TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA
Aris Accornero terminò di scrivere Il lavoro come ideologia nel novembre 1979, mentre la prima edizione del volume – dedicato «fraternamente» al movimento operaio italiano, come si leggeva nella Premessa – andò in stampa nel giugno dell’anno seguente . Nel breve arco degli otto mesi intercorsi tra la fine della stesura e il momento della stampa, lo scenario politico-sindacale italiano fu attraversato da bruschi mutamenti, che di lì a poco avrebbero raggiunto il punto culminante. La «stagione dei movimenti», iniziata negli anni Sessanta, con il ritorno delle mobilitazioni operaie e l’emergere del protagonismo giovanile, era arrivata per molti versi all’epilogo proprio nel 1979 . Dopo essere stata quasi per due decenni anche simbolicamente il centro delle lotte operaie, Torino era diventata il teatro di un repentino ribaltamento di fronte. Nell’estate il contratto dei metalmeccanici si era chiuso con elevati livelli di conflittualità e il 9 ottobre la direzione Fiat aveva inviato 61 lettere di licenziamento, in cui si chiamavano in causa «prestazioni non rispondenti a principi di diligenza e correttezza»: una formula che – come rilevarono tutte le principali testate – alludeva a connivenze con i gruppi armati. «L’atmosfera di quel ’79 a Torino», hanno scritto Gabriele Polo e Claudio Sabattini a questo proposito, «è quella ideale per quest’operazione di propaganda», perché «la città viene da tre anni di violenze terroristiche che hanno inquinato il clima anche in fabbrica, dove il sospetto si intreccia all’indifferenza e alla compiacenza» . Si trattava però solo della premessa di uno smottamento molto più radicale. In un mondo che aveva già imboccato la strada verso il neoliberalismo, meno di un anno dopo, il 10 settembre 1980, la direzione dell’azienda automobilistica avrebbe infatti annunciato quasi quindicimila licenziamenti, innescando la reazione sindacale e del mondo politico. La «marcia dei quarantamila», il 14 ottobre, oltre a chiudere l’occupazione dei 35 giorni, avrebbe poi sancito la definitiva conclusione di un lungo ciclo conflittuale. Da quel momento, come ha scritto Marco Revelli, la Mirafiori «mito, storia collettiva e strumento di produzione utopica», «comunità operaia generata nel pieno dell’atto produttivo e consolidata nel conflitto», avrebbe cessato di esistere, e più nessuno avrebbe trovato dentro i suoi cancelli «il fondamento stabile e certo, nella sua durezza e grandezza, della propria identità collettiva» .
Comparso in quella sorta di interstizio fra la coda degli anni Settanta e il prorompente arrivo del decennio seguente, Il lavoro come ideologia non può che essere letto oggi come l’annuncio del cataclisma che nell’ottobre del 1980 si rovesciò sul movimento operaio italiano (e non solo sulla classe operaia torinese). Ma, con le mille sollecitazioni che propone e la lunga sequenza di quesiti che solleva, è qualcosa di più che un bilancio degli anni Settanta e una sorta di profezia sugli anni Ottanta, come osserva d’altronde Vincenzo Bavaro nella presentazione alla riedizione digitale . Il libro di Accornero è infatti soprattutto un testo che cerca di guardare oltre la soglia del 1980 per scorgere quale direzione possano imboccare i conflitti a venire. E per questo, riaccostarsi alle sue pagine, oltre che come esercizio di memoria per ricapitolare le molte occasioni mancate, può servire per riconoscere nel presente quelle possibili linee di frattura che non siamo più abituati a vedere.
L’ideologia del lavoro in crisi
Il lavoro come ideologia è in effetti, in primo luogo, un articolato tentativo di elaborare una strategia che possa consentire al movimento operario di far fronte all’imminente ristrutturazione produttiva. Benché al lettore di oggi possa risultare meno evidente, il libro di Accornero cerca però anche di fare i conti con la sfida lanciata dal Settantasette, con l’attacco alla società del lavoro e con l’ambivalente esaltazione del «non lavoro» di cui la «generazione dell’anno Nove», come la definì Umberto Eco, aveva fatto la propria bandiera. Ed è anzi forse proprio l’obiettivo di raccogliere la sfida della «seconda società» a dare l’impronta più netta all’intero discorso e a focalizzarlo sulla crisi dell’ideologia del lavoro.
Il movimento giovanile, che nella primavera del 1977 si è coagulato nelle università attorno alla protesta contro la riforma Malfatti, ha infatti mostrato un profilo molto diverso da quello esibito dalle mobilitazioni studentesche del decennio precedente. La «seconda società» emersa in superficie col Settantasette – e che la contestazione di Luciano Lama alla Sapienza ha manifestato plasticamente – è la società dei «non garantiti», della disoccupazione e dell’occupazione precaria. Una «seconda società», come ha scritto Asor Rosa in un celebre editoriale sull’«Unità», composta da «emarginazione, disoccupazione, disoccupazione giovanile, disgregazione», «cresciuta accanto alla prima, e magari a carico di questa, ma senza trarne rilevanti vantaggi, senza avere uno sbocco e senza un radicamento reale nella «prima società» . Guardando a quel panorama, lo stesso Accornero – in una rubrica che tiene in quegli anni su «Rinascita» e i cui contributi vengono poi raccolti in volume – scrive: «Il lavoro è in piena crisi, di quantità e di qualità. I posti non bastano e sono mal distribuiti, il gusto di lavorare cala e lo si vien monetizzando; e ognuna di queste cose è legata con l’altra. Se dovesse andare avanti così, benché il lavoro non sia tutto, chissà dove arriverebbero il malessere, le inquietudini e la tensione di questi tempi, dove ci troveremmo» .
Se in molti dei suoi scritti Accornero esamina in modo approfondito gli aspetti di quella trasformazione, nel Lavoro come ideologia propone un'analisi diversa, centrata sulla dimensione anche culturale, più che semplicemente politica, del mutamento che stanno attraversando il mondo produttivo e la società italiana. Al provocatorio attacco che il Settantasette ha sferrato alla società del lavoro, con la vena iconoclasta di molti dei suoi slogan, Accornero è ben consapevole non si possa rispondere insistendo sul principio politico della centralità operaia, rilanciando l’etica lavorista oppure invocando la parola d’ordine ormai screditata del «compromesso storico». Tutte quelle risposte rischiano di rivelarsi fallimentari, dinanzi a una società che si sta modificando turbinosamente. È invece necessario cogliere quanto è cambiato, soprattutto tra i giovani, nel rapporto con il lavoro, oltre che più in generale nel rapporto fra lavoro e politica. Il punto di partenza del ragionamento è infatti rappresentato dalla «crisi del lavoro come ideale e come merce»: una crisi che appare «ugualmente profonda nei suoi due aspetti estremi, al punto che ciascuno ha la proprietà di occultare l’esistenza dell’altro, comunque di sovrastarlo» (LCI 10).
Per un verso, secondo Accornero, si tratta di una crisi che riguarda la qualità del lavoro offerto alle giovani generazioni e che scaturisce da «una diffusa inadempienza delle società capitalistiche circa la quantità di lavoro domandato rispetto a quello offerto»: ciò comporta che l’esclusione dal lavoro non sia più intesa in termini negativi, ma si rovesci «in estraneità», perché non equivale più alla «morte civile» (LCI 11). Per un altro verso, la scolarizzazione di massa ha promosso una socializzazione «doppiamente contradditoria» rispetto alla realtà del sistema produttivo: ha cioè prodotto una forza lavoro più qualificata di quanto la struttura economica richieda e che risulta inoltre contrassegnata da aspettative di ascesa della gerarchia sociale non compatibili con l’inserimento in ruoli lavorativi puramente esecutivi. Per l’intreccio di queste due componenti, osserva Accornero, «la crisi del lavoro – disaffezione o demotivazione, allergia o rifiuto – diventa tutta materiale: come si dice in questi casi, strutturale» (LCI 13). Ed è questo un primo dato di realtà che il mondo sindacale e le forze di sinistra esitano a riconoscere.
C’è peraltro anche un aspetto ulteriore e più ampio che ci si rifiuta di vedere. Una sorta di blocco culturale impedisce infatti di registrare che il lavoro sta cessando di essere un canale di formazione dell’identità. E ciò significa che la radice più profonda della crisi va rinvenuta in un processo di «trasferimento fuori del lavoro, e del tempo di lavoro, degli attributi che fondano l’identità sociale» (LCI 14). Come scrive Accornero, annodando i diversi fili che convergono verso un simile risultato: «oggi il lavoro opera su basi più ristrette, e non costituisce più un’identità globale: questa risulta pertanto meno intrinseca a quello. La scala dei valori, si sconnette dalla scala dei lavori. Viene pertanto sottoposto a critica il lavoro che si fa, separatamente e ancor prima dell’identità che esso conferisce. E comunque, riconoscersi nell’uno non equivale più a riconoscersi nell’altra, e viceversa. […] Risultato è una minore identificazione di sé nel lavoro, una minore legittimazione del lavoro a connotare il proprio essere» (LCI 52).
In sostanza, per Accornero si tratta di riconoscere che il modello di conferimento di identità che il movimento operaio ha elaborato tra Otto e Novecento non funziona: il «lavoro umile» non è più in grado di conferire un riconoscimento sociale, sia per il mutamento dei riferimenti culturali, sia perché il lavoro di fabbrica – a differenza di quanto avveniva per chi veniva dalle campagne e dal lavoro contadino – non offre più un canale di emancipazione per chi proviene da una famiglia operaia e da un contesto urbano (LCI 59). Il riconoscimento sociale viene piuttosto ricercato in un altro genere di promozione: una promozione individualistica che, più che sul lavoro, punta sui «lavori», ossia sull’ascesa sociale basata sulle competenze e sui meriti individuali: «È l’americanismo come mobilità, che rompe l’etica del lavoro intesa quale mezzo statico per la promozione sociale, per la conquista dell’identità» (LCI 67). Si tratta dunque di cogliere quel movimento che dalla società si spinge dentro la fabbrica, indebolendo ogni identità fondata sul lavoro, per elaborare strategie alternative. «Lavoro e identità non si possono disancorare (non sarebbe neppure possibile), e questo è fuori discussione. Ciò nondimeno, un'identità sociale tutta dal lavoro, una promozione sociale tutta nel lavoro, non reggono più» (LCI 72). E le vecchie strategie retoriche possono servire a poco.
Se lo scollamento fra lavoro e identità rappresenta il presupposto dell’analisi di Accornero, il suo discorso si articola a vari livelli. Innanzitutto, si indirizza verso una sorta di genealogia dell’ideologia del lavoro, che tenta di fissare le sequenze che hanno condotto il movimento operaio a fare di quella specifica raffigurazione del lavoro il perno della propria cultura politica. In secondo luogo, punta anche a mettere in luce come quella ideologia venga ridefinita nel tentativo di fronteggiare la crisi che gli anni Settanta hanno fatto esplodere rispetto alle motivazioni e allo stesso nesso identità-lavoro. Infine, si sforza di identificare una possibile strada alternativa, che torni a fare del lavoro la base per un processo ricompositivo, abbandonando però gli elementi desueti ereditati dall’ideologia del lavoro otto e novecentesca.
Il fascino discreto del lavoro
Dinanzi a una crisi culturale, più che esclusivamente economica, le risposte avanzate dal movimento operaio sembrano ad Accornero armi spuntate, sostanzialmente incapaci di cogliere la portata della trasformazione e proprio per questo ‘ideologiche’, nel senso deleterio del termine. La critica si rivolge in particolare al cuore stesso della concezione ideologica del lavoro, ma anche – nel terzo e nel quarto capitolo – a due corollari di quella ideologia, su cui anche il sindacato punta per fronteggiare la crisi, ma che in realtà indirizzano la discussione su un binario morto: per un verso, l’idea del lavoro come mestiere e, per l’altro, la retorica di quanti biasimano il lavoro come semplice «posto» e fonte di reddito.
Per quanto l’indagine di Accornero si sviluppi a vari livelli, e proceda a cerchi concentrici, è evidente che il suo bersaglio principale è il cuore più autentico del lavoro come ideologia: l’immagine che raffigura il lavoro come fattore redentivo, in grado di nobilitare chi lo svolge. Si tratta, secondo Accornero, di un’ideologia composita, che viene assemblata nel tempo, aggregando frammenti eterogenei, con l’obiettivo di legittimare socialmente il ruolo dei lavoratori salariati, ma con la conseguenza di trasformare proprio il lavoro in qualcosa di nobile in se stesso, qualcosa che cioè rappresenta potenzialmente – secondo un’espressione di Sergio Garavini – la «realizzazione più alta dell’uomo» e «il tratto distintivo dell’uomo come persona civile». Per giungere a un simile approdo e dunque per celebrare la «faccia positiva del lavoro umano», Accornero mostra come vengano annodati vari fili. Uno di questi è ripreso addirittura da Marx, da cui vengono ripescate quelle scarne frasi in cui si definisce il lavoro come «attività positiva, creativa», oltre che come un bisogno dell’essere umano, nonostante l’autore del Capitale sia molto più generoso nel sottolineare ed esibire la «faccia negativa» del lavoro come sfruttamento e costrizione. In secondo luogo, si punta sulla «generica valenza nel senso di attività necessaria» del lavoro, peraltro in contraddizione con la scoperta marxiana della distinzione tra lavoro e forza lavoro. Infine, si fa leva sulla celebrazione della funzione progressista del lavoro, che il movimento operaio recepisce dalla temperie positivista ottocentesca e che induce a riporre un’incrollabile fiducia «nell’idea di un progresso scientifico e tecnico il quale, superato il luddismo e affermatesi le coalizioni, non può che favorire l’ascesa del lavoro e delle masse che lavorano» (LCI 28).
La glorificazione della «faccia positiva» risulta inevitabilmente «carente, per non dire priva di determinazioni storiche concrete» (LCI 17), se non altro perché si scontra sempre con la realtà di processi produttivi che lasciano ben poco spazio all’iconografia celebrativa del lavoro. Se questa ideologia del lavoro tiene però fino agli anni Cinquanta del Novecento, a partire da quel momento inizia secondo Accornero a essere intaccata, contestualmente al procedere dell’automazione, dal «declino delle motivazioni intrinseche a quel lavoro industriale che è centrale in tutta la nostra epoca» (LCI 35). E questo processo matura rapidamente, esplodendo negli anni Settanta. Il dato di cui prendere atto è dunque molto semplice: «almeno in Occidente, viene in crisi l’ideologia del lavoro che si è formata ipostatizzandone la positività» (LCI 35-36). Invece di riconoscere che il lavoro «rimane uno stato di necessità ben prima che una condizione di libertà», il movimento operaio ha però reiterato la celebrazione ideologica del lavoro coltivata per un secolo, riproponendo «come se fosse un fine ciò che resterà pur sempre un mezzo», e «decantare la sua nobiltà senza dirne il senso» (LCI 37).
Secondo Accornero è invece indispensabile invertire la rotta, e dunque riconoscere come la realtà del lavoro anche in una società capitalistica avanzata cozzi in modo dirompente contro la celebrazione della faccia positiva del lavoro, custodita dal sindacato e da una parte consistente delle forze di sinistra: «perché non dire la verità qual è invece di civettare e fare prediche? Dignità, nobiltà, gioia, gloria: bisognerebbe smetterla. Sono tratti che il lavoro può assumere soltanto in momenti o per imprese di alto pathos collettivo, oppure di intima gratificazione individuale. […] Al di là di questo è solo retorica, da cui non viene soltanto quell’ipocrisia che sempre legittima lo sfruttamento, ma vengono anche le escatologie che alimentano l’autoinganno: ipocrisia ed escatologie di cui si fece il pieno nell’Ottocento senza ancora essercene liberati» (LCI 38).
Anche le altre due strategie, centrate rispettivamente sulla celebrazione del «mestiere» e sulla critica del «posto», sono inefficaci per Accornero, se non addirittura contraddittorie. Tentare di salvare l’ideologia del lavoro puntando sulla rappresentazione del lavoro come «mestiere» – laddove il mestiere è inteso come «il lavoro manuale vestito a festa, proprio come in quelle foto di epoca dove i gruppi di operai posano con cappello, baffoni e gilé, orgogliosi della propria rispettabilità proletaria» (LCI 97) – si scontra innanzitutto con la realtà del processo di «degradazione» del lavoro sperimentato a partire dal taylorismo: un processo che Harry Braverman ha allora da poco ricostruito in un libro importante e che lascia davvero poco spazio all’idea che, nell’economia capitalistica, vi sia spazio per l’esercizio dell’autonomia e della creatività dei lavoratori . La valorizzazione del lavoro in quanto «mestiere» può al massimo riguardare porzioni residuali del complessivo mondo del lavoro, esigue minoranze, piccole «aristocrazie del lavoro», il cui orgoglio – peraltro non esente dal rischio di una declinazione individualistica – non può affatto rappresentare un modello estendibile all’intero fronte dei lavoratori (LCI 112). Ma non è diverso il giudizio nei confronti delle raffigurazioni, colorate da qualche tono utopistico, di quanti vagheggiano che, nel quadro di una nuova organizzazione della produzione, il lavoro possa rivelare quel potenziale di creatività e di autorealizzazione che il capitalismo reprimerebbe (LCI 134).
La seconda strategia per salvare l’ideologia del lavoro – cioè la critica della concezione del lavoro come «posto» – appare invece ad Accornero contradditoria, perché in contrasto con molte delle rivendicazioni portate avanti negli anni a proposito dell’estensione dei diritti, delle garanzie di welfare, dell’affermazione dei diritti. In questo caso, Accornero si riferisce tanto alle critiche indirizzate verso l’«assistenzialismo» e verso quelle politiche occupazionali intese come espressione di logiche clientelari, quanto al biasimo rivolto a quei giovani che «rifiutano il lavoro» o che «cercano solamente il posto». «Che il lavoro si allenti come dovere quanto più si consolida come diritto», secondo Accornero, «è soltanto la conseguenza», mentre la causa è che «le ragioni dell’economia offrono al singolo opportunità e lo spingono a comportamenti, a modi di vivere, che divergono da quei modi di pensare, da quegli atteggiamenti collettivi che vengono o venivano sostenuti dall’ideologia del lavoro» (LCI 162-163). Ma è evidente che Accornero si riferisce anche alla retorica del «lavoro produttivo», che alimenta il biasimo da parte di una porzione dello stesso mondo sindacale nei confronti dei dipendenti pubblici, dei disoccupati intellettuali e di qualsiasi lavoratore che non faccia parte della classe dei lavoratori «produttivi». Il fatto che «il lavoro inteso come posto» appaia al movimento operaio come «una degenerazione del lavoro come diritto» è peraltro contraddittorio, per vari motivi. Innanzitutto perché «è anche una conseguenza della propria azione, un riflesso del proprio modello», nel senso che «il lavoro come posto, a volte senza saperlo e magari in vista di fini antitetici, lo si è aiutato anche la politica previdenziale, rivendicativa, sociale, contrattuale, con il sussidiamento del quasi-lavoro, con l’irrigidimento del lavoro operaio, con il misconoscimento del lavoro occulto, con l’intransigente gestione del tempo di lavoro» (LCI 187). In secondo luogo, perché il suo presupposto è l’idea che il ‘vero’ lavoro sia il lavoro «produttivo», confondendo così l’«utilità» con la «produttività» (LCI 188). Ed è d’altronde proprio alla divaricazione fra la produttività del lavoro e la sua utilità che Accornero rimanda per ridefinire un’identità non lavorista fondata sul lavoro.
La strategia dell’identità
Anche se la forza del Lavoro come ideologia consiste nella sua pars destruens, Accornero non si esime dal compito di elaborare una possibile risposta alla crisi del «Lavoro». A suo avviso, si tratta sostanzialmente di scegliere tra due opzioni alternative: per un verso, «rivalutare i contenuti del lavoro produttivo», per l’altro, «allargarne i confini rispetto al paradigma classico del valore/plusvalore» (LCI 73).
La prima strategia – che Accornero considera comunque anti-storica e politicamente perdente – consiste in sostanza nella riproposizione del modello sociale proletario, seppur declinato nel contesto dell’incipiente ristrutturazione produttiva. Questo modello rappresenta per molti versi un’attualizzazione di quello adottato nel sistema sovietico e al centro delle ricerche di Rita di Leo negli anni Settanta . Più concretamente, Accornero si riferisce al modello attorno a cui si è costruita dopo l’Autunno caldo l’immagine dell’identità sociale del lavoro. «Le definizioni di manuale e di produttivo sono quelle che più si sono rincorse, incrociate, qualche volta sovrapposte, rivelando le fondazioni morali ed economiche su cui poggiano approcci fra loro diversi come quello cattolico e quello marxista»: a dispetto dei limiti, su queste basi è venuta costruendosi negli anni Settanta un’ipotesi «di centralità operaia del lavoro socialmente produttivo» (LCI 61) in grado di bilanciare gli effetti e le ripercussioni delle trasformazioni del decennio. Quella centralità, secondo Accornero, più che essere stata operaia e produttivista, si è rivelata «fabbrichista» e «industrialista» (LCI 62), ma proprio quei tratti sono stati la base per l’espansione del potere dei lavoratori negli anni Settanta. Il limite di quel modello è invece emerso in seguito, dinanzi alle trasformazioni del lavoro, che hanno per un verso «sottratto l’identità sociale a una fondazione pura» e per l’altro hanno «complicato le definizioni puramente dicotomiche dell’identità stessa» (LCI 63).
Il modello proletario per Accornero non è però minimamente esportabile al di fuori dei confini del lavoro produttivo, se non come operazione puramente ideologica, e come tale destinata a naufragare (LCI 76). La strada che conduce verso un nuovo modello sociale deve invece passare da una diversa strategia di legittimazione del ruolo del lavoratore. Più precisamente, a suo avviso, «una risposta che voglia essere realistica non può venire trovata nel contenuto produttivo del lavoro, ma nella valutazione sociale della sua utilità». E la valorizzazione dell’utilità non può che fondarsi «sul riconoscimento della produttività generale del lavoro sociale» (LCI 77). La risposta al Settantasette e alla sfida della «seconda società» e dei «non garantiti» deve cioè passare non dalla riabilitazione della novecentesca ideologia del lavoro, bensì dall’elaborazione di una nuova retorica, di una nuova strategia di legittimazione, forse anche da una nuova ideologia, che punti sulla dimensione dell’utilità sociale del lavoro sociale (e non sulla sua produttività in senso economico). Ciò non significa abbandonare il radicamento delle identità nella realtà produttiva, ma solo rinunciare all’«operaismo faber, sovente rituale, scarsamente egemone, quintessenza sociologica di una ideologia del lavoro ormai agli sgoccioli» (LCI 79). «Se vogliamo che la relazione fra lavoro e identità ricomprenda il sociale», scrive per esempio, «non possiamo più lasciarci chiudere in quell’universo a una sola dimensione che è il modello proletario», ma si tratta piuttosto di «impiegare, per l’analisi sociale e per l’iniziativa politica, uno schema di riferimento basato su quel parametro misto», che combina valore economico e utilità sociale (LCI 85). La strada per ricucire il rapporto tra fabbrica e società, o, meglio, fra le «due società», tra «garantiti» e «non garantiti», fra «produttivi» e «non produttivi», passa dunque dalla costruzione di una nuova retorica, di una nuova strategia di legittimazione, forse persino di una nuova ideologia. Per un verso, si tratta cioè di sbarazzarsi dell’ingombrante eredità dell’ideologia del lavoro, e dunque tanto di ammettere senza esitazioni che la «faccia positiva» del lavoro è sconosciuta alla gran parte dei lavoratori, quanto che il lavoro «è tutt’ora necessità e niente affatto libertà» e che «sarà sempre un mezzo e non un fine». Per un altro verso, è invece necessario ripartire dal riconoscimento «che del lavoro conta il senso e non la nobiltà» (LCI 199). E per quanto la battaglia sulla qualità del lavoro sia importante, lo sono altrettanto «la considerazione del lavoro e il senso del lavoro e anche lo scopo del lavoro» (LCI 211).
Orizzonti perduti
Quarantaquattro anni dopo la sua prima pubblicazione, è inevitabile riconoscere nel libro di Accornero una serie di valutazioni che il tempo si è incaricato di smentire. Quelle più evidenti sono probabilmente relative alla convinzione che le conquiste sindacali degli anni Sessanta siano per molti versi divenute strutturali e che non possano dunque essere intaccate. E questo vale sia per la rigidità che Accornero attribuisce implicitamente alla centralità operaia, sia per le garanzie rivolte a figure esterne rispetto all’ambito del lavoro salariato. Questi limiti non intaccano naturalmente i meriti di una proposta che coglie tanto la necessità di ridefinire le strategie di legittimazione del conflitto sociale del movimento operaio, quanto l’intuizione di puntare sul senso dell’utilità sociale del lavoro (a prescindere dalla sua produttività). Ma hanno forse a che vedere con gli scogli contro cui la stratega teorico-politico di Accornero si sarebbe scontrata.
Il primo di questi scogli riguardava il tentativo di fuoriuscire dalle secche della chiusura ‘fabbrichista’, cui l’ideologia del lavoro inevitabilmente spingeva. Il bersaglio non era tanto la linea teorico-politica dell’“operaismo” nato dai «Quaderni rossi» e da «Classe operaia» (una tradizione cui peraltro Accornero aveva contribuito non poco, pur restandone formalmente estraneo) , quanto una visione “operaista” intesa in senso più lato, ossia la tendenza a riconoscere nel sindacato l’organizzazione più vicina alla classe operaia, e come tale in grado di interpretarne e registrarne le domande più efficacemente degli attori del sistema politico. I limiti consistevano, come Accornero aveva messo in luce in un convegno organizzato dal Pci nel 1977 a Padova su Operaismo e centralità operaia, nel «tecnologismo» e nel «salarismo»: cioè, rispettivamente, nella convinzione che il conflitto di classe si risolvesse prima di tutto nella lotta sull’organizzazione del lavoro in fabbrica e nelle rivendicazioni salariali. Dimenticando dunque il terreno politico, ossia proprio quel terreno in cui allora Mario Tronti individuava le condizioni in cui rinvenire l’«autonomia del politico», da cui poter incidere sui rapporti di forza e sul modo di produzione. «Se si prescinde dal modo di produzione», aveva scritto allora, «questo tragitto dalla fabbrica alla società rischia di essere senza fine, e in ogni caso senza ritorno», mentre, contro una visione solo materiale o culturale della centralità operaia, la si doveva intendere come «una centralità politica, su cui poggia e da cui parte ogni progetto di rinnovamento del paese» .
Come si è visto, la strategia delineata in Il lavoro come ideologia andava in una direzione diversa. Una direzione che in una certa misura cercava di registrare tanto la portata politico-culturale della critica avanzata dal Settantasette, quanto l’estensione del fronte del lavoro ben oltre i confini del lavoro di fabbrica e del lavoro «produttivo», che le tesi sull’«operaio sociale» e sul lavoro «disseminato» avevano contribuito a vedere. Al tempo stesso, non si affidava però ad alcuna forma di determinismo tecnologico, e cioè si teneva ben distante dall’idea che la trasformazione produttiva fosse destinata a dar forma a un soggetto antagonista in grado di raccogliere la bandiera lasciata cadere da una classe operaia in via di smantellamento. Il terreno d’azione su cui invitava a inoltrarsi era politico, e per molti versi coincideva con il terreno del «politico» (composto dalle istituzioni ma anche dalle organizzazioni e dal ceto politico) di cui Tronti invitava allora a sfruttare la potenziale «autonomia» . Quella che cercava era, infatti, una nuova formula di legittimazione del conflitto che fosse in grado di guardare oltre il perimetro del lavoro produttivo, di abbandonare i pregiudizi ideologici della celebrazione del lavoro e, dunque, di fornire un’identità collettiva ai diversi segmenti del lavoro dipendente, senza però ricorrere al collante ormai inefficace dell’ideologia del lavoro. Ma l’ambizione di costruire una simile identità – che, dalla società doveva poi tornare a rifluire nella fabbrica, ossia sui luoghi di lavoro – era destinata a infrangersi, oltre che contro la portata di un dirompente mutamento storico, proprio contro ciò che restava del fabbrichismo, del produttivismo e del progressismo. Ossia di quegli stessi ingredienti che avevano nutrito l’ideologia del lavoro, ma che – al termine di quello che lo stesso Accornero definì il «secolo del Lavoro» – erano destinati a trovare un nuovo ruolo e una diversa funzione.
Il fabbrichismo non riemerse più, naturalmente, come opzione strategica, come era stato nella stagione ordinovista o, in seguito, nelle celebrazioni della centralità dell’operaio massa, ma finì piuttosto per diventare una scelta dettata dalle necessità di una battaglia che, dopo la «marcia dei quarantamila», vide la classe operaia costantemente sulla difensiva. A ben guardare, l’ipotesi di costruire una nuova identità sociale del lavoro, capace di aggregare i segmenti dispersi della forza lavoro, più che proporsi come un’alternativa alla fiducia riposta nella centralità operaia, ne rappresentava un allargamento, che richiedeva che la classe operaia delle grandi fabbriche conservasse la rigidità politica mostrata negli anni Settanta. Il venir meno di quel presupposto, che divenne evidente proprio a partire dall’autunno del 1980, modificò completamente le carte sul tavolo.
La questione dell’identità del soggetto antagonista – di cui non casualmente si discusse animatamente in quella fase – iniziò a porsi nei termini di un’alternativa secca tra continuità e discontinuità rispetto al precedente ciclo conflittuale. E dunque ci si chiese – per esempio proprio all’interno di ciò che restava dei diversi segmenti dell’operaismo italiano – se fosse necessario custodire la memoria di una stagione di lotte, o se invece la conservazione di una simile memoria collettiva non rischiasse di diventare una gabbia identitaria, che avrebbe reso impossibile aprire nuovi spazi di conflitto e riconoscere le potenzialità di un antagonismo che veniva maturando nella società postmoderna. In modo eclatante, Toni Negri non esitò a tessere l’«elogio dell’assenza di memoria»: «la composizione di classe del soggetto metropolitano non ha memoria perché non ha lavoro, perché non vuole lavoro comandato, lavoro dialettico» . Replicando a simili posizioni, nel convegno su Memoria operaia e nuova composizione di classe organizzato nel 1981 dall’Istituto De Martino e da «Primo maggio», Marco Revelli mise invece in guardia dai rischi dell’esaltazione dell’assenza di memoria, dietro cui si nascondeva la convinzione che il conflitto di classe non richiedesse alcuna identità: «il soggetto privo di identità», osservò Revelli, è «il prototipo dell’uomo fascista», «il prototipo dell’uomo degli anni ’20 che […] attraverso la mediazione con la potenza, ha risolto la propria crisi di identità» . Al di là delle posizioni emerse in quella discussine, era pressoché inevitabile che la scelta andasse nella direzione della conservazione della memoria delle lotte operaie e della «stagione dei movimenti». Ognuno dei protagonisti di quella fase – i diversi segmenti del movimento sindacale, il Pci, ciò che restava della sinistra rivoluzionaria – cercò di costruire la propria memoria, talvolta senza poter evitare le inevitabili derive di ogni percorso identitario. E, nel tentativo di trovare nella memoria del passato il presidio contro l'incedere del presente, era inevitabile che la strada indicata da Accornero risultasse quantomeno accidentata, seppur non del tutto sbarrata.
Il produttivismo, in cui Accornero aveva rinvenuto la più subdola componente dell’ideologia del lavoro, riemerse invece soprattutto più avanti, in quel passaggio cruciale in cui si consumò il passaggio dalla «Prima» alla «Seconda Repubblica». Fu per molti versi nel corso di quella transizione che componenti legate al movimento operaio tornarono a sguainare l’arma della critica al lavoro come «posto», che Accornero aveva ampiamente biasimato. Percorrendo segmenti non sempre lineari, il produttivismo, tanto energicamente contestato dalla «rude razza pagana», divenne il paradossale terreno di convergenza fra vecchie e nuove figure della composizione di classe. Perché, contro il comune bersaglio del «parassitismo» rappresentato dalle pensioni di invalidità, dall’assenteismo, dai privilegi veri e falsi, dalle garanzie erogate con criteri clientelari dal sistema politico, si trovarono a convergere ciò che restava della classe operaia di fabbrica assediata dalle ristrutturazioni e quelli che allora furono definiti «lavoratori autonomi di seconda generazione», non riconducibili al ‘vecchio’ lavoro autonomo, ma per molti versi antropologicamente insofferenti verso l’egualitarismo e impregnati dall’individualismo, dall’imprenditorialismo, dal professionalismo e dalla retorica meritocratica, propri della stagione neo-liberista. Con la voracità di uno zombie, il produttivismo dell’ideologia lavorista tornò così a mostrarsi come uno straordinario dispositivo narrativo, in grado di dare linfa alla visione di un conflitto non più combattuto dal proletariato e dal capitale, ma da produttori e parassiti.
Anche il progressismo, l’ulteriore tassello che Accornero aveva rinvenuto nell’ideologia del lavoro, doveva ripresentarsi in modo prepotente, ma non più come piedistallo su cui poggiare la sagoma di una classe operaia proiettata verso il radioso sole del futuro. Il progressismo, che aveva spinto lo stesso Marx a raffigurare il proletariato come il becchino destinato a seppellire una borghesia incapace di governare le forze travolgenti che aveva evocato, doveva infatti separarsi brutalmente dall’ideologia del lavoro ereditata dall’Otto e dal Novecento, lasciando la classe operaia orfana di un mito che – nel bene e nel male – ne aveva alimentato la cultura politica. La visione progressista della storia non aveva infatti semplicemente sorretto le varie declinazioni del «modello sociale proletario», e non era stata un ingrediente soltanto degli operaismi vecchi e nuovi. Il progressismo era stato lo spirito del tempo che aveva aleggiato per due secoli sul teatro politico del mondo occidentale, acquisendo in alcune fasi una forza propulsiva all’apparenza irrefrenabile. Era proprio quello Zeitgeist che oggi possiamo riconoscere pressoché in ogni documento degli anni Settanta, tanto che persino nelle pagine di quanti avversavano l’avanzata del movimento operaio è facile ritrovare le tracce della percezione che il futuro non potesse che essere socialista, e che, per quanto deboli, i raggi del «sol dell’avvenire» avrebbero comunque illuminato il futuro delle successive generazioni. Il 1989 avrebbe invece sancito clamorosamente quel passaggio d’epoca che l’ottobre del 1980 – poche settimane dopo l’uscita del libro di Accornero – modificò con la fulminea rapidità di un Blitzkrieg, allineando in fondo l’Italia alla tendenza più generale del mondo occidentale. Come avrebbe scritto Mario Tronti, quella che si era aperta negli anni Sessanta, con il ciclo delle lotte dell’operaio massa e con l’emergere della contestazione studentesca, non era stata la tappa iniziale dell’imminente avanzata socialista, ma l’epilogo di una lunga stagione politica: «Il rosso all’orizzonte c’era: solo che non erano i bagliori dell’aurora, ma del crepuscolo» . In quel nuovo contesto, il progressismo doveva solo tramutarsi nell’entusiastico giubilo per la «fine della Storia», nella rimozione di ogni orizzonte di trasformazione radicale della società, nella fiducia riposta nelle promesse dell’incessante evoluzione tecnologica, divorziando dall’idea non solo che il motore del progresso fosse il conflitto di classe, ma dall’idea stessa che il conflitto potesse avere un ruolo positivo nel disegnare le traiettorie del futuro.
Smarrita la fiducia nel corso della storia, la classe operaia e le sue organizzazioni si trovarono a riattivare qualche frammento di ciò che restava dell’ideologia del lavoro, seppur solo come strumento di resistenza. I «nuovi soggetti», senza mai assumere una duratura consistenza politica, rimasero invece una «seconda società» informe, magmatica, fatta di precarietà, di illusioni di autonomia, di «rivolte dello stile». Le due società continuarono così a rimanere separate, mentre il fronte del lavoro sociale, a cui Accornero aveva dettato gli appunti per una nuova strategia, non giunse mai a materializzarsi davvero. Senza il vento della storia dalla propria parte, forse si sarebbero ancora potuti difendere il valore dell’utilità sociale del lavoro, e si sarebbe potuto puntare sul riconoscimento della produttività generale del lavoro sociale, come aveva suggerito Accornero. Ma non sarebbe più stato il valore della parte destinata prima o poi a trionfare e a riscattare le sofferenze di tutte le classi sfruttate della storia. Sarebbe stato solo il valore di una parte della società. Di una parte peraltro percepita non più come il perno della macchina produttiva, bensì come una componente minoritaria, sconfitta e assediata dal prorompere di un mercato vittorioso.
È d’altronde per questo che, chi volesse riprendere le sollecitazioni di Accornero, a proposito del riconoscimento della produttività generale del lavoro sociale, si troverebbe oggi alle prese con il compito – persino più impegnativo – di elaborare un progetto politico capace anche di confrontarsi con l’immagine del «progresso». E di proporre la visione di un futuro possibile che non risulti schiacciata sulla «fine della Storia» e sull’orizzonte di un presente immutabile.