emblematico il CCNL Multiservizi o il CCNL Cooperative sociali). Nell’igiene ambientale, secondo alcuni sindacati, tale meccanismo consentirebbe un risparmio retributivo che sfiorerebbe i 15.000 euro annui, con compensi orari intorno ai 6,52 Euro all’ora contro gli 11 Euro previsti dal CCNL igiene ambientale. Di qui le proteste dei lavoratori “di seconda linea” che, operando nello stesso ciclo produttivo integrato dei lavoratori di “prima linea” e svolgendo mansioni simili, rivendicano la parità di trattamento economico. Lo stesso avviene – è stato messo in luce in numerosi studi dei componenti dell’unità di ricerca (ad esempio, Giulio Centamore e Piera Campanella) – nella filiera delle carni e nella filiera alimentare (si pensi al celebre caso Italpizza).
Una domanda di ricerca è se di tale elevata conflittualità che, nelle filiere dei servizi e delle opere pubbliche, si traduce anche in un danno per la collettività e in una cattiva gestione delle risorse pubbliche, l’ente locale appaltante o l’impresa capofila debba o possa essere considerata responsabile e in quali termini. Quali strumenti potrebbero essere utilizzati per superare il velo della irresponsabilità organizzativa della stazione appaltante e ottenere un maggiore coinvolgimento dei committenti o appaltatori di prima linea nel rispetto dei diritti fondamentali? Una domanda, questa, particolarmente delicata nel momento attuale in cui le amministrazioni locali sono chiamate al difficile compito di gestire le ingenti risorse del PNRR, trasformandole in volano per la ripresa economica e sociale.
Come visto, in una prospettiva globale, si muove in questa direzione la proposta di direttiva sulla sustainability due diligence. Ma anche a livello nazionale vi sono innumerevoli spunti di ricerca.
Anzitutto, sembra possibile suggerire un allargamento della nozione di datore di lavoro in chiave funzionale. Così le proposte americane, contenute nel Pro Right to Organize Act, mirano ad applicare la Joint Employment Doctrine alla contrattazione collettiva, allo sciopero e alla disciplina dell’unfair labor practice al fine di includere i soggetti terzi, committenti a vario titolo di rapporti commerciali con il formale datore di lavoro, nel perimetro della contrattazione collettiva, del conflitto e dell’unfair labor practice. Una prospettiva interpretativa simile potrebbe essere adottata anche nel nostro ordinamento, allargando la contrattazione collettiva e la disciplina del conflitto a quei soggetti terzi che, per il tramite di contratti commerciali di vario genere e tipo (appalto, subappalto, fornitura, affiliazione commerciale) intercorrenti con le imprese che assumono le vesti di formali datrici di lavoro, sono in grado di svolgere un’influenza determinante sulle condizioni di lavoro e sul livello dei salari dei lavoratori alle dipendenze di queste ultime .
Nelle filiere degli appalti e dei servizi pubblici, non può poi escludersi che comportamenti dell’ente locale/stazione appaltante che sono stati causa dell’insorgenza del conflitto e del disservizio alla collettività possano dare luogo anche a responsabilità amministrativa per danno erariale. Ciò si verifica in casi di grave patologia come quello dei mancati pagamenti delle retribuzioni ai lavoratori addetti all’igiene ambientale dovuti al mancato pagamento del canone del servizio all’affidatario da parte dell’ente locale. Nel febbraio 2022, al termine di un percorso di studio e di confronto con la Commissione di garanzia, il Procuratore generale della Corte dei conti ha adottato a questo proposito un atto di indirizzo e di coordinamento volto a sottolineare come, nel caso considerato, specie qualora il mancato pagamento del canone del servizio dipenda a sua volta dalla mancata riscossione del tributo locale, possano emergere profili di danno erariale e di responsabilità amministrativa che giustificano l’intervento della Corte dei conti e la creazione di una struttura di monitoraggio in capo alla Commissione .
4. Prospettive di tutela tra legge e concertazione sociale “urbana”
Ad un maggiore controllo dei fenomeni di dumping potrebbe giungersi attraverso una più corretta perimetrazione delle categorie contrattuali e ad un’individuazione del CCNL applicabile sulla base di criteri più oggettivi e meno discrezionali, recuperando ad esempio l’art. 2070 c.c., forse un po’ troppo sbrigativamente accantonato dopo la soppressione del regime corporativo . Un importante contributo potrebbe venire inoltre dalla adozione del salario minimo legale così come dalla reintroduzione nel settore privato del principio di parità di trattamento economico e normativo negli appalti «interni» , da intendersi non più in senso topografico ma semmai tecnico-organizzativo: possono considerarsi «interni» gli appalti e i subappalti che abbiano ad oggetto un’attività che si collochi molto a ridosso del “normal course of business” dell’impresa principale e che dunque quest’ultima sarebbe in grado di svolgere direttamente.
In questa prospettiva può leggersi, con riferimento ai soli appalti pubblici, l’art. 49, D.l. 31 maggio 2021, n. 77, che modifica l’art. 105, co. 14 del Codice dei contratti pubblici prevedendo l’obbligo di applicare ai dipendenti del subappaltatore lo stesso CCNL applicato dal contraente principale qualora «le attività oggetto di subappalto coincidano con quelle caratterizzanti l’oggetto dell’appalto ovvero riguardino le lavorazioni relative alle categorie prevalenti e siano incluse nell’oggetto sociale del contraente principale». La disposizione normativa non è scevra di ambiguità. Ad esempio, già si è posto il dubbio circa la sua applicabilità ai casi in cui il contraente principale sia un concessionario anziché un appaltatore poiché in tal caso, è stato osservato, verrebbe in rilievo l’art. 174 del Codice dei contratti pubblici (in materia di subappalti nelle concessioni), anziché l’art. 105. E l’art. 174, co. 8 richiama l’art. 105, co. 10, 11, 17 ma non il comma 14. Si tratta forse di un difetto di coordinamento e di armonizzazione tra le due norme su cui si potrebbe riflettere a meno di non ritenere che il trattamento giuridico ed economico dei lavoratori coinvolti nelle operazioni di esternalizzazione debba essere differente a seconda che il contraente principale sia un appaltatore o un concessionario. Resta aperto il dibattito sulla necessità di estendere il principio di parità di trattamento economico e normativo anche al settore privato.
Un ulteriore contributo potrebbe essere infine fornito da strumenti di soft law. Oltre alle Commissioni certificazione, un ruolo significativo potrebbe essere svolto dai Patti di integrità sociale negli appalti pubblici proposti dal Transparency International Network. L’obiettivo è attribuire a soggetti terzi, alla stessa cittadinanza e alle parti sociali, compiti e funzioni di monitoraggio dalla fase del concorso alla fase della realizzazione dell’opera o del servizio pubblico . Quando i beni e i servizi riguardano la collettività diventa giustificato un maggiore coinvolgimento della collettività con compiti di monitoraggio e moral suasion (formulando rilievi critici e/o raccomandazioni), al fine di garantire la trasparenza e prevenire fenomeni di illegalità. Attualmente, i macroindicatori proposti per la valutazione periodica degli appalti non includono alcun riferimento al diritto del lavoro; si potrebbe pensare di inserire alcuni macroindicatori di carattere giuslavoristico come, ad esempio, i differenziali retributivi tra dipendenti dell’appaltatore e dipendenti del subappaltatore e il livello del conflitto.
Ancora, nel febbraio 2021, nella città di Milano, è stato stipulato un Protocollo di intesa per la qualità e la tutela nel lavoro negli appalti tra il Comune, la CGIL, la CISL e la UIL. Particolare attenzione viene posta sul tema della corretta applicazione del CCNL nei subappalti al fine di arginare il rischio di dumping a danno dei lavoratori. In particolare, le parti si impegnano ad «assicurare l’applicazione dei contratti nazionali del settore merceologico a cui si riferisce l’appalto di filiera sottoscritti dalle Organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale», monitorare «e vigilare sul subappalto» auspicando «un minor ricorso al subappalto, che impoverisce il lavoro e riduce di fatto le responsabilità in capo al committente e alle imprese appaltanti».
Tali accordi e protocolli non coinvolgono tuttavia direttamente le imprese appaltatrici spesso poco interessate a sedersi ad un tavolo negoziale con i sindacati e l’ente locale. Sotto questo profilo, può essere utile una riflessione sui nuovi modelli di «concertazione sociale urbana» che sono, ad esempio, stati sperimentati negli Stati Uniti. E’ il caso dei Community benefit agreements, vale a dire veri e propri contratti conclusi, attraverso l’opera di mediazione dell’amministrazione locale, tra l’investitore/appaltatore (developer) e una coalizione variamente composta da ONG, sindacati ed altre forme di rappresentanza della comunità locale sulla quale l’opera e l’investimento sono destinati a produrre esternalità positive ma anche negative (si parla di meaningful community) . Ad esempio, nel 2016, Facebook ha concluso un CBA con la comunità locale di East Palo Alto avente ad oggetto il supporto attivo ad un progetto di espansione di Facebook nella zona. Il contratto, definito Community compact, ha quali finalità la crescita dell’equità, delle opportunità e dell’accesso nella Silicon Valley. I suoi caposaldi sono l’affordable housing, ma soprattutto la garanzia dell’applicazione di condizioni di lavoro dignitose, la previsione di investimenti per la lotta al lavoro povero, la creazione di nuove opportunità economiche e l’attiva collaborazione alle politiche di formazione e job design. Da parte sua, la coalizione locale si obbliga ad osservare una sorta di obbligazione di tregua o pace impegnandosi a non intraprendere azioni legali (class actions) contro l’investitore e a non organizzare manifestazioni e campagne ostili.
Restano diverse zone d’ombra: come convincere il developer a sedersi al tavolo delle trattative? Come selezionare i soggetti partecipanti alla coalizione locale? Come garantire che quest’ultima offra un’effettiva e completa rappresentanza agli interessi in gioco? Domande complesse ancora prive di risposta. Resta ferma l’intuizione di fondo, già emersa nella vicenda «Fight for $ 15»: per garantire una negoziazione ad «armi pari» con grandi imprese e developers è necessario costruire una controparte contrattuale più forte della singola amministrazione locale o del sindacato, coinvolgendo attivamente stakeholders e la comunità locale attraverso lo strumento delle coalizioni e delle alleanze sociali.