testo integrale con note e bibliografia
- Premessa
Con il D.L. 2 marzo 2024, n. 19, recante “Ulteriori disposizioni urgenti per l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR)” (anche noto come “Decreto PNRR”), convertito, con modificazioni, in L. 29 aprile 2024, n. 56, il Legislatore ha apportato rilevanti modifiche all’apparato sanzionatorio posto a presidio del mercato del lavoro.
Le ragioni di tale riforma possono essere in parte ricollegate allo scalpore provocato, da un lato, dai vari fenomeni di lavoro irregolare emersi in tempi recenti nell’ambito dei settori della logistica, della grande distribuzione e della moda e, dall’altro, dall’elevato numero di tragedie sul lavoro, che il più delle volte ne sono conseguenza.
Le indagini aventi ad oggetto tali accadimenti hanno riportato l’attenzione dell’opinione pubblica sia sulle problematiche socioeconomiche sottese all’elusione della normativa giuslavoristica in materia di interposizione di manodopera, sia sulla efficacia della disciplina a tutela della salute e sicurezza sul lavoro in tale ambito.
Per l’effetto, si è avvertita la necessità di ammodernare un sistema di disposizioni sanzionatorie e incriminatrici che appariva privo di capacità deterrente, esigenza cui è stata data risposta con il ricorso alla decretazione d’urgenza.
- Il quadro normativo pre-riforma
Al 1° marzo 2024, vigilia dell’entrata in vigore del Decreto PNRR, le ipotesi di reato contemplate dall’ordinamento a tutela della regolarità del mercato del lavoro risultavano ripartite fra il Codice penale, il D.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, recante “Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla legge 14 febbraio 2003, n. 30” (anche noto come “Decreto Biagi”), e il D.lgs. 15 giugno 2015, n. 81, recante “Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell'articolo 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183” (anche noto come “Jobs Act”).
Segnatamente, il Codice penale all’art. 603 bis ( ) prevedeva – e prevede tuttora, immutato – il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, punito nella sua configurazione base con la pena della reclusione da uno a sei anni e la multa da euro 500 a euro 1.000 per ciascun lavoratore reclutato ( ).
Il D.lgs. n. 276/2003, invece, contemplava all’art. 18 ( ):
• l’esercizio non autorizzato delle attività di somministrazione, punito con la pena dell’ammenda di euro 50 per ogni lavoratore occupato e per ogni giornata di utilizzo (art. 18, comma 1, primo periodo);
• l’esercizio non autorizzato della attività di intermediazione, punito con la pena dell’arresto fino a sei mesi e dell’ammenda da euro 1.500 a euro 7.500, ridotta da euro 500 a euro 2.500 se realizzata senza scopo di lucro (art. 18, comma 1, terzo periodo);
• l’esercizio non autorizzato dell’attività di ricerca, selezione del personale e supporto alla ricollocazione, punito con la pena dell’ammenda da euro 750 a euro 3.750, ridotta da euro 250 a euro 1.250 se realizzata senza scopo di lucro (art. 18, comma 1, sesto periodo);
• l’utilizzo della somministrazione illecita di prestatori di lavoro o in violazione dei limiti di legge, punito con la pena dell’ammenda di euro 50 per ogni lavoratore occupato e per ogni giornata di occupazione (art. 18, comma 2);
• l’utilizzo e la somministrazione di manodopera tramite l’appalto e il distacco illecito, punito con l’ammenda di euro 50 per ogni lavoratore e per ogni giornata di occupazione (art. 18, comma 5 bis);
Di estrema rilevanza risultava la circostanza aggravante ad effetto speciale stabilita per le ipotesi di somministrazione e di appalto illecito in caso di sfruttamento di minorenni, per la quale era prevista la pena dell’arresto fino a diciotto mesi ed un aumento di un sestuplo dell’ammenda.
A complemento di tale quadro, l’art. 38 bis del D.lgs. 15 giugno 2015, n. 81, recante “Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell'articolo 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183” ( ), prevedeva un’ulteriore ammenda di euro 20 per lavoratore e per giorno di utilizzo in ogni caso di somministrazione fraudolenta, ossia posta in essere con la specifica finalità di eludere norme inderogabili di legge o dei contratti collettivi.
Le cornici edittali di ognuna di tali fattispecie risultavano inoltre integrate dall’art. 1, comma 445, lett. d) n. 1, L. 30 dicembre 2018, n. 145 (c.d. Legge di Bilancio 2019) ( ), che, al fine di rafforzare l’attività di contrasto del fenomeno del lavoro sommerso e irregolare e la tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, prevedeva un ulteriore aumento del 20% di tutte le pene pecuniarie previste dal citato art. 18 del D.lgs. n. 276/2003.
La pietra angolare di tale sistema sanzionatorio era dunque da individuarsi nello sfruttamento dei lavoratori e dei minorenni.
Invero, la natura meramente contravvenzionale delle fattispecie previste dall’art. 18 D.lgs. n. 276/2003, e in particolare la previsione della sola ammenda per le ipotesi non circostanziate dallo sfruttamento di minorenni, ha comportato – per effetto della massiva depenalizzazione operata dall’art. 1, D.lgs. 15 gennaio 2016, n. 8 – l’esclusione della rilevanza penale di una considerevole porzione delle violazioni tipizzate.
Segnatamente, atteso che le ipotesi di somministrazione di lavoro da parte di soggetti non autorizzati e di utilizzo di lavoratori illegittimamente somministrati (articolo 18, commi 1 e 2, del decreto legislativo n. 276/2003), anche nel caso in cui la somministrazione illecita conseguisse ad un appalto o ad un distacco privi dei requisiti di legge, risultavano puniti con la sola ammenda, in forza del D.lgs. n. 8/2016 – non rientrando tali fattispecie tra quelle espressamente escluse dalla depenalizzazione – non costituivano più reato, essendo la relativa ammenda stata sostituita con una sanzione amministrativa pecuniaria.
Nel contesto pre-riforma, dunque, era la lesione dei diritti personali del lavoratore, nella forma dello sfruttamento, ad innalzare il livello della risposta punitiva da meramente amministrativa a penale.
Proseguendo nella disamina del profilo sanzionatorio, occorre rilevare altresì che, in relazione alle ipotesi di somministrazione, utilizzazione, appalto e distacco illecito aggravati dallo sfruttamento dei minorenni – e, dunque, non depenalizzate, in quanto punite con la pena congiunta dell’arresto e dell’ammenda proporzionale – il criterio di calcolo della sanzione pecuniaria risultava indeterminato nel massimo, trovando applicazione la disciplina codicistica dettata dell’art. 27 c.p.
Le norme stabilivano infatti un quantum di pena pecuniaria da moltiplicare per il numero di lavoratori coinvolti e per ogni giornata di occupazione, senza previsione di un limite massimo.
Diversamente, per le ipotesi non circostanziate, trovavano applicazione i limiti edittali previsti dall’art. 1, comma 6 del D.lgs. n. 8/2016 ( ), i quali imponevano un minimo di euro 5.000 ed un massimo di euro 50.000 per le sanzioni pecuniarie proporzionali.
La morfologia della riforma
Il Legislatore penale, evidentemente animato dallo scopo di aumentare l’effetto deterrente delle disposizioni sanzionatorie e incriminatrici già esistenti, ha optato per un intervento circoscritto ma efficace, quantomeno sul piano teorico.
Le novità, tutte contenute nell’art. 29, commi 4 e 5 del D.L. n. 19/2024, recante “Disposizioni in materia di prevenzione e contrasto del lavoro irregolare”, possono essere riepilogate come di seguito illustrato.
Anzitutto, il Legislatore ha ripristinato la rilevanza penale delle ipotesi non circostanziate e attenuate delle ipotesi di attività abusiva di ricerca, selezione e supporto al collocamento, appalto e distacco illecito e somministrazione illecita e fraudolenta, (ri)aggiungendo la pena dell’arresto in alternativa all’ammenda ( ).
Ulteriori significative modifiche hanno interessato la commisurazione delle pene pecuniarie già previste.
Per le ipotesi di reato sanzionate con un’ammenda definita sulla base di un quadro edittale “tradizionale”, ossia l’intermediazione e la ricerca/ricollocazione abusiva, la cornice edittale è stata innalzata.
Quanto al reato di intermediazione abusiva, la Riforma ha inciso sulla sola ipotesi attenuata dall’assenza di scopo di lucro, che risulta oggi punita, oltre che con l’arresto fino a due mesi, con l’ammenda da euro 600 a euro 3.000. Trattasi, a ben vedere, dell’unica ipotesi contravvenzionale che prevede congiuntamente la pena detentiva e la pena pecuniaria.
Quanto invece all’abusiva attività di ricerca e collocamento, le modifiche normative incidono sia sulla pena prevista per l’ipotesi non circostanziata che per quella attenuata.
Nella sua forma base, il reato in esame è infatti oggi punito con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda da euro 900 a euro 4.500, mentre in caso di assenza di scopo di lucro, l’arresto è previsto fino a 45 giorni e l’ammenda, sempre prevista solo in via alternativa, da euro 300 a euro 1.500.
Ben più incisivo risulta l’intervento sulle ipotesi di ammenda c.d. proporzionale, ossia l’appalto, il distacco e la somministrazione illecita.
In prima battuta, il moltiplicatore precedentemente quantificato in euro 50 è stato aumentato a euro 60 per tutte le fattispecie.
Tale modifica, tenuta in considerazione la perdurante vigenza dall’art. 1, comma 445, lett. d) n. 1, L. n. 145/2018, si risolve in un aumento concreto dell’ammenda da 60 a 72 al giorno per lavoratore impiegato.
Parallelamente, è stato introdotto il comma 5 quinquies all’art. 18, che stabilisce un livello minimo di euro 5.000 ed un livello massimo di euro 50.000 per ogni sanzione proporzionale prevista dal medesimo articolo.
A ben vedere, quest’ultima norma risulta almeno in apparenza distonica rispetto agli scopi di inasprimento sanzionatorio asseritamente perseguiti dal Legislatore.
In difetto di tale previsione, infatti, i limiti edittali previsti dalla normativa in materia di depenalizzazione non avrebbero più trovato applicazione nelle pene pecuniarie proporzionali stabilite per le ipotesi anche non circostanziate di appalto illecito, somministrazione illecita e somministrazione fraudolenta, con la conseguenza che dette pene sarebbero divenute indeterminate nel massimo.
Il citato comma 5 quinquies mantiene dunque inalterato il quadro edittale effettivo delle pene pecuniarie proporzionali previste dal Decreto Biagi. Anzi, tali limiti risultano oggi estesi anche alle ipotesi di reato circostanziate dallo sfruttamento dei minori, dal momento che la norma trova applicazione per tutte le ipotesi di reato ivi contemplate.
Con tali contrappesi, il Legislatore è evidentemente addivenuto ad una soluzione di compromesso, da un lato ampliando il perimetro delle condotte penalmente rilevanti e, dall’altro, facendo salvo il più mite regime sanzionatorio previsto per le ipotesi di reato depenalizzate.
Altrettanto rilevanti appaiono le modifiche apportate all’ipotesi di somministrazione fraudolenta.
Sul piano sistematico, tale fattispecie – prima fuori dal perimetro del Decreto Biagi – è stata ricollocata all’interno del D.lgs. n. 276/2003 al nuovo comma 5 ter dell’art. 18, mantenendo inalterata la descrizione della condotta.
Completamente rivoluzionato risulta invece il relativo regime sanzionatorio. Infatti, laddove l’art. 38 bis del D.lgs. n. 81/2015 prevedeva un’ammenda proporzionale di euro 20 in aggiunta alle sanzioni già previste per le varie ipotesi di intermediazione illecita, l’attuale comma 5 ter prevede in via esclusiva l’arresto fino a mesi tre o l’ammenda proporzionale di euro 100.
Infine, il neo introdotto comma 5 quater prevede l’incremento delle sanzioni pecuniarie nella misura del 20% in caso di recidiva specifica infra-triennale del datore di lavoro.
Esaurita la disamina dell’intervento di riforma, appare utile svolgere, senza pretesa di esaustività, alcune considerazioni di natura sistematica e applicativa in relazione alle principali fattispecie in commento.
- La somministrazione illecita
Con riferimento alla fattispecie di somministrazione illecita, il combinato disposto dei commi 1 e 2 dell’art. 18 D.lgs. n. 276/2003 punisce con l’ammenda proporzionale, in alternativa all’arresto per mesi uno:
• chiunque svolga senza autorizzazione le attività previste dall’art. 4, comma 1, lettere a) e b) del decreto;
• l’utilizzatore dei servizi resi dai soggetti non autorizzati ai sensi dei medesimi commi, oppure in violazione dei limiti previsti.
Per comprendere l’effettivo perimetro delle condotte sanzionate, appare imprescindibile l’analisi congiunta degli artt. 5 e 20 del medesimo decreto, 1 e 2 del D.M. del 10 aprile 2018 e 32, 33 e 34 del D.lgs. n. 81/2015, posto che:
• l’art. 5 D.lgs. n. 276/2003, in uno agli artt. 1 e 2 del D.M. del 10 aprile 2018, individua i requisiti per l’iscrizione all’albo di cui all’art. 4;
• l’art. 20 determina le tipologie di somministrazione che possono essere concluse dai soggetti di cui all’art. 4 D.lgs. n. 276/2003;
• le norme del D.lgs. n. 81/2015 rappresentano i limiti legali all’utilizzo della somministrazione.
Più in dettaglio, nel regolare la somministrazione lecita, l’art. 20 – benché oggi formalmente abrogato, per effetto dell’art. 55 del Jobs Act ( ) – prevedeva la possibilità per l’utilizzatore di concludere contratti di somministrazione a tempo indeterminato, in relazione a determinate tipologie di servizi tassativamente individuati dalla legge o dai contratti collettivi, oppure a tempo determinato.
La rilevanza di tale distinzione si manifesta nell’individuazione di criteri differenziati per ottenere l’iscrizione all’albo di cui all’art. 4 lettera a) (i.e. agenzie di somministrazione di lavoro abilitate allo svolgimento di tutte le attività di cui all'articolo 20) o lettera b) (i.e. agenzie di somministrazione di lavoro a tempo indeterminato abilitate a svolgere esclusivamente una delle attività specifiche di cui all'articolo 20, comma 3, lettere da a) a h)).
Ebbene, con riferimento ai soggetti abilitati a concludere tutte le tipologie di contratti di somministrazione di cui alla lettera a) dell’art. 4, il successivo art. 5 – oltre ad una serie di requisiti che tutti i soggetti che operano nell’ambito dell’intermediazione di manodopera devono possedere ( ) – impone il rispetto dei seguenti parametri:
i. capitale sociale versato non inferiore ad euro 600.000 ovvero disponibilità della medesima cifra tra capitale versato e riserve indivisibili in caso di agenzia cooperativa;
ii. garanzia che l’attività interessi un ambito territoriale non inferiore a quattro regioni;
iii. deposito cauzionale e fideiussione bancaria o assicurativa per un importo non inferiore al 5% del fatturato al netto dell’IVA, e comunque non inferiore a 350.000, a garanzia dei crediti dei lavoratori impiegati e dei corrispondenti crediti contributivi;
iv. regolare contribuzione ai fondi di cui all’art. 12;
v. indicazione dell’attività di somministrazione di lavoro quale oggetto sociale esclusivo o prevalente.
Parametri della medesima natura, ma meno stringenti, sono invece previsti per lo svolgimento dell’attività di somministrazione, esclusivamente a tempo indeterminato, negli specifici ambiti richiamati dall’art. 4, lettera b). Trattasi, in particolare, di:
i. capitale sociale versato non inferiore ad euro 350.000 ovvero disponibilità della medesima cifra tra capitale versato e riserve indivisibili in caso di agenzia cooperativa;
ii. deposito cauzionale e fideiussione bancaria o assicurativa per un importo non inferiore al 5% del fatturato al netto dell’IVA, e comunque non inferiore a 200.000, a garanzia dei crediti dei lavoratori impiegati e dei corrispondenti crediti contributivi;
iii. regolare contribuzione ai fondi di cui all’art. 12;
iv. presenza di almeno 20 soci e, tra questi, un fondo mutualistico per lo sviluppo e la cooperazione in qualità di socio sovventore.
Il mancato possesso dei requisiti fin qui elencati in capo al soggetto somministrante, pur rappresentando un presupposto logico dell’autorizzazione ministeriale richiesta ai fini della somministrazione, non integra un elemento costitutivo del reato in esame.
La norma sanziona infatti l’esercizio non autorizzato delle attività di cui alle prime due lettere dell’art. 4, e non anche l’esercizio delle medesime attività in assenza dei requisiti di cui all’art. 5, che pure costituiscono il presupposto dell’autorizzazione.
Di conseguenza, appare penalmente rilevante la somministrazione resa da un soggetto di fatto in possesso di tutti i requisiti ma non formalmente autorizzato, mentre risulta esclusa la tipicità del fatto qualora il somministratore, pur figurando nell’albo dei soggetti autorizzati, risulti in concreto non in possesso dei requisiti richiesti.
Più complessa la posizione dell’utilizzatore, il quale risponde non solo della somministrazione fornita da un soggetto non autorizzato, ma anche della somministrazione di cui egli si avvale al di fuori dei limiti “ivi previsti”.
Tale ultimo inciso sembra rinviare al contenuto degli artt. 32, 33 e 34 del D.lgs. n. 81/2015, che attualmente disciplinano i limiti all’utilizzabilità della somministrazione.
- Appalto illecito e somministrazione fraudolenta
Come già accennato supra, le ipotesi di appalto e distacco illeciti previsti dall’art. 18 comma, 5 bis sono rimaste inalterate nella loro originaria formulazione per quanto attiene alla descrizione delle condotte tipizzate, continuando così a stigmatizzare tanto l’utilizzatore quanto il somministratore che, rispettivamente, si profittano e mettono a disposizione manodopera tramite un contratto di appalto privo dei requisiti di cui all’art. 29, comma 1 del decreto ( ).
La riforma, infatti, non ha modificato né il dato testuale della disposizione incriminatrice né il primo comma dell’art. 29.
Ne deriva, in ultima analisi, che il contratto di appalto o il distacco sono penalmente rilevanti allorquando vengono utilizzati per mascherare una mera somministrazione di manodopera.
Non sarebbe invece illecito, sotto un profilo penale, il contratto di appalto che, pur violando il neo-introdotto comma 1 bis, e dunque prevedendo un trattamento economico sfavorevole rispetto a quello applicato nel settore e per la zona connessa all’oggetto dell’appalto, dovesse rispettare i criteri posti dall’interpretazione del citato primo comma dell’art. 29 per definire l’appalto c.d. genuino ( ).
Si realizza così un interessante differenziazione del trattamento sanzionatorio tra l’ipotesi di appalto illecito e quella di somministrazione fraudolenta.
Se infatti un contratto di somministrazione, altrimenti regolare, risultasse finalizzato all’elusione del contratto collettivo applicabile al lavoratore, questo sarebbe nullo e penalmente rilevante, mentre risulterebbe lecito il perseguimento del medesimo scopo attraverso un contratto di appalto.
- Somministrazione illecita, appalto illecito e falsa fatturazione
La novella lascia invece del tutto inalterati i profili di rilevanza penale delle condotte “ancillari” alle ipotesi di interposizione illecita di manodopera e appalto illecito.
I costi sostenuti dall’utilizzatore della manodopera di fatto illegittimamente somministrata tramite un contratto di appalto illecito sono infatti qualificati come non deducibili, e le relative fatture emesse dall’appaltatore sono considerate false sia in ragione della natura simulata del negozio giuridico sottostante ( ), che in ragione dell’estraneità del soggetto emittente rispetto al rapporto giuridico effettivamente posto in essere ( ).
Ne consegue che la deduzione di tali costi, documentati tramite le fatture emesse dall’appaltatore, all’interno delle dichiarazioni ai fini delle imposte sui redditi integri, secondo l’orientamento condiviso dalla giurisprudenza maggioritaria, il reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti di cui all’art. 2 D.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 ( ).
Le considerazioni sopra esposte rendono dunque la somministrazione e l’appalto illecito potenzialmente rilevanti anche ai fini della responsabilità amministrativa da reato degli enti ai sensi dell’art. 25 quinquiesdecies del D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231.
In questo senso, una recente pronuncia della Suprema Corte ha affermato il principio secondo cui l’ente beneficiario della illecita somministrazione di manodopera commetterebbe il reato di cui all’art. 2 D.lgs. n. 74/2000 nella misura in cui dichiarasse, in detrazione, un debito IVA maturato nell’ambito di un appalto illecito, finalizzato a mascherare una somministrazione di manodopera ( ).
- Considerazioni conclusive
Delimitato il perimetro delle modifiche apportate dal Legislatore, e analizzate alcune delle ricadute applicative del nuovo assetto normativo, pare utile e opportuno svolgere una breve riflessione conclusiva circa l’effettivo grado di afflittività raggiunto dalle norme incriminatrici ripristinate.
L’inasprimento sanzionatorio perseguito dal Legislatore tramite l’introduzione della pena detentiva in alternativa a quella pecuniaria, con la conseguente fuoriuscita delle fattispecie contravvenzionali in analisi dal perimetro della depenalizzazione, appare fortemente diluito dall’operatività del meccanismo estintivo speciale di cui agli artt. 20 e ss. del D.lgs. 19 dicembre 1994, n. 758 ( ) e 15 del D.lgs. 23 aprile 2004, n. 124 ( ).
In altri termini, trattandosi di ipotesi poste a tutela del mercato del lavoro, troverà applicazione la speciale causa di estinzione prevista dalla normativa citata, in forza della quale, anche in ragione del neo-introdotto limite massimo di euro 50.000 per le ammende proporzionali, il soggetto attivo potrà estinguere ogni contravvenzione punita in via alternativa con l’ammenda o l’arresto adempiendo alle prescrizioni impartite dall’organo di vigilanza e versando la somma (al più) di euro 12.500 ( ). Fa eccezione, quindi, l’ipotesi di esercizio non autorizzato dell’attività di intermediazione con scopo di lucro, che vede l’applicazione congiunta della pena detentiva e della pena pecuniaria.
Se dunque risulta apprezzabile l’intento di assoggettare a sanzione penale un più ampio catalogo di forme illecite di interposizione di manodopera, la perdurante previsione della alternatività della pena pecuniaria rispetto alla pena detentiva, con la conseguente applicabilità del regime delle prescrizioni obbligatorie poc’anzi citato a tutte le fattispecie eccetto l’intermediazione illecita, in uno alla determinazione di un limite massimo per le ammende proporzionali, sembra neutralizzare, almeno in parte, l’efficacia della riforma.
In conclusione, a parere di chi scrive l’intervento legislativo in commento reintroduce solo in astratto rilevanza penale delle condotte di mera violazione della normativa in tema di interposizione di manodopera, senza però incidere significativamente sull’efficacia deterrente di tali norme, quantomeno nei confronti di soggetti sufficientemente patrimonializzati.
Ciò posto, visto che le medesime condotte, realizzate nell’ambito di grandi realtà imprenditoriali, risultano ancora fortemente perseguibili per le conseguenze illecite che determinano sul piano del diritto penale tributario e della responsabilità amministrativa da reato degli enti, è ragionevole aspettarsi che il modico inasprimento delle sanzioni penali per le fattispecie base vada ad incidere perlopiù sulle piccole e medie imprese che, statisticamente, rappresentano in minor misura il “bersaglio” delle contestazioni mosse ai sensi del D.lgs. n. 231/2001.