Testo integrale con note e bibliografia
1. La sentenza della Corte costituzionale n. 54 del 4 marzo 2022 si pone nel solco di quel lungo cammino giudiziale per il riconoscimento della parità di trattamento dei cittadini immigrati e rappresenta l’ultimo tassello del quadro degli interventi giurisprudenziali in materia di prestazioni sociali in favore di cittadini extracomunitari . La Corte infatti ha definitivamente chiarito che costoro, anche se non siano titolari di un permesso di lungo periodo, non possono essere esclusi dal godimento dell’assegno di natalità (cosiddetto bonus bebè) e dell’assegno di maternità.
Invero, proprio il tema delle prestazioni di assistenza sociale destinate ai cittadini di Paesi terzi e ai loro familiari è da lungo tempo in Italia un fronte aperto nella lotta alle discriminazioni .
E in numerose occasioni proprio il giudizio di legittimità della Corte Costituzionale si è reso indispensabile per offrire un’interpretazione delle varie disposizioni coerente con l’ordinamento multilivello .
Oggetto di contesa sono state quelle previsioni che, unitamente alle molteplici prestazioni sociali erogate dallo Stato e dalle Regioni, rilevano sia per l’incidenza sulla spesa pubblica sia per l’ausilio al bilancio familiare .
Nel complesso, molte di queste misure sono estese agli stranieri regolarmente soggiornanti in Italia, ma sono condizionate al possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, oltre a determinati requisiti reddituali e talvolta territoriali .
Il fondamento che le accomuna, e soprattutto la ratio da seguire nell’interpretazione dei casi incerti, vanno rintracciati nell’ambito delle disposizioni cornice contenute nel d.lgs. n. 286/1998 (d’ora in poi TUI).
In particolare va considerato il sistema valoriale a cui tali previsioni si ispirano, e cioè il riferimento ai principi generali quali il riconoscimento dei diritti fondamentali e il godimento dei diritti in materia sociale. Presupposti questi, ritenuti indispensabili per garantire a tutti i lavoratori stranieri e alle loro famiglie la parità di trattamento e la piena uguaglianza di diritti rispetto ai lavoratori italiani (art. 3 Cost.) .
D’altra parte è anche vero che il legislatore può legittimamente decidere di circoscrivere la platea dei beneficiari di determinate prestazioni sociali, benché l’eventuale limitazione «deve pur sempre rispondere al principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost.» e «tale principio può ritenersi rispettato solo qualora esista una “causa normativa” della differenziazione, che sia ‘giustificata’ da una ragionevole correlazione tra la condizione a cui è subordinata l’attribuzione del beneficio e gli altri peculiari requisiti che ne condizionano il riconoscimento e ne definiscono la ratio» .
Il tema quindi non è più solo confinato in una dimensione statica di mero riconoscimento dei diritti sociali degli immigrati, ma si colloca in un’ottica prospettico–dinamica che riguarda la solidarietà sociale e il tema dell’uguaglianza dei diritti, travalicando quindi la mera prospettiva nazionale, per acquisirne una globale .
2. Con l’art. 3 della legge 23 dicembre 2021, n. 238, il legislatore nazionale ha ridefinito le condizioni di accesso dei cittadini dei Paesi terzi alle prestazioni sociali in termini generali e con specifico riguardo all’assegno di natalità e all’assegno di maternità.
L’iter istituzionale che ha condotto a tale esito ha preso avvio dalle osservazioni critiche avanzate dalla Commissione Europea circa l’inadeguato recepimento della direttiva n. 2011/98/UE sul permesso unico .
Con lettera di costituzione in mora trasmessa al Governo italiano il 26 luglio 2019, la Commissione europea ha avviato una procedura di infrazione per la non corretta attuazione delle norme UE in materia di permessi di lavoro e di soggiorno extracomunitari volta a garantire che i lavoratori originari di Paesi terzi, residenti legalmente in un Paese dell’UE, godano della parità di trattamento con i cittadini di quel paese per quanto riguarda le condizioni di lavoro, la libertà di associazione, l’istruzione, la sicurezza sociale e le agevolazioni fiscali tra le altre aree.
In particolare, rileva l’art. 12, par. 1, lett. a), Dir. UE n. 2011/98, sul “Diritto alla parità di trattamento” per i cittadini di Paesi terzi ammessi in uno Stato membro o per fini lavorativi o per fini diversi (in tale secondo caso, che siano titolari di un permesso di soggiorno e sia loro consentito di lavorare), che concerne i settori della sicurezza sociale (come definiti nel Reg. n. 883/2004/CE).
Il legislatore italiano, invece, riteneva soddisfatto il contenuto precettivo dell’art. 12, par. 1, lett. e), Dir. UE n. 2011/98 già con l’41 TUI, e considerava quindi che l’atto di recepimento della medesima direttiva (ossia il d.lgs. n. 40 del 2014) non dovesse includere alcuna disposizione relativa all’assistenza sociale.
Tuttavia, proprio questa valutazione operata dalle istituzioni nazionali è stata contestata dalla Commissione europea che ha precisato l’esigenza di uno specifico recepimento, ravvisando un vero e proprio ‘disallineamento’ della normativa interna rispetto alla citata lett. e) dell’art. 12, par. 1, Dir. UE n. 2011/98.
Gli addebiti contestati con la procedura di infrazione, pertanto, hanno riguardato il contrasto appena segnalato tra la norma interna (art. 41 TUI) e l’art. 12, per. 1, lett. e), Dir. UE n. 2011/98.
Per un verso, in relazione all’ambito soggettivo, la disposizione di diritto interno garantirebbe la parità di trattamento solo per coloro che sono in possesso di una carta di soggiorno o di un permesso di soggiorno di durata non inferiore ad un anno (ove l’espressione «carta di soggiorno» è superata e deve essere letta come “permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo”), quando invece la direttiva non prevede alcuna durata minima del permesso di soggiorno, fatta esclusione per le deroghe previste dall’articolo 12, par. 2, lett. b), Dir. UE n. 2011/98.
Per altro verso, con riferimento all’ambito di applicazione oggettivo, l’indicazione delle prestazioni di “assistenza sociale” di cui all’art. 41 TUI contraddirebbe quanto invece previsto dall’articolo 12, par. 1, lett. e), Dir. UE n. 2011/98, che rinvia alle prestazioni di “sicurezza sociale” di cui al regolamento (CE) n. 883/2004. Questa discrasia, secondo la Commissione europea, non sarebbe dovuta a una differenza solo nominalistica, perché ben potrebbe generare conseguenze sostanziali in sede di interpretazione, determinando, in definitiva, un recepimento non sufficientemente univoco.
Nel complesso, secondo la Commissione europea, le deroghe della direttiva, di cui al combinato disposto dell’art.12, par.1, lett. e), e dell’art. 12, par. 2, lett. b), c. 1 e 2, contemplano limitazioni meno restrittive di quelle previste dall’art. 41 TUI.
Peraltro, sempre secondo quanto ritenuto nel parere della Commissione, il disallineamento della disciplina nazionale coinvolgerebbe anche alcune disposizioni interne volte a disciplinare specifiche prestazioni sociali – rientranti nella nozione di sicurezza sociale – che escluderebbero così dalla platea dei beneficiari, coloro che invece ne avrebbero diritto se si applicassero i parametri di cui all’art. 12, par. 1, lett. e), Dir. UE n. 2011/98.
Il riferimento quindi sarebbe alle norme che prevedono: l’Assegno ai nuclei familiari con almeno tre figli minori di cui all’art. 65, L. n. 448/1998 (cosiddetto ANF); l’Assegno di maternità di base, ex art. 74, d.lgs. n. 151/2001; l’Assegno di maternità per lavori atipici e discontinui, di cu all’art. 75, d.lgs. n. 151/2001; nonché il cosiddetto bonus bebè 2015-2017, ex art. 1, commi da 125 a 129, L. n. 190/2014 (legge di stabilità 2015).
Dall’analisi di questi rilievi, si spiega perché il legislatore del 2021 sia intervenuto nel ridefinire gli ambiti soggettivi e oggettivi del TUI .
In primo luogo, con riguardo all’accesso alle prestazioni, anche economiche, di assistenza sociale, il nuovo testo dell’art. 41, d.lgs. n. 286/1998, così come modificato dall’art. 3, c. 1, lett. a), della l. n. 238/2021, estende l’equiparazione ai cittadini italiani non solo degli stranieri titolari di permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, ma anche dei titolari di permesso di soggiorno di durata non inferiore ad un anno .
Per le prestazioni familiari , il nuovo comma 1-ter dell’art. 41 TUI, prevede adesso che, ai fini della fruizione di tali benefici, siano equiparati ai cittadini italiani sia gli stranieri titolari di permesso unico di lavoro autorizzati a svolgere un’attività lavorativa per un periodo superiore a sei mesi, sia gli stranieri titolari di permesso di soggiorno per motivi di ricerca autorizzati a soggiornare per un periodo superiore a sei mesi.
Di conseguenza, la modifica di questo dato normativo riverbera i suoi effetti sulle norme specifiche dell’ordinamento in materia di prestazioni familiari.
Così, ex art. 3, c. 2, l. n. 238/2021, è apportata una modifica all’art. 65, c. 1, della l. n. 448/1998, in materia di assegno per nuclei familiari con almeno tre figli minori, volta a ricomprendere tra i fruitori anche gli stranieri titolari di un permesso unico di lavoro autorizzati a svolgere un’attività lavorativa per un periodo superiore a sei mesi, nonché gli stranieri titolari di permesso di soggiorno per motivi di ricerca autorizzati a soggiornare per un periodo superiore a sei mesi (sono i soggetti di cui al citato comma 1-ter introdotto nell’art. 41 TUI).
Analogamente, con il comma 3 dell’art. 3, l. n. 238/2021, il legislatore interviene sulla disciplina relativa all’assegno di maternità di base e all’assegno di maternità per lavori atipici e discontinui, di cui agli artt. 74 e 75, d.lgs. n. 151 del 2001.
In particolare, è stata ampliata la platea dei beneficiari dell’assegno di maternità, ricomprendendovi anche le donne residenti, cittadine italiane o comunitarie o familiari titolari della carta di soggiorno, o titolari di permesso di soggiorno ed equiparate alle cittadine italiane ai sensi dell’art. 41, comma 1-ter, TUI, ovvero titolari di permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo. La medesima estensione dei requisiti soggettivi concerne anche l’assegno di natalità, in base alle novità introdotte dall’art. 3, comma 4, della l. n. 238/2021.
Questo intervento legislativo, oltre al mero ambito di applicazione della normativa, avrà di certo un impatto più significativo con riguardo al complesso di tutele di cui beneficiano gli immigrati nell’ordinamento interno, modificando le linee di tutela del TUI in una direzione più coerente con i principi dell’ordinamento multilivello in tema di sicurezza sociale e di prestazioni familiari in favore dei cittadini extracomunitari e dei loro nuclei familiari.
3. Prima ancora dell’intervento legislativo e del parere della Commissione UE, di cui si è dato conto, il dibattito sui diritti sociali degli stranieri era già protagonista del serrato dialogo a più voci tra Corte di cassazione, Corte costituzionale e CGUE .
Il tutto ha avuto inizio con una serie di ordinanze “gemelle” depositate nel 2019 , con cui la S.C. ha sollevato una questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 125, L. n. 190/14, (cosiddetto bonus bebè) e dell’art. 74, d.lgs. n. 151/01 (indennità di maternità di base), nella parte in cui riconoscono le rispettive prestazioni ai soli stranieri titolari di permesso di soggiorno di lungo periodo, anziché di permesso di soggiorno di almeno un anno ai sensi dell’art. 41, TUI , escludendo gli immigrati con permesso di soggiorno annuale per motivi di lavoro ex dir. n. 2011/98/UE, e quelli titolari di un permesso di soggiorno per ricongiungimento familiare ai sensi della dir. n. 2003/86/CE .
La Corte Costituzionale, con l’ord. n. 182 del 30 luglio 2020 , ritenendo sussistente il contrasto con l’art. 3 Cost. e con l’art. 34 della Carta dei Diritti Fondamentali UE (CDFUE) - che garantisce il diritto alla sicurezza sociale e ai benefici sociali a «ogni persona che risieda o si sposti legalmente all’interno dell’Unione» - preliminarmente ha sottoposto la questione con un rinvio pregiudiziale alla Corte UE, ai sensi dell’art. 267 TFUE.
La Consulta ha chiarito che non poteva esimersi dal valutare se la disposizione infrangesse «in pari tempo i principi costituzionali e le garanzie sancite dalla Carta: l’integrarsi delle garanzie della Costituzione con quelle sancite dalla Carta determina, infatti, un concorso di rimedi giurisdizionali, arricchisce gli strumenti di tutela dei diritti fondamentali e, per definizione, esclude ogni preclusione».
Inoltre l’ordinanza ha ribadito la necessità di esperire il rinvio pregiudiziale «ogniqualvolta ciò sia necessario per chiarire il significato e gli effetti delle norme della Carta»; solo in tal modo la Corte «potrà, all’esito di tale valutazione, dichiarare l’illegittimità costituzionale della disposizione censurata, rimuovendo così la stessa dall’ordinamento nazionale con effetti erga omnes» .
Proprio la latitudine di tali garanzie innesca a livello sistemico un dialogo tra le Corti che si riverbera «sul costante evolvere dei precetti costituzionali, in un rapporto di mutua implicazione e di feconda integrazione» .
4.Il rinvio pregiudiziale, nonostante il complesso dibattito processuale sulla sua ricevibilità , è stato accolto il 2 settembre 2021 dalla Corte di Giustizia (da qui in poi O. D. et altri c. INPS) , secondo cui i cittadini di Paesi terzi titolari di un permesso unico di lavoro - ottenuto in forza della normativa italiana, che recepisce una direttiva dell’Unione - hanno il diritto di beneficiare di un assegno di natalità e di un assegno di maternità così come previsti dalla normativa italiana.
E ciò in considerazione dell’ambito soggettivo dell’art. 12, par. 1, Dir. n. 2011/98/CE, che è destinato sia ai cittadini di Paesi terzi ammessi in uno Stato membro a fini lavorativi a norma del diritto dell’Unione o nazionale, sia ai cittadini di Paesi terzi che sono stati ammessi in uno Stato membro a fini diversi dall’attività lavorativa a norma del diritto dell’Unione o nazionale, ai quali è consentito di lavorare e che sono in possesso di un permesso di soggiorno ai sensi del Reg. n. 1030/2002 (punto 48, sent. O. D. et altri c. INPS).
Nell’ambito di tale contesto normativo euro-unitario, in alcuni suoi precedenti, la Corte di giustizia già aveva avuto modo di dichiarare illegittima, in quanto discriminatoria, la prassi dell’INPS atta a negare l’accesso a talune prestazioni sociali ai cittadini di Paesi Terzi titolari di permesso di soggiorno per motivi di lavoro e non per residenti di lungo periodo .
In queste occasioni la Corte aveva puntualizzato che il principio generale di parità di trattamento al centro della Direttiva n. 2011/98/UE, per un verso, ammette deroghe per alcune categorie di cittadini di Paesi Terzi, per l’altro, consente agli Stati Membri di introdurle solo a fronte di una previsione legislativa espressa . E dal momento che con il d.lgs. n. 40/2014, dando attuazione alla direttiva, lo Stato italiano si è limitato a regolare la procedura di domanda per il rilascio del permesso - senza prevedere una specifica disciplina con riguardo ai diritti riconosciuti ai lavoratori dei paesi terzi - la Corte ha correttamente concluso che il legislatore nazionale non si è avvalso dell’unico margine di scostamento consentito agli Stati .
Le medesime considerazione sono richiamate anche nelle motivazioni della sentenza O. D. et altri . Tuttavia, diversamente dalla formulazione del quesito della Corte costituzionale, la Corte UE sembra svalutare la centralità ermeneutica del richiamo all’art. 34 CDFUE , fondando il suo iter logico-giuridico sulle norme del diritto derivato (cioè l’art. 12, par. 1, lett. e), Dir. n. 2011/98/UE e l’art. 3, par. 1, lett. b) e j), Reg. n. 883/2004).
Proprio impostando la questione in questi termini, la CGUE si chiede se l’assegno di natalità e l’assegno di maternità costituiscano prestazioni rientranti nei settori della sicurezza sociale, per i quali i cittadini di Paesi terzi di cui all’art. 3, par. 1, lett. b) e c), Dir. 2011/98/CE, beneficiano del diritto alla parità di trattamento.
I giudici UE, dopo una rapida disamina, rispondono affermativamente al quesito e pertanto dichiarano che l’art. 12, par. 1, lett. e), dir. n. 2011/98, deve essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale che esclude i cittadini di paesi terzi di cui all’art. 3, par. 1, lett. b) e c), di tale direttiva dal beneficio di un assegno di natalità e di un assegno di maternità previsti da detta normativa.
La sentenza si pone quindi nel filone di quella giurisprudenza volta a generalizzare la tutela in favore degli immigrati extracomunitari che, partecipando alla vita sociale ed economica degli Stati in cui risiedono, hanno diritto a essere trattati in modo paritario con i cittadini comunitari, prescindendo quindi da altre ragioni soggettive che non siano quelle generalmente dettate dalle previsioni normative che attribuiscono i relativi benefici.
Tuttavia nelle motivazioni non emerge un profilo di estremo interesse, per il potenziale sviluppo applicativo delle disposizioni esaminate, e cioè la ricorrenza di più fattori di discriminazione in capo ai soggetti esclusi dai benefici familiari.
La Corte EU, infatti, avrebbe potuto cogliere l’opportunità di far risaltare quanto queste previsioni siano destinate anche ad assolvere una funzione di sostegno alle famiglie meno abbienti con figli, sia in termini generali (bonus bebè), per favorire la genitorialità, sia con specifico riguardo alla tutela del periodo di maternità, legato a un fattore gender plus (bonus maternità). Aspetto questo che le corti nazionali non avevano mancato di segnalare nei giudizi di rimessione, individuando negli artt. 3 e 31 Cost., i parametri interni di valutazione della legittimità delle norme, richiamando espressamente il divieto di discriminazioni arbitrarie e la tutela della maternità e dell’infanzia.
5. Il farraginoso iter giurisprudenziale che ha avuto ad oggetto la valutazione della conformità all’ordinamento multilivello dell’assegno di natalità e dell’assegno di maternità, si è da poco concluso con il verdetto della Corte costituzionale, che riunita in camera di consiglio l’11 gennaio 2022, ha esaminato le questioni, depositando la sentenza il 4 marzo 2022.
Come era prevedibile, anche in ottemperanza al giudizio emesso dalla CGUE, la Corte ha dichiarato incostituzionali le norme che escludono dalla concessione dei due assegni i cittadini di paesi terzi ammessi a fini lavorativi e quelli ammessi a fini diversi dall’attività lavorativa ai quali è consentito lavorare e che sono in possesso di un permesso di soggiorno di durata superiore a sei mesi.
È stata dichiarata incostituzionale anche l’analoga norma contenuta nelle proroghe del “bonus bebè”. In particolare, la Corte, dopo aver negato che le recenti modifiche al TUI (vd. supra) e il varo della disciplina dell’assegno unico (vd. infra) possano incidere sull’esito del giudizio (cfr. p. 5) in applicazione dell’art. 11 delle preleggi, affronta nel merito le questioni (cfr. p. 8 ss.).
Va innanzitutto precisato che il pregio della sentenza è senz’altro quello di avere posto in un’unica prospettiva argomentativa e logica l’insieme delle norme dell’ordinamento multilivello, offrendo in tal modo un coordinamento chiaro e “armonico” anche per l’interpretazione delle questioni future.
Il punto di partenza è il richiamo alla dir. n. 2011/98/UE che riveste un ruolo cruciale nell’individuare l’obiettivo di «garantire l’equo trattamento dei cittadini dei paesi terzi che soggiornano regolarmente nel territorio degli Stati membri», nella prospettiva di «una politica di integrazione più incisiva» (considerando n. 2), e di «ridurre la disparità di diritti tra i cittadini dell’Unione e i cittadini di paesi terzi che lavorano regolarmente in uno Stato membro» (considerando n. 19).
Ai cittadini di Paesi terzi che già «contribuiscono all’economia dell’Unione con il loro lavoro e i loro versamenti di imposte» (considerando n. 19), la direttiva attribuisce «un insieme di diritti» e impone agli Stati membri di salvaguardarli, nell’organizzare i rispettivi sistemi di sicurezza sociale (considerando n. 26) nella maniera che essi reputano più appropriata (Corte di giustizia dell’Unione europea, sentenza 25 novembre 2020, nella causa C-302/19, punto 23).
Da qui il passaggio successivo si concentra sull’art. 12, dir. 2011/98/UE, in base al quale «i cittadini di paesi terzi che sono stati ammessi in uno Stato membro a fini diversi dall’attività lavorativa a norma del diritto dell’Unione o nazionale, ai quali è consentito lavorare e che sono in possesso di un permesso di soggiorno ai sensi del regolamento (CE) n. 1030/2002» (art. 3, paragrafo 1, lettera b) e «i cittadini di paesi terzi che sono stati ammessi in uno Stato membro a fini lavorativi a norma del diritto dell’Unione o nazionale» (art. 3, paragrafo 1, lettera c) devono ricevere lo stesso trattamento riservato ai cittadini dello Stato membro in cui soggiornano» per quel che concerne «i settori della sicurezza sociale definiti nel regolamento (CE) n. 883/2004» (cfr. p. 9.2 sent.) .
A questo punto la Corte, sulla scorta delle osservazioni svolte dalla CGUE, ritiene condivisibile l’inclusione dell’assegno di natalità e dell’assegno di maternità nell’ambito applicativo del regolamento n. 883/2004 CE (cfr. p. 9.3 ss. sent.).
In realtà la Corte sembra trascurare che la CGUE si era soffermata in modo prevalente su tale quadro normativo del diritto europeo secondario, senza invece riconoscere un’adeguata centralità all’art. 34 CDFUE, su cui invece la stessa Corte costituzionale nella sua ordinanza di rinvio aveva fatto leva.
E così nei punti successivi della motivazione in diritto della sentenza del 2022 (cfr. spec. p. 10 ss.), la Consulta recupera le considerazioni già svolte in sede di ordinanza, sottolineando come «fra il divieto di discriminazioni arbitrarie e la tutela della maternità e dell’infanzia (artt. 3 e 31 Cost.), da un lato, e le indicazioni vincolanti del diritto dell’Unione europea in merito alla parità di trattamento dei cittadini dei Paesi terzi, dall’altro, intercorra «un rapporto di mutua implicazione e di feconda integrazione» .
Ebbene è proprio l’art. 34 CDFUE la norma “chiave” attraverso la quale la Corte mette in relazione il sistema ordinamentale eurounitario con quello costituzionale interno, e riagganciandosi alle questioni sollevate dalla S.C., sostiene un rapporto strumentale tra l’art. 34 CDFUE e il costante evolvere dei precetti costituzionali di cui agli artt. 3, 31 e 117 Cost. in una “prospettiva di massima espansione delle garanzie” «allo scopo di inverare – in contesti mutevoli e spesso inediti – il principio di eguaglianza e la più ampia tutela della maternità e dell’infanzia».
La Corte ricompone il complesso quadro delle norme multilivello in un’ottica unitaria di sistema, rilevando con fermezza quanto l’art. 34, CDFUE, nel sancire il diritto all’assistenza sociale e all’assistenza abitativa, sia destinato a «garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongono di risorse sufficienti» .
Pertanto, condividendo le conclusioni della Corte di giustizia , la Consulta ritiene che il diritto alla parità di trattamento nel settore della sicurezza sociale, definito nei suoi contenuti essenziali dalla direttiva 2011/98/UE, sia «espressione concreta del diritto di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale di cui all’articolo 34, paragrafi 1 e 2, della Carta».
Dunque il passaggio alla dimensione dell’ordinamento interno è immediato, giacché proprio in ambito costituzionale il combinato disposto degli artt. 3 e 31 offre l’appiglio per leggere le norme oggetto di interpretazione in modo unitario, in relazione alla loro stessa ratio, considerando che l’assegno di maternità e l’assegno di natalità sovvengono a una peculiare situazione di bisogno, che si riconnette alla nascita di un bambino o al suo ingresso in una famiglia adottiva.
Secondo la Consulta quindi queste provvidenze «si prefiggono di concorrere a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana (art. 3, secondo comma, Cost.), e, in particolare, rappresentano attuazione dell’art. 31 Cost., che impegna la Repubblica ad agevolare con misure economiche ed altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose, e a proteggere la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo. Le prestazioni citate assicurano un nucleo di garanzie e non possono essere equiparate alle provvidenze aggiuntive che occasionalmente – e con diversi presupposti – sono state attribuite dalla legislazione regionale già scrutinata da questa Corte (sentenza n. 141 del 2014)». Aggiunge inoltre la Corte che «le odierne misure di sostegno al nucleo familiare e alla madre, indirizzate anche alla famiglia adottiva, assolvono una finalità preminente di tutela del minore, che si affianca alla tutela della madre, in armonia con il disegno costituzionale che colloca in un orizzonte comune di speciale adeguata protezione, sia la madre, sia il bambino (…)» .
Perciò è qui che si fa evidente lo slancio in avanti della Consulta rispetto alla sentenza della CGUE, perché la parità di trattamento è vista non solo nella sua ampia dimensione di sicurezza sociale, ma con specifico riguardo alla dimensione assiologica della Carta costituzionale, da cui discende una tutela generalizzata della genitorialità, della maternità e dell’infanzia, che deve essere garantita a fortiori nelle situazioni di maggiore vulnerabilità dei cittadini immigrati senza un permesso di lungo soggiorno.
Alla luce di tali considerazioni, relative alla funzione costituzionalmente rilevante delle norme censurate, emerge ancora più nitidamente lo stridente contrasto della condizionalità imposta dal legislatore per l’accesso ai relativi benefici e legata non solo alla titolarità di un permesso di soggiorno in corso di validità da almeno cinque anni, ma anche al possesso di un reddito non inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale e alla disponibilità di un alloggio idoneo.
Sebbene sia ammissibile che il legislatore individui un criterio di selezione tra i beneficiari delle prestazioni sociali, ciò deve avvenire a patto che i requisiti selettivi obbediscano a una causa normativa adeguata e siano sorretti da una giustificazione razionale e trasparente .
Nella vicenda oggetto di giudizio, invece, i requisiti fissati sono privi di ogni ragionevolezza, e l’esclusione di alcuni cittadini di Paesi terzi dai benefici sociali avviene sulla scorta di un criterio selettivo slegato dall’effettivo stato di bisogno che invece le prestazioni in esame si prefiggono di fronteggiare. E ciò, secondo le valutazioni espresse dalla Corte, risulta ancor più vero quando oggetto della tutela siano valori come la maternità e l’infanzia, rispetto ai quali il criterio della durata della permanenza nel territorio nazionale non solo non è pertinente ma è anche contradditorio, perché porta a escludere dai benefici coloro che versano in “condizioni di bisogno più pressante”.
In definitiva, le disposizioni oggetto di censura prevedono un sistema di condizionalità più oneroso solo per alcuni cittadini di Paesi terzi che, pur vantando un soggiorno regolare e non episodico sul territorio della nazione, sono sprovvisti dei requisiti di reddito prescritti per il rilascio del permesso di soggiorno.
Inoltre, l’accesso ai benefici assistenziali, ristretto ai soli possessori di un permesso di lungo-soggiorno, se rappresenta già una discriminazione diretta tra cittadini UE e cittadini extra-Ue, assume una particolare connotazione anche tra gli stessi cittadini extra-UE residenti nel medesimo territorio nazionale, creando una sub-discriminazione nell’ambito di soggetti appartenenti al medesimo gruppo sociale, per la differenza di trattamento tra chi è in possesso del permesso di lungo soggiorno e chi non lo è.
La condizione di questi ultimi pertanto sarebbe aggravata proprio dalla loro multipla vulnerabilità dovuta a più fattori discriminatori di cui sono espressione (la lingua, il genere, la nazionalità nonché lo stato di gravidanza e di maternità o di genitorialità).
L’approdo giudiziario appena descritto rappresenta pertanto un ulteriore traguardo verso la parità nel regime di sicurezza sociale tra cittadini comunitari e cittadini di Paesi terzi.
E il valore aggiunto della sentenza della Corte costituzionale risiede appunto nell’aver posto l’accento sulla centralità del sistema valoriale di rango costituzionale a tutela della famiglia e della genitorialità. Tale riconoscimento, se collocato in quell’orizzonte sociale mutevole, assume un’importanza fondamentale in una prospettiva di adeguamento delle politiche legislative secondo un’ottica di genere. E ciò va a sostegno di una più ampia tutela della maternità come fattore gender plus che a maggior ragione va protetta quando a tale condizione si aggiungano altri fattori discriminatori come la razza, l’origine etnica e la lingua.
Peraltro, nonostante la Corte abbia tralasciato l’aspetto dell’intersezionalità, è evidente come le questioni emergenti dalla fattispecie censurata intreccino più fattori di discriminazione.
La sentenza della Corte costituzionale, infatti, si limita ad accennare in modo distinto ai diversi profili violati, ponendo da una parte le norme che riguardano la tutela della maternità e dell’infanzia e dall’altra la necessità che queste tutele siano garantite anche a coloro che ne hanno più bisogno, perché cittadini di paesi terzi senza i requisiti minimi richiesti per il permesso di lungo soggiorno.
Il ragionamento conclusivo avrebbe potuto sottolineare quanto le due dimensioni di vulnerabilità (la maternità, ovvero la genitorialità nel caso dell’assegno di natalità, e la condizione di straniero immigrato) siano inscindibilmente legate nel caso di specie.
Il che non avrebbe determinato alcuna conseguenza sul piano degli esiti processuali, ma dal punto di vista sostanziale avrebbe potuto dare risalto a una condizione di discriminazione particolarmente svantaggiosa per la sua iniquità .
Il riconoscimento dei diritti sociali agli stranieri, difatti, impone una riflessione più ampia sia in termini di ambito della tutela, sia per ciò che riguarda la potenziale intersezione dei fattori di discriminazione , di cui la nazionalità e la condizione di “straniero” potrebbero rappresentare solo un aspetto .
Si impone allora un cambio di prospettiva, anche in termini sostanziali e di approccio alle questioni discriminatorie, per valutare opportunamente le vicende in cui sono coinvolti i cittadini extracomunitari, che spesso più di altri si ritrovano al centro di quell’incrocio di fattori discriminatori che ne aggravano, o in ogni caso ne complicano, la condizione soggettiva, rendendo priva di effettività la tutela da riconoscere.
6. Il tema delle prestazioni sociali in favore degli immigrati , con riguardo a tutti quei benefici che rientrano nel novero dei diritti sociali di cittadinanza, resta ad oggi ancora frastagliato, anche se, come visto, spiragli di luce arrivano dal dialogo multilivello tra le Corti .
Tuttavia, segnali distonici continuano a giungere dalla giurisprudenza domestica.
È di recente pubblicazione la sentenza n. 19 del 2022 con cui la Corte Costituzionale si è pronunciata sulla legittimità dell’art. 2, comma 1, lett. a), n. 1), D.L. n. 4/19 conv. in L. n. 26/19 - laddove esclude dalla prestazione del reddito di cittadinanza i titolari di permesso unico lavoro o di permesso di soggiorno di almeno un anno ex art. 41, d.lgs. n. 286/98 - dichiarando in parte inammissibile e in parte infondata la questione .
La motivazione è molto articolata e densa di spunti di commento, che però non è possibile affrontare in questa sede per ragioni di economia del testo.
Ciò che appare dirimente nell’iter logico della Corte è proprio la natura ibrida della misura del RdC ; argomento questo rilevante a tal punto che la Consulta riconosce di non poter «intervenire “convertendo” verso esclusivi obiettivi di garanzia del minimo vitale una più complessa misura, come quella oggetto del presente giudizio, cui il legislatore ha assegnato, come visto, finalità prevalentemente diverse» (p. 4) . Non si condivide comunque il self restraint della Consulta che avrebbe potuto approfittare di questa occasione per sollecitare l’intervento del legislatore .
Tra le questioni irrisolte - perché comunque non sottoposte al vaglio di legittimità – va ricordata di certo l’annosa questione della residenza in Italia «da almeno dieci anni…di cui gli ultimi due anni in modo continuativo» imposta a tutti i richiedenti il RdC dall’art. 2, comma 1, lett. a), n. 2, d.l. n. 4/2019 ; questa condizionalità infatti esclude in radice l’accesso al RdC di tutti coloro che seppur lavoratori immigrati regolarmente soggiornanti in Italia non abbiano ancora maturato questo requisito legato alla mera residenza nel territorio nazionale.
Un altro nodo da sciogliere è poi rappresentato dall’esclusione dei titolari dello «status di rifugiato», ai quali, secondo l’art. 29, dir. n. 2011/95/UE, in quanto beneficiari di protezione internazionale, tutti gli Stati Ue dovrebbero assicurare un’adeguata assistenza sociale a parità di condizioni con i cittadini dello Stato Ue che ha accordato tale status. Imporre il criterio della residenza come condizione di accesso al godimento di un reddito di cittadinanza, privilegia in modo indiretto i cittadini dello Stato interno rispetto agli immigrati, e se per un verso una simile scelta di politica legislativa si spiega con l’intento di restringere la platea dei beneficiari per ragioni di contingentamento della spesa complessiva, per altro verso non è coerente con le finalità di natura solidaristica della misura stessa.
Da ultimo, sempre sul versante delle prestazioni sociali, con il d.lgs. n. 230/2021 – attuativo della legge delega n. 46/2021 – è stato introdotto l’assegno unico universale, con cui il legislatore intende assorbire dal 1° marzo 2022 tutte le previgenti misure di sostegno al nucleo familiare (assegni e detrazioni).
I soggetti beneficiari, data la natura universale della provvidenza, sono tutti i nuclei familiari indipendentemente dalla condizione lavorativa dei genitori e senza limiti di reddito (il reddito avrà rilievo solo ai fini del quantum dell’importo).
In questo caso, per i cittadini extra-UE, ex art. 3, lett. a), d.lgs. n. 230/2021, è richiesto il possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo ovvero la titolarità di un permesso unico di lavoro autorizzato a svolgere un’attività lavorativa per un periodo superiore a sei mesi, previsto dal d.lgs. n. 40/2014 in attuazione della dir. n. 2011/98.
Tuttavia, per quanto inclusiva, anche in questo caso la platea dei destinatari resta sempre deficitaria, perché ne sono esclusi i titolari di permessi di soggiorno che, ai sensi del comma 8.2. dell’art. 5 TUI, non sono riconducibili al “permesso unico lavoro”: così, in particolare, i titolari di permesso per lavoro autonomo, per protezione speciale, per lavoro stagionale, per vittime di violenza domestica, nonché i permessi rilasciati ai sensi dell’art. 19, commi 1 e 1.1 . Peraltro, la norma tace sui familiari extra-UE dei cittadini dell’Unione.
Tutto ciò appare ancora più irragionevole se si considera che, in piena emergenza pandemica, i divari legati al disagio sociale sono emersi in modo più stridente e le condizioni di vulnerabilità dei soggetti portatori di fattori di discriminazione si sono amplificate .
Anche in una prospettiva di attuazione del PNRR, è imprescindibile tenere presente che l’elaborazione e l’attuazione di politiche, programmi e interventi, non produce lo stesso impatto sulle diverse categorie di soggetti, perché anche un’apparente neutralità delle misure non fa altro che consolidare i gap preesistenti .
Si auspica pertanto che le future disposizioni legislative siano ispirate a modelli che promuovano politiche egualitarie in tutte le fasi del ciclo di formazione delle leggi , dacché il singolo fattore di discriminazione (la razza, il genere o la disabilità) spesso è solo la punta dell’iceberg di un coacervo di altre situazioni che ne amplificano l’effetto sperequativo .
Solo cogliendo tali sfumature del fenomeno discriminatorio i sistemi di protezione sociale e di welfare potranno affrontare le sfide del post-pandemia per promuovere una ripresa che non riguardi solo i processi degli economici ma anche i sistemi di tutela della dignità delle persone .