testo integrale con note e bibliografia

1. Ampiamente esaurita la spinta vitale della legge n. 1369/1960, il tema della solidarietà fra committente ed appaltatore, così come il tema dell’apparato sanzionatorio dei fenomeni interpositori, occupa il legislatore e i commentatori ormai da due decenni.
Gli interventi legislativi volti ad aumentare o restringere questa forma di garanzia per i lavoratori impiegati negli appalti sono stati molti e di diverso segno.
Fra tutti, può dirsi che quello del DL n. 19/2024 appare caratterizzato da profili di singolarità non inferiori all’incisività normativa: si tratta di profili di cui non può negarsi la portata garantista, eppure non scevri da critiche sia di carattere sistematico che in termini di politica legislativa.
In questo contributo si cercherà, senza alcuna pretesa di esaustività, di porre in evidenza alcuni dei cennati profili critici.
Il DL 19/2024 è intervenuto in modo pervasivo sia sul tema dell’apparato repressivo-sanzionatorio, sia sul terreno della responsabilità solidale negli appalti leciti.
L’opportunità di trattare questo tema in connessione con quello sanzionatorio degli appalti illeciti si appalesa non solo per completezza sistematica, ma anche perché il legislatore, sorprendentemente e per la prima volta, coniuga assieme i due profili, ponendo in essere una delle più originali novità in materia di disciplina delle esternalizzazioni, ossia la creazione di un sistema in cui la garanzia e la sanzione si confondono in modo - tuttavia - poco condivisibile.
Si allude all’estensione della regola della responsabilità solidale del committente anche agli appalti illeciti/somministrazioni irregolari: fattispecie, come s’è noto, indiscutibilmente differenti, che però coincidono nel regime sanzionatorio.
Il legislatore ha introdotto un ultimo capoverso all’articolo 29 comma 2 ove precisa che il vincolo solidaristico è esteso “anche nelle ipotesi dell’utilizzatore che ricorra alla somministrazione di prestatori di lavoro nei casi di cui all’articolo 18 comma 2 nonché ai casi di appalto e di distacco di cui all’articolo 18 comma 5 bis”.
Rispetto a questa estensione del vincolo solidaristico paiono emergere delle criticità evidenti almeno dal punto di vista logico-giuridico, stante il fatto che nell’appalto illecito l’appaltatore, proprio in ragione della non genuinità del contratto, è estraneo al rapporto e non ha alcun titolo di responsabilità, mentre il committente risponde a titolo di reale (cd. “genuino”) datore di lavoro.
Qui il tema è concettuale prima ancora che pratico, nel senso che l’applicazione della responsabilità solidale al committente e all’appaltatore dell’appalto illecito pone una serie di questioni teoriche che qui non si pretende di dettagliare, ma che meritano di essere poste all’attenzione del lettore.
Se la cd. “riqualificazione” dell’appalto illecito o della somministrazione irregolare ricompone una dissociazione soggettiva, l’appaltatore a che titolo risponde per il vincolo solidaristico? La solidarietà in questo caso si risolve forse in una sanzione indiretta ? O in una forma di codatorialità ex lege ?

Sotteso a questo argomento vi è quello, ancora più generale, di comprendere se l’imputazione del rapporto al committente sia una “sanzione” a valenza repressiva, o semplicemente la “riqualificazione” del rapporto di lavoro. Insomma, il committente diventa datore di lavoro per effetto di una sanzione punitiva, o lo è perché coincide con la figura dell’art. 2094 c.c.?
Nel vigore della Legge 1369/60 si riteneva per lo più trattarsi di una forma sanzionatoria, anche per la formulazione testuale dell’ultimo comma dell’articolo 1, secondo cui “I prestatori di lavoro, occupati in violazione dei divieti posti dal presente articolo, sono considerati, a tutti gli effetti, alle dipendenze dell'imprenditore che effettivamente abbia utilizzato le loro prestazioni”; a noi sembra che sia tornata ad essere una riqualificazione con la riforma Biagi (valorizzazione della direzione del lavoro e non più di mezzi e strumenti) .
Da questo punto di vista si osservi che il comma 3 bis dell’articolo 29 diversamente prevede che il lavoratore possa “chiedere, …, la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze di quest’ultimo” .
In questo senso si veda anche la posizione assunta dall’INL nella circolare 10 dell’11 luglio 2018, secondo cui “a differenza di quanto sancito dalla previgente disciplina di cui alla L. 1369/60, nelle ipotesi di appalto illecito la circostanza che il lavoratore sia considerato dipendente dell’effettivo utilizzatore della prestazione non è “automatica”, ma subordinata al “fatto costitutivo dell’istaurazione del rapporto di lavoro su domanda del lavoratore ”
Sulla base di questa distinzione appare difficile comprendere a che titolo, nell’attuale contesto normativo, l’appaltatore illecito, non datore di lavoro in forza del comma 3 bis, possa rispondere di un vincolo di solidarietà.
Peraltro occorre rilevare che la giurisprudenza si è pronunciata negli anni in senso contrario all’estensione della disciplina solidaristica dell’articolo 29 comma 2 nelle ipotesi in cui si sia in presenza di interposizione illecita.

Vi è poi un secondo ordine di considerazioni che osta all’estensione del vincolo solidaristico all’ipotesi dell’appalto illecito.
Le norme sulla solidarietà non nascono strutturalmente con finalità sanzionatorie, né tanto meno di norma si affiancano alle sanzioni.
Il concetto del vincolo solidaristico deriva dall’offrire una maggiore garanzia per l’adempimento del credito con il coinvolgimento del terzo.
Nel caso dell’appalto sin dalla norma codicistica, ma poi in modo tecnicamente differente anche con il comma 2 dell’articolo 29 D.lgs 276/03, la funzione della norma era quella di offrire al lavoratore impiegato nell’appalto una garanzia ulteriore dei propri diritti creditori attraverso l’adempimento del terzo
L’estensione, ad opera della novella del 2024, all’appalto illecito, della solidarietà comporta il ribaltamento della prospettiva generando una sorta di responsabilità oggettiva estesa che prescinde dal ruolo svolto dall’appaltatore nella vicenda e dalla imputabilità della prestazione divenendo una sorta di misura sanzionatoria.
In questa prospettiva si passa da una norma con finalità di garanzia nei confronti dei diritti dei lavoratori attraverso la solidarietà, ad una visione incoerente, secondo cui dalla non genuinità dell’appalto discende necessariamente un vincolo solidale.

2. Il tema della solidarietà non ha subito solo un’estensione in termini di fattispecie ma è stata in un certo senso utilizzata per introdurre un meccanismo “anticipatorio” del discusso salario minimo.
Il nuovo teso dell’articolo 1 bis dell’articolo 29 del D.lgs 276/03 come novellato dal dal DL 19/204 e dalla relativa legge di conversione prevede espressamente che “Al personale impiegato nell’appalto di opere o di servizi e nel subappalto spetta un trattamento economico e normativo complessivamente non inferiore a quello previsto dal contratto collettivo nazionale o territoriale stipulato dalle associazione sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, applicato nel settore e per la zona strettamente connessi con l’attività oggetto dell’appalto e del subappalto”
Qui una prima perplessità riguarda la previsione, assai singolare, di una forma di salario minimo (o di efficacia erga omnes del contratto collettivo) limitato ai soli dipendenti di imprese appaltatrici: con ricadute problematiche assai complesse sul temi che sono propri del dibattito sul salario minimo .
Oltre l’orizzonte del salario minimo e dell’ efficacia soggettiva del contratto collettivo, si pongono ulteriori problemi.
Una criticità si pone a proposito del superamento di uno degli elementi che è sempre stato a fondamento della distinzione fra appalto e somministrazione di lavoro. Sotto questo profilo non vi è chi non veda come attraverso questa disposizione si sia creata una sovrapposizione con il contenuto dell’articolo 35 del D.lgs 81/15 in materia di somministrazione di lavoro.
Da questo punto di vista si deve osservare come una previsione di tal fatta sollevi alcune perplessità poiché essa, forse inconsapevolmente, detta una norma afferente al rapporto tra lavoratore e datore di lavoro (nella fattispecie, appaltatore) prendendo di mira il rapporto di responsabilità solidale che grava sul terzo committente.
Ancora, emerge una sorta di visione nostalgica di un passato che avrebbe dovuto essere stato superato con l’abrogazione dell’articolo 3 della Legge 1369/60 che anche in quel caso – limitatamente ad alcune fattispecie – prevedeva “sono tenuti in solido con quest'ultimo a corrispondere ai lavoratori da esso dipendenti un trattamento minimo inderogabile retributivo e ad assicurare un trattamento normativo, non inferiori a quelli spettanti ai lavoratori da loro dipendenti”.
Nella formulazione attuale però si riscontra la singolarità di avere individuato quel trattamento minimo in una determinata fonte contrattual-collettiva estendendone l’efficacia soggettiva.
La domanda da porsi, da questo punto di vista, è perché una siffatta disciplina sostanziale non debba avere valenza generale e riguardare, invece, solo, indirettamente gli appaltatori, e direttamente gli appaltanti.
In altre parole, il paradosso potrebbe consistere nella circostanza per cui all’interno dell’ordinamento si avrebbe un salario minimo per i dipendenti che operano in appalto e nessuna norma in tal senso per i dipendenti che in appalto non operano.
Qualche interrogativo forse occorrerebbe porlo rispetto a quest’ultima circostanza.
Ferme restando le superiori perplessità in ordine all’introduzione surrettizia di una norma sul salario minimo operante per il tramite della solidarietà negli appalti, occorre svolgere poi ulteriori considerazioni sull’efficacia di questa previsione - come di altri disegni di legge sul salario minimo – al fine di garantire una retribuzione adeguata.
Sotto questo profilo si rammenta che il trattamento retributivo previsto dai contratti collettivi sottoscritti da soggetti qualificati come comparativamente più rappresentativi non sia di per sé stesso garanzia di una retribuzione proporzionata e sufficiente, o quanto meno non è garanzia del rispetto della norma costituzionale.
Sul punto si ricorda la nota pronuncia della suprema Corte 27711/23 della S.C., secondo cui è possibile che la retribuzione, quand’anche prevista dalla contrattazione collettiva sottoscritta da soggetti qualificati come (comparativamente più) rappresentativi, sia giudicata come non “equa” ai sensi e secondo i noti parametri dell’art. 36 Cost..
Questo non significa che il parametro corretto dell’”equità” retributiva sia la soglia di povertà, né tanto meno il mercato, poiché i presupposti della norma costituzionale sono altri.
Come che sia, sta di fatto che sulla base dell’accertamento di un trattamento retributivo inferiore al precetto costituzionale, come interpretato e quantificato dal giudice, lo stesso giudice potrà condannare il datore di lavoro alle differenze retributive utilizzando, a fini parametrici, un contratto collettivo diverso da quello applicato.
In questo contesto si inserisce il tema dell’appalto e della connessa responsabilità solidale che potrebbe coinvolgere, ai sensi del D.lgs 276/03 art. 29 comma 2, il committente.
Quest’ultimo, infatti, ben potrebbe trovarsi a rispondere di differenze retributive derivanti dall’accertamento della violazione dell’articolo 36 Cost da parte dell’appaltatore in forza del vincolo solidaristico, con evidenti ricadute economiche e di sostenibilità.
Sotto questo profilo la garanzia prevista dal neo-introdotto comma 1-bis del citato articolo 29, per quanto introduca indebitamente una forma di salario minimo, non supera e risolve il problema nella misura in cui l’imposizione del trattamento economico complessivo non inferiore a quello previsto dal Contratto collettivo sottoscritto “dalle associazioni sindacale dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, applicato nel settore e per la zona strettamente connessi con l’attività oggetto dell’appalto e del subappalto” non è di per sé stessa garanzia che quest’ultimo non sia anch’esso violativo del precetto Costituzionale.

Il secondo profilo critico riguarda l’ “imponderabilità” degli effetti per il committente che potrebbe trovarsi nella paradossale condizione dei dovere rispondere non rispetto alla violazione del precetto del comma 1 bis ma in alcuni casi per violazione del 36 Cost.. Infatti, dopo Cass. n. 27711/2023, non è affatto scontato che l’applicazione di un contratto collettivo che abbia le caratteristiche del comma 1 bis sia anche rispettoso del precetto costituzionale.

Un ulteriore aspetto problematico attiene al rischio che dalla formulazione della norma possa discendere per via indiretta il superamento di uno degli elementi distintivi dell’appalto rispetto alla somministrazione ovvero il principio dell’obbligo di parità di trattamento. Argomento quest’ultimo che potrebbe modificare e non di poco il mercato delle terziarizzazioni a favore di una figura – la somministrazione di lavoro – che in una condizione di parità “di fatto” offrirebbe però maggiori certezze.
Per meglio inquadrare il tema occorre risalire nuovamente alla genesi dell’attuale assetto normativo che si fonda sul superamento della Legge 1369/60 ed in particolare dell’articolo 3 ad opera della norma del 2003.
Quell’abrogazione aveva una coerenza di sistema nella misura in cui la “parità di trattamento” è un principio riservato soltanto al contratto di somministrazione e non all’appalto. La coerenza nasce dalla circostanza per la quale, nella somministrazione, si è in presenza di un rapporto di lavoro che, sebbene formalmente sia imputabile alla società di somministrazione, vede i dipendenti somministrati entrare nell’organizzazione dell’utilizzatore per essere diretti da quest’ultimo . Da tale circostanza deriva, evidentemente, che il dato fattuale giustifica sul piano dell’equità il diritto dei lavoratori ad un trattamento paritario rispetto ai dipendenti regolarmente assunti dall’utilizzatore con i quali lavorano. In altre parole, sebbene vi sia una dissociazione soggettiva fra soggetto utilizzatore rispetto al titolare formale del rapporto di lavoro prevale il dato reale in materia di trattamento del lavoratore somministrato.
Nel caso dell’appalto inteso nella sua applicazione fisiologica e non patologica – anche quando questo sia svolto all’interno dell’azienda – i dipendenti addetti allo svolgimento dell’appalto sono diretti e gestiti dal soggetto appaltatore, pertanto, fanno parte dell’organizzazione di quest’ultimo. Sotto questo aspetto, essendovi una organizzazione imprenditoriale distinta da quella dell’appaltante in cui è inserito il dipendente impiegato nell’appalto, non è giustificabile - o quanto meno, non è organizzativamente ed eticamente cogente l’applicazione di una parità di trattamento rispetto a quest’ultimo.
Sotto diverso profilo, l’assenza di parità di trattamento ha importanti riflessi sulla competitività in termini economici dell’appalto. Questa maggiore competitività – sempre in termini di coerenza del sistema – ha il prezzo dell’incertezza circa il vaglio della “genuinità” dell’appalto che oggettivamente è meno rilevante con riferimento alla somministrazione di lavoro, purché il contratto sia stato concluso con un soggetto abilitato.
Rileggendo a distanza di anni i commenti connessi al superamento della parità di trattamento nelle ipotesi di appalto si comprende come vi fosse una tendenza a guardare con maggiore fiducia ai fenomeni di terziarizzazione della prestazione, anche considerando che questa potesse generare vantaggi competitivi in termini di costi, rispetto a quanto non accada oggi.

3, In un quadro come quello appena delineato appare di tutta evidenza come si stia sviluppando un processo nel quale le doverose tutele dei lavoratori impiegati nelle catene di appalti, lungi dal disegnare un disegno armonico che tenga conto anche delle esigenze e delle caratteristiche delle imprese coinvolte, s’impongono per via sanzionatoria od asistematica.
In realtà, senza allargare troppo il discorso, sarebbe sufficiente guardare al dritto uni-europeo per trarne indicazioni utili nella direzione sopra evocata.
In particolare, da tempo l’Europa sta suggerendo e sperimentando la via dell’innovazione e dei diritti non imponendo alle imprese di osservare specifici standard di risultato nelle materie ambientali e sociali ma imponendo “di integrare nei loro sistemi di gestione una serie di procedure per l’esercizio del dovere di diligenza ”.
In altre parole, si guarda all’effetto tramite le procedure di controllo del corretto adempimento.
In questo contesto occorre menzionare la Direttiva c.d. “reporting CSRD” e la direttiva di recentissima approvazione sulla Due diligence, che sono espressione di questo nuovo approccio regolativo. Esse, infatti, stabiliscono una serie di obblighi di controllo sulle catene di valore facenti capo alle grandi imprese, con l’intento di influire sulle modalità con cui tali imprese organizzano e controllano le loro attività decentrate.
Allo stesso modo Il Regolamento europeo n. 2023/2772 indica in dettaglio le informazioni richieste alle società in relazione sia alla forza lavoro propria (ESRS S1) che ai lavoratori della catena del valore (ESRS S2).
In particolare, specifica gli obblighi di informazione delle imprese al fine di consentire agli utenti di comprendere gli i impatti sulle questioni di sostenibilità sociale e ambientale. La Direttiva CSRD specifica che è richiesta «una descrizione dei principali impatti legati alle attività delle imprese e della relativa catena di fornitura».
Queste espressioni non sono di taglio giuridico, ma rinviano a un concetto economico di filiera che è alla base anche della “catena degli appalti”.
Il tema, quindi, non è quello della repressione e del regime sanzionatorio, ma quello dell’implementazione di forme di controllo proattivo per evitare “a monte” l’ingenerarsi della la fase patologica che, in una certa misura, è bene rappresentata da ricorso ex post alle forme di responsabilità solidale di cui si è discusso.
Occorre però considerare che i meccanismi di controllo non sono sconosciuti al nostro ordinamento.
Si pensi alla precedente formulazione del comma 2 dell’articolo 29 del D.lgs 276/03 ove si prevedeva la possibilità per la contrattazione collettiva di “individuare metodi e procedure di controllo e di verifica della regolarita` complessiva degli appalti” o ancora all’attuale disciplina della solidarietà nel contratto di trasporto in cui la verifica preventiva della documentazione esclude il vincolo di solidarietà.
Una diversa impostazione al tema della dei diritti dei lavoratori nell’ambito delle catene degli appalti potrebbe essere quella, di stampo comunitario e non solo, che percorsi che prevedano un atteggiamento proattivo che consenta al committente di verificare preliminare o anche periodica, in corso di rapporto, circa l’adempimento degli obblighi dell’appaltatore nei confronti dei propri dipendenti, senza, però, che ciò sfoci in fenomeni invasivi ed interpositori ma che consenta al committente limitare, attraverso quella citata condotta proattiva, gli effetti di forme di responsabilità oggettiva.

4. Volendo svolgere valutazioni sommarie sul testo novellato dell’articolo 29 del d.lgs. n. 276/2003m è possibile affermare che per un verso la norma – pur mossa da intenti meritevoli e in parte imposti dall’opinione pubblica - ha introdotto un meccanismo solidaristico nell’ipotesi di illiceità dell’appalto che appare stridente con la posizione giuridica delle parti a seguito dell’accertamento dell’interposizione nonché contraria alla giurisprudenza formatasi sul punto.
In particolare, la modifica della norma crea una sorta di responsabilità solidale sanzionatoria che non ha molti precedenti o comunque è molto distante da quella che è la finalità di una norma sulla solidarietà.
Parimenti distante da una norma sulla solidarietà è quanto previsto dal comma 1 bis che introduce – volutamente o meno – una forma di salario minimo che ha il sapore per un verso di “prova generale” sul salario minimo – ammesso e non concesso che una disposizione così formulata possa essere risolutiva delle diverse questioni che ruotano attorno al salario minimo ed all’idea costituzionale di salario – per altro verso assomiglia tanto al recupero di residuati storici figli di un’idea preconcetta risalente agli anni 60’ di un valore negativo di cui è intrinsecamente portatore l’istituto dell’appalto.
In prospettiva la “via” potrebbe essere quella di prevedere, più che l’espansione dell’ambito di operatività della solidarietà con tutte le criticità che da essa possono conseguire, percorsi di verifica della compliance delle catene degli appalti in ottica di presidio del rispetto delle regole da parte di appaltatori e subappaltatori.

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